Il prezzo del petrolio è un pivot finanziario di cui non molti conoscono la portata. Il calo vertiginoso degli utlimi mesi – meno 40% da giugno – stringerà presto il cappio intorno a parecchi colli.
Si pensa in primo luogo geopoliticamente. Quindi ai problemi irrisolvibili o comunque durissimi di paesi che dalle esportazioni dipendono integralmente. Venezuela e Russia, in primo luogo, pur se con margini di reazione diversi (la Russia sta facendo incetta di oro con i dollari ricavati dalle vendite, per assicurarsi la possibilità di far fronte comunque alle proprie esigenze di importazione); e gli stessi paesi del Golfo, che hanno riserve valutarie sufficienti a coprire ogni problema per alcuni anni.
Si pensa anche alle società petrolifere impegnate a estrarre shale oil con la tecnica del fracking, il cui punto di pareggio viene convenzionalmente collocato tra i 60 e i 75 dollari al barile. Qui le analisi divergono alquanto, visto che esperti del settore come Maugeri sono in grado di spiegare ome non esista un unico prezzo di produzione con questa tecnica. C’è chi produce a 30 dollari al barile e chi sopra gli 80; anche nella stessa società e nello stesso “giacimento”. Anche in questo settore, insomma, tecnologia e caratteristiche del terreno fanno molta differenza. Ma un dato resta in primo piano: anche tra le società petrolifere ci sarà selezione, non tutte reggeranno l’abbassamento verticale del prezzo (che del resto viene perseguito “politicamente”, alla faccia delle “leggi oggettive del mercato”, proprio a questo scopo).
E qui si scivola rapidamente nel settore finanzario. Molto dello sfruttamento dello shale è avvenuto grazie a generosi prestiti garantiti da titoli corporate, in pratica carta straccia emessa dalle stesse società. Chi è esposto su questo fronte si farà molto male…
Ma più in generale i titoli energetici globali – da Exxon a Eni, da Shell a Bp, fino ai parvenu dello shale – hanno perso in pochi mesi una capitalizzazione di borsa pari a mille miliardi di dollari.
Ben gli sta, siamo d’accordo. Ma il domino non finisce qui, in una catena globale dove tutto è connesso. Gli “avvoltoi” degli hedge fund si preparano a chiudere l’anno in passivo pesante, e non solo loro. Il Bloomberg Commodity Index, comprendente ben 22 materie prime, è sceso del 10% in undici mesi; tutti gli indici e i fondi speculativi collegati stanno affrontando un tornante pericoloso. E stanno chiudendo le attività a un ritmo che, secondo IlSole24Ore, “ricordano la grande recessione del 2009”.
È anche questo un processo di selezione, che elimina i piccoli – che non hanno “grasso” accantonato per affrontare lunghe tempeste, e favoriscono quelli più grandi. Volete una misura della crisi? Il settore garantisce ormai un rendimento di appena il 2% annuo. Come i Btp italiani.
La corsa delle borse mondiali sta per deragliare, probabilmente…
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