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Tfr in busta paga? Una scemenza anche per Bankitalia

Le chiacchiere stanno sempre a zero. E Renzi fa soprattutto chiacchiere. Nella bozza di legge di stabilità in discussione con l’Unioen Europea (il Parlamento non ci mette neanche bocca) una delle misure più scopertamente “populiste” – nel senso più ignobile che si può dare a questa parola – era la possibilità di inserire parte del trf (trattamento di fine rapporto, la quota mensile di “liquidazione”, insomma) direttamente in busta paga. Un modo semplice e a costo zero di fare sembrare che il governo stia facendo crescere i salari. Mentre, ovviamente, il tfr sono già soldi guadagnati dai lavoratori; soltanto “accantonati” mese dopo mese per avere una cifra dignitosa a fine carriera (dopo il licenziamento, con i tempi che corrono).

Una furbata ignobile, avevano detto tutti. Ma se la demolizione “tecnica” della misura arriva addirittura da Bankitalia, allora significa proprio che è un’idiozia intollerabile. E anche pericolosa.

E dire che via Nazionale ce l’aveva messa tutta per promuovere la manovra 2015: «Realizza una significativa riduzione del cuneo fiscale sul lavoro» e introduce «alcuni utili incentivi all’attività innovativa», oltre a finanziare «riforme potenzialmente importanti relative all’istruzione scolastica e al mercato del lavoro». L’audizione del vicedirettore generale della Banca d’Italia, Luigi Federico Signorini, però, non ha potuto non fermare la sua approvazione davanti all’anticipo del Tfr in busta paga: «È cruciale che la temporaneità del provvedimento sia mantenuta». Tre anni sono pure troppi.

«Lo smobilizzo del Tfr maturando inciderebbe negativamente sulla capacità della previdenza complementare di integrare il sistema pensionistico pubblico, che in prospettiva presenta bassi tassi di sostituzione, soprattutto per i giovani, mediamente più soggetti a vincoli di liquidità. L’adesione dei lavoratori a basso reddito all’iniziativa aggrava il rischio che questi abbiano in futuro pensioni non adeguate». Insomma, una misura del genere impatta negativamente sull’accumulo dei fondi pensione, anche di quelli privati (imposti a forza in alcune categorie), nonché sui redditi futuri. L’uovo mangiato oggi impedirà di avere una gallina domani.

Ma non è stata l’unica critica radicale dell’impianto della manovra. Anche la riduzione dell’Irap (una tassa che riunifica da anni tutti i contributi delle imprese al fisco) «consente un significativo alleggerimento del costo del lavoro, ma comprime i margini di autonomia delle Regioni, per le quali il tributo rappresenta la principale fonte di finanziamento». «In un assetto efficiente gli enti decentrati devono poter essere responsabili dei livelli di entrate e di spese e su – questa base – venire giudicati dai cittadini. Inoltre, gli interventi modificano in misura significativa la struttura del tributo, rendendo opportuno avviare una riflessione sul suo ruolo nel sistema fiscale italiano». Se invece, come fa il governo, sottrae le fonri di finanziamento agli enti locali, questi vedranno peggiorare il proprio rapporto con i cittadini e alla lunga essere individuati come responsabili – al posto del governo – del degrado generale dei servizi. Non c’è che dire: era proprio questa l’intenzione di Renzi…

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