In un mondo unificato dal capitale, prima o poi i prezzi inziano a convergere verso una media pressoché uguale dappertutto. È già così per il prezzo del petrolio e di molte altre materie prime fondamentali. Lo sta diventando anche per l’ultima merce i cui “confini naturali” sono più difficili da superare, non foss’altro che per la babele delle lingue e delle normative locali (sia in uscita che, soprattutto, in ingresso): la forza lavoro.
Il rapporto globale sui salari pubblicato stamattina dall’International Labour Organization (Ilo) fotografa una situazione di rapida diminuzione delle differenze salariali nel mondo. Con movimenti rapidi sia dal basso verso il “centro” che viceversa. E non c’è dubbio che il mutamento più doloroso sia quello che riguarda i paesi di vecchia industrializzazione, quelli “avanzati”, in cui il capitalismo “solo nazionale” aveva dovuto contrattare – o scelto di concedere per prevenire i conflitti – salari più alti e sistemi di tutela generalizzati, inverando in qualche misura il principio del “diritto alla vita”, o almeno alla sopravvivenza.
Non è più così. E si vede, si sente, si tocca.
La crescita dei salari – dice l’Ilo – è ben lontana dai livelli pre-crisi ed è praticamente crollata nei paesi industrializzati, mentre nelle economie emergenti continua ad aumentare. I salari globali mensili sono cresciuti del 1,2% nel 2011, rispetto al 3% del 2007 e al 2,1% del 2010. Queste cifre sarebbero anche più basse se la Cina fosse esclusa dai calcoli.
Tenuto conto dell’inflazione media globale, insomma, possiamo dire che non c’è stato mediamente alcun aumento; tranne appunto in Cina, dove il salario medio cresce a velocità superiore a quella del Pil. «Questo rapporto mostra chiaramente che in molti paesi la crisi ha avuto un forte impatto sui salari e, quindi, sui lavoratori», ha affermato il Direttore Generale dell’ILO Guy Ryder. «Ma l’impatto non è stato uniforme».
Naturalmente, la funzione istituzionale dell’Ilo costringe a trovare una spiegazione meno “sistemica”: le variazioni salariali sarebbero perciò relative ai trend di crescita economica. In questo modo là dove c’è forte crescita – in Cina ed altri paesi emergenti – i salari corrono verso l’alto, mentre dove la dinamica produttiva è in stallo o in calo si sono fermati o addirittura arretrano.
“Mentre la crescita salariale ha sofferto di una doppia flessione nelle economie industrializzate — dove è prevista allo zero per cento nel 2012 — essa è rimasta positiva per tutto il corso della crisi in America Latina e Caraibi, in Africa e anche di più in Asia.
I cambiamenti più significativi si sono registrati in Europa dell’est e Asia centrale, dove si è passati da tassi a due cifre prima della crisi ad un brusco rallentamento nel 2009. In Medio Oriente, benché i dati siano ancora incompleti, i salari sembrano aver avuto un crollo a partire dal 2008”.
E’ però sul lungo perioso che la dinamica “sistemica” viene fuori con assoluta chiarezza: tra il 2000 al 2011, globalmente, i salari sono cresciuti meno di un quarto. Ma “la media del pollo”, anche in questo caso, appiattisce una distribuzione quanto mai diseguale: in Asia, infatti, sono quasi raddoppiati, mentre nell’Est Europa dell’est e in Asia centrale sono addirittura triplicati. Nel mondo industrializzato sono invece aumentati appena del 5% circa. Di fatto, al netto dell’inflazione (+20%, nella media europea), il potere d’acquisto dei salari occidentali (e giapponesi) è in undici anni drasticamente diminuito.
A questa caduta dei redditi da lavoro dipendente – che giustamente non tiene affatto conto delle differenze contrattuali (stabili, precari, intermittenti, ecc) – va inoltre aggiunto il peso del calo dell’occupazione in tutti i paesi “avanzati”, malamente mascherata proprio dalla precarizzazione universale.
Ciò nonostante, le differenze tra paesi sono ancora fortissime: prendendo ad unità di misura il dollaro Usa, un lavoratore del settore manifatturiero nelle Filippine prende circa 1,40 per ogni ora lavorata, rispetto ai quasi 5,50 in Brasile, 13 in Grecia, 23,30 negli Stati Uniti e quasi 35 in Danimarca.
Per l’Italia la situazione è molto peggiore della media, tanto che soltanto la Grecia può “vantare” risultati peggiori: “la forte recessione è stata accompagnata da un periodo senza precedenti di calo dei salari reali”, ovvero del potere d’acquisto. L’indice dei salari è qui calato – prendendo come base=100 il 2007 – a 94,3 nel 2012 e nel 2013. Significa una perdita reale del 5,3% (suprati solo dalla Gran Bretagna, nello stesso periodo, che li ha abbassati del 7,1%).
L’altro dato fondamentale è la diminuzione della produttività nel nostro paese, nonostante le decine di “riforme del mercato del lavoro” finalizzate – in teoria – ad “aumentare la produttività”. Quando diciamo e scriviamo che i governanti degli ultimi trenta anni hanno sistematicamente mentito in proposito è perché abbiamo presente la più banale delle leggi economiche: la “produttività”, infatti, è una derivata degli investimenti in macchinari. Ovvero della possibilità di produrre in meno tempo – o con meno occupati – l’identica quantità di merce (oppure, con lo stesso numero di dipendenti, una quantità superiore di “pezzi”).
Ma se un’intera classe imprenditoriale – come quella “italiana” – si rifiuta da decenni di metter mano al portafoglio per investire, preferendo – grazie a governanti servili – lucrare ancora qualche spicciolo facendo lavorare le persone qualche ora in più con gli stessi macchinari, oppure aumentando un poco i ritmi di lavoro, gli straordinari, riducendo i permessi e le possibilità di malattia, ecc… ecco che il risultato è una diminuzione della produttività, oltre che una riduzione del salario medio.
La conferma arriva proprio dall’Ilo, che certifica come – là dove si investe – anche se i salari aumentano, ciò avviene a un ritmo inferiore all’aumento della produttività. Cosa significa? Che anche gli imprenditori di quei paese fanno soltanto gli affari loro, non hanno alcuna “simpatia” per i propri dipendenti (“i lavoratori hanno usufruito meno dei frutti del loro lavoro mentre chi detiene il capitale ha ottenuto maggiori benefici”, dice l’Ilo); ma fanno i capitalisti sul serio, e quindi investono sapendo che altrimenti sono destinati a restare fuori dalla competizione globale. Qui, invece, si voirrebbe “competere” soltanto strizzando i salari. Una strategia perdente, ma che ammazza più velocemente i lavoratori, prima ancora di produrre fallimenti industriali in serie.
Anche nei paesi che registrano una crescita salariale, insomma, bisognerebbe fare diversamente. «Ladovve esiste, questa tendenza deve essere invertita», ha dichiarato Ryder. «Dal punto di vista politico e sociale, l’interpretazione più chiara è che i lavoratori e le loro famiglie non stanno ricevendo quello che meritano».
Anche in Cina, un paese dove i salari sono quasi triplicati in dieci anni, la quota destinata al lavoro è diminuita mentre il Pil è cresciuto molto più rapidamente della massa salariale totale.
Mettendo insieme tutti i dati, insomma, la conclusione è esattamente identica: i salari globali viaggiano verso la “media”, e stanno accelerando in questa direzione. Per noi “vecchi industrializzati” è una tragedia, specie se continueremo ad accettare di rinunciare agli aumenti salariali, pur di avere solo un lavoretto qualsiasi…
Il rapport dell’Ilo, in inglese:
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