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Unione Europea, cento vie per l’esplosione

Uno dei più semplici princìpi della fisica domestica spiega che tanto più resistente è un contenitore pieno di materiale infiammabile o esplosivo, tanto più devastante risulterà l’esplosione.

Scorrendo i molti articoli dedicati in questi giorni allo “strappo” della Francia – che ha scelto anocra una volta di infrangere i limiti di Maastricht sul rapporto dficit/Pil, ma chiedendo allo stesso tempo alla Germania di “rispettare i patti” riducendo il proprio surplus – appare evidente che l’Unione Europea, la sua costruzione e il suo modello di governance, sia una pentola a pressione troppo rigida per poter reggere ancora a lungo all’aumento della pressione interna.

Anche il mantra recitato dai media di regime italiani – chiediamo più flessibilità sul rispetto dei vincoli, ma in cambio facciamo subito le “riforme strutturali”, a partire dal mercato del lavoro, confidando in Mario Draghi e la sua volntà di aumentare la liquidità circolante – sta perdendo efficacia davanti ai rischi che questo scambio (ritenuto virtuoso soltanto dalle imprese, e nemmeno da quelle più efficienti) in realtà possa essere impedito dal solito cerbero: la Germania del trio Merkel, Schaeuble, Weidmann.

Ma non esistono “ricette” che non siano anche supportate da interessi precisi, anche se “particolari” – ovvero nazionali, invece che comunitari. Quindi esaminiamone alcune, in modo da individuare con più precisione la posta in gioco e le possibili vie d’uscita (se ci fossero) o di esplosione.

Vito Lops, sul Sole24Ore, mette a confronto le necessità dell’Italia con i problemi creati dalla politica – e dagli interessi – della Germania.

L’Italia deve recuperare competitività in particolare rispetto alla Germania che mentre complessivamente sta accusando un momento di difficoltà (stagnazione del secondo trimestre) sul fronte dell’export continua a sfornare cifre record (avendo superato la Cina con un surplus di oltre 200 miliardi di euro su base annua).

Non bisogna però dimenticare che una buona parte della maggiore competitività tedesca deriva dal fatto che nei primi 15 anni di Eurozona ha generato un’inflazione nettamente inferiore rispetto a quella degli altri Paesi che utilizzano la stessa valuta, attuando una svalutazione del cambio reale attraverso una politica di bassi aumenti salariali reali, tanto da essere accusata anche dal vicino Belgio senza mezze misure di aver adottato politiche di dumping salariale.

Una traduzione appare necessaria: tutto il vantaggio tedesco non è frutto di una particolare “virtuosità” della popolazione o del governo di quel paese, quanto di un tasso di cambio iniziale marco-europarticolarmente sbilanciato a favore di Berlino; accompagnato, nello stess periodo, da una feroce stretta salariale interna (blocco decennale degli aumenti e introduzione dei mini-jobs previsti dal “piano Hartz”, con presidente del consiglio Gerhard Schroeder). Nello stesso periodo veniva concesso alla Germania si “sforare” i rapporto deficit/Pil in considerazione ei gravi problemi creati dalla “riunificazione”, ovvero dell’anschluss dell’ex Ddr.

Rimessasi in piedi, la Germania – questa la tesi veicolata anche da Lops – non ha restituito il favore al resto d’Europa. Mantenendo il vantaggio che doveva essere solo temporaneo ed eccezionale per ridisegnare, com’è in effetti avvenuto, le filiere produttive del vecchio continente e conquistare un primato assoluto nell’export.

Logica comunitaria vorrebbe che ora Berlino si muovesse in controtendenza e Lops dà la parola a Sergio De Nardis, capo economista dell’istituto Nomisma, fondato da Romano Prodi, per illustrare gli auspici degli analisti europei:

«In poche parole, per far sì che l’Italia torni a crescere e che in Europa si colmino gli enormi squilibri macroeconomici creati in questi anni occorre che la Germania generi un tasso di inflazione del 3% per 10 anni. Solo così gli altri Paesi dell’Eurozona potrebbero avere spazio per recuperare competitività ma allo stesso tempo veder crescere la propria economia, con un tasso di inflazione più basso di quello tedesco ma non lontano dal 2% che è l’obiettivo della Bce per l’intera area».

Ma come può la Germania alzare l’inflazione? «Aumentando i salari reali, cosa che non ha fatto nei primi anni di Eurozona. In questo modo stimolerebbe la domanda interna, aumenterebbe le importazioni e ridurrebbe gli squilibri macroeconomici che continua a creare (nonostante gli ammonimenti di Usa e Commissione europea, ndr) con un surplus delle partite correnti superiore al 6% del Pil consentito da ormai sei anni».

Quindi, perché l’Italia esca dalla crisi occorre che la Germania faccia i compitini a casa, cioè dia spazio a un modello di crescita più equilibrato, ribilanciando l’eccessivo export con una domanda interna finora sacrificata. E che investa di più in infrastrutture, dato che – come ammesso dal numero uno dell’Istat tedesco, Marcel Fratzscher «la Germania non sta investendo più e questo sta portando l’economia verso uno sgretolamento».

Occorre cioè che la Germania faccia una sorta di “austerità al contrario”, ovvero stimoli la domanda interna. «Finché il benchmark sarà un’inflazione tedesca intorno all’1% non è possibile per Paesi come l’Italia che appartengono alla stessa area valutaria crescere – prosegue De Nardis -. La Germania deve reflazionare la propria economia. Ma non solo. Con il suo forte surplus la Germania spinge anche in positivo le partite correnti dell’intera Eurozona. Il che rende oggi l’esigenza di svalutare l’euro, attraverso le manovre espansive che sta adottando la Bce, indigesta al resto del mondo. È impossibile per un’area essere in surplus e cercare di svalutare la propria divisa. A patto che non si esporti depressione verso il resto del mondo “succhiando” domanda estera e compensando in questo modo le difficoltà della domanda interna creata da questo modello economico. È anche per questo motivo che nell’ultimo G20 gli Stati Uniti hanno indicato alla Germania di rientrare dallo squilibrio di un Paese eccessivamente sbilanciato sull’export».

 Ma nemmeno il Fondo Monetario Internazionale è riuscito a convincere Merkel-Schaeuble a cambiare linea. In effetti, è più facile ricattare un paese piccolo e in difficoltà economica piuttosto che una potenza economica regionale in ottima salute (direbbe anche Catalano…).

Messa così, non c’è via d’uscita. La Francia ha fatto quel che Renzi aveva soltanto ipotizzato; chissenefrega dei limiti di Maastricht, mica possiamo morire per rispettare un numero. Ma anche l’Italietta di Pontassieve, una volta premesso che “noi invece il 3% lo rispetteremo”, nelle pieghe della legge di stabilità in via di definizione spiega che però “non possiamo ridurre ulteriormente né il deficit né il debito senza avvitarci in una recessione senza soluzioni”.

In altre parole, non si può rispettare il Fiscal Compact, di cui il ministro Padoan ha chiesto la rivisitazione – o almeno la “reinterpretazione” – in sede di riunione dei ministri finanziari europei. Come sintetizza Stafano Lepri su La Stampa

Il «Fiscal Compact» vacilla. Quell’insieme di regole di bilancio molto severe che aiutò (ma non bastò da solo, ci volle Mario Draghi) a uscire dalla crisi dell’euro tre anni fa non è più adeguato oggi, nel seguito di una grande crisi che continua a sorprendere. Se tutti i Paesi lo rispettassero alla lettera, l’Europa si addentrerebbe in una recessione senza fine.

Interessi opposti, divaricati, incomponibili. Chi si è avvantaggiato molto con le regole esistenti non è disposto a cambiarle, e tantomeno a cambiare il proprio “modello di sviluppo”, neppure quando questo comincia a entrare in fibrillazione (anche la Germania, da mesi, emana segnali di stagnazione e deflazione). Chi ne ha subito  danni si è indebolito, e non possiede sufficiente “credibilità” (un misto di solidità, forza, determinazione, ecc) per contrattare – se non imporre – un cambiamento radicale di rotta.

A nessuno di questi analisti, naturalmente, viene in testa di mettere in relazione l’universalità della crisi con il funzionamento interno del modo di produzione capitalistico. Ma se “ci sono paesi con troppi disoccupati e altri con capitali in eccesso” ciò non avviene per colpa del destino cinico e baro; il sistema funziona così. Punto. Crea squilibri e crisi, invece che “sviluppo armonioso” ed “equilibrio”. Con buona pace di Smith, von Hayek e Friedman.

La globalizzazione è finita. Le aree monetarie e continentali (Usa, Unione Europea, Russia, Cina) si vanno separando a velocità e conflittualità crescente. L’Unione Europea è a metà strada tra “integrazione forte” – inevitabilmente sotto il marchio di fabbrica dell’economia più potente – e frammentazione litigiosa. Non può andare avanti senza distruggere anche paesi del centro (la Francia, ma anche buona parte della stessa Germania, che ha creato il suo “mercato del lavoro duale”, con 7,5 milioni di giovani lavoratori da 500 euro al mese) oltre ai “maialini” della periferia mediterranea. Non può tornare indietro perché l’interconnessione reciproca – filiere produttive, specializzazioni, destrutturazioni amministrative nazionali, ecc – è ormai troppo forte.

Occorrerebbe – dal punto di vista capitalistico – un progetto e una leadership capace di pensare “complessivamente”, mettendo da parte le pretese avide e di breve momento delle multinazionali (di qualunque paese), per concentrarsi su una costruzione “equilibrata”.

Naturalmente non esiste e non può esistere. Si va avanti senza progetto, tra strappi e atti di forza, tra “regole” imposte come scarpe strette a piedi troppo grandi, finendo per tagliare carne viva per adattarli a forme astratte (che però rappresentano interessi materiali concretissimi, ma alieni).

Occorrerebbe – dal punto di vista delle classi “dominate” – un progetto e una leadership collettiva lungimirante, continentale, dotata di cultura e strumenti organizzativi. Non c’è e non si vuole che si costruisca. Capiamo perché il capitale lavori per impedirne la creazione; ci sfugge – diciamo così – la ragione per cui gli “oppositori” preferiscano la solitudine dei piccoli circoli litigiosi.

A napoli, stamattina, c’è in campo una possibilità diversa. Sviluppiamola.

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