Fiat ha concluso l’accordo che le permetterà di spostarsi definitivamente negli Stati Uniti. Ieri sera, infatti, si è accordata con il fondo sanitario Veba (nel sistema statunitense, la sanità è solo un’assicurazione privata aziendale, gestita in questo caso dal “sindacato”) – detentore del 41,5% di Chrysler e appartenente al sindacato Uaw – per acquistare la aprtecipazione entro il 20 gennaio 2014. Il Lingotto raggiunge così il controllo totale, al 100%, dell’ex colosso di Detroit, che Obama ha voluto salvare affidandone le sorti – a un certo prezzo – a Sergio Marchionne. Il prezzo pattuito è di 3,65 miliardi di dollari (circa 2,65 miliardi di euro), di cui 1,75 miliardi in contanti e 1,9 miliardi sotto forma di “dividendo straordinario” (a Veba finirà tutto il dividendo annuale, con Fiat che rinuncia alla sua quota).
Un prezzo tutto sommato assai basso. Nel 1998 il gruppo tedesco Mercedes-Daimler pagò 36 miliardi di dollari, mentre nel 2007 (poco prima del fallimento) il fondo Cerberus, per l’80%, sborsò 7,4 miliardi di dollari (praticamente il prezzo attuale). Gli analisti valutavano il 41,5% di Chrysler tra i 4,2 e 5 miliardi di dollari.
Questo accordo evita di arrivare in tribunale (visti i termini fissati dagli accordi precedenti), dopo che Veba aveva paventato di presentare l’Ipo (la quotazione dell’azienda in Borsa come “new entry”) a Wall Street. Un rischio di “diluizione” del controllo azionario o di fissazione del prezzo “a termini di mercato”; quindi anche potenzialmente superiore a quello fissato ieri. Con questo tipo di accordo, tra l’altro, Fiat evita di dover effettuare un problematico aumento di capitale per ottenere lo stesso risultato.
In cambio, il cosiddetto “sindacato” americano si impegna a far passare modelli di organizzazione del lavoro già sperimentati dagli operai di Pomigliano, Melfi e altri stabilimenti italiani del Lingotto. «La Uaw assumerà alcuni impegni finalizzati a sostenere le attività industriali di Chrysler e l’ulteriore implementazione dell’alleanza Fiat-Chrysler – si legge nella nota del Lingotto – tra cui l’impegno ad adoperarsi e collaborare affinché prosegua l’implementazione dei programmi di world class manufacturing e a contribuire attivamente al raggiungimento del piano industriale di lungo termine del gruppo».
Alla luce della struttura di finanziamento dell’operazione VEBA, sottolinea il Lingotto non è previsto un aumento di capitale da parte di Fiat. “Aspetto questo giorno sin dal primo momento, sin da quando nel 2009 siamo stati scelti per contribuire alla ricostruzione di Chrysler”. Così John Elkann, presidente di Fiat, commenta l’accordo con Veba. “Il lavoro, l’impegno e i risultati raggiunti da Chrysler negli ultimi quattro anni e mezzo sono qualcosa di eccezionale”.
Al di là delle frasi di circostanza,ora la Fiat diventa proprietaria a pieno titolo del gruppo Chrysler. La sproporzione industriale – e di mercato potenziale – è tale che di fatto si tratterà del movimento opposto: sarà insomma Fiat a “diventare americana”, non viceversa. I primi dati indicativi di questo spostamento vengono non a caso da Torino-Mirafiori, che già da tempo ha iniziato a trasferire pezzi consistenti del reparto Ricerca negli Stati Uniti. Il “cuore” dello sviluppo tecnologico, insomma, sta già prendendo il volo. A questo punto il mercato italiano conserva un interesse molto relativo (le quote di vendita sono qui ancora molto alte, nonostante la crisi), ma decisamente minore quanto a luogo di produzione.
Un secondo e altrettanto evidente segnale rivelatore è venuto dal trasferimento in Olanda della sede legale di Cnh (la divisione macchine agricole e industriali) per usufruire dei vantaggi fiscali.
Il terzo segnale, ancora più illuminante, è la decisione di concentrare la produzione italiana verso “l’alto di gamma”, ovvero le auto di lusso. Qui “l’italianità” della produzione è un elemento importante, visto che si tratta di mettere su piazza “oggettini” costosi come una Ferrari o una Maserati. Ma questo tipo di marchi e modelli danno certamente un “margine” di guadagno molto più alto all’azienda, ma richiedono anche impianti assasi più piccoli e molto meno personale (ricerca e sviluppo a parte). Insomma, sembraproprio che la Fiat voglia fare della produzione italiana una “nicchia di lusso”, con pochi stabilimenti e pochi lavoratori, lasciando il segmento che l’ha resa famosa – le “piccole a basso costo” – agli ormai imbattibili concorrenti coreani e, a breve termine, anche cinesi.
Non si tratta affatto – come immediatamente scritto da tutti i giornali mainstream – di un “successo del sistema Italia”, ma della certificazione della fuga del capitale “nostrano” verso altri lidi. Un annuncio di desertificazione industriale ulteriore, insomma, come il malessere sociale di Totino ha ampiamente dimostrato nelle scorse settimane. E’ praticamente impossibile, perché insensato, mantenere a Torino la “testa” del gruppo mentre le membra più importanti sono a Detroit. Aggiungiamo il fatto che a questo punto sarà lo stesso Lingotto a volere la quotazione a Wall Street, piazzando un’Ipo in un momento in cui l’azionario mostra ancora segni di tenuta, rientrando così di buona parte dei soldi spesi per acquisire il controllo totale.
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