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Trema il settore shale oil, e anche la finanza Usa

Tutte le cancellerie occidentali stanno lì a gustarsi la caduta rovinosa del prezzo del petrolio, conteggiando ognuno per conto suo gli effetti risparmiosi sulla bolletta energetica e lo strangolamento dell’”orso russo”, che dipende dalle esportazioni di greggio e gas per un quarto del Pil. Incidentalmente, lo stesso accade per altri due “nemici dell’America”, come Iran eVenezuela. Quindi, cosa si può volere di più?

Alle spalle dei gaudenti, però, è partita una valanga per ora ancora piccola, che minaccia di diventare gigantesca se il prezzo scenderà ancora o resterà a lungo su questi livelli. E si tratta di una valanga che parte come sempre dagli Stati Uniti per poi investire – tramite la globalizzazione dei mercati finanziari e la perdurante centralità del dollaro (come moneta di riserva e di di scambio internazionale).

I primi pezzi della valanga sono costituiti dalla difficoltà o impossibilità di molte società impegnate nell’estrazione dello shale oil o del gas – con la devastante tecnica del fracking – di continuare a finanziarsi sui mercati. Una lunga serie di queste società ha potuto godere di una breve (due-tre anni) di prestiti facili, dando in garanzia i profitti futuri che “immancabilmente” sarebbero derivati dall’estrazione faticosa di queste risorse energetiche, descritte da qualche redattore “a stipendio” delle compagnie petrolifere come infinite. Inutile spiegare ai disinformatori che in un mondo finito non può esistere nulla di infinito, tanto meno giacimenti di idrocarburi formatisi tra 30 e 120 milioni di anni fa e tecnicamente definiti “non riproducibili” (non fabbricabili, insomma).

Ma l’aspetto immediato – certo più importante per i mercati che non il progressivo esaurimento delle risorse – sta appunto nella crisi che sta già ora colpendo il settore shale, fondamentalmente statunitense.

Un articolo di Sissi Bellomo, sul confindustriale IlSole24Ore, spiega dettagliatamente agli investitori che lo shale è ormai un settore da cui tenersi alla larga, visto che “genera flussi di cassa negativi”, visto che il petrolio estratto con fracking copre i costi di produzione solo se il prezzo medio supera i 70 dollari al barile.

Le conseguenze sono praticamente certe: caduta dei livelli produttivi e scatafascio nel settore finanziario dei junk bond, ovvero i titoli che offrono guadagni forti in base a un “profilo di rischio” decisamente alto. L’eventuale esplosione di questa bolla finanziaria e il rapido risalire del prezzo del petrolio (se la produzione statunitense scenderà in modo sensibile, anche solo di un paio di mioni di barili al giorno) aprirebbero un nuovo fronte di crisi proprio in un punto su cui le cancellerie occidentali avevano messo una lapide.

Come spiegavamo – inutilmente – quando è esplosa la “guerra del prezzo del petrolio”, ogni forzatura per ragioni geostrategiche sul mercato dell’energia è una scelta necessariamente suicida. Così come le “sanzioni” nei confronti dell’unico fornitore importante (la Russia copre il 30% dei consumi europei) che abbia anche una solida stabilità interna. Per ora, come raccontano tutti gli oservatori seri dei “mercati”, le borse tengono grazie alle continue “iniezioni li liquidità” operate dalle banche centrali (Fed, Bce, Boj, ecc). Niente però può andare avanti all’infinito

Ma vaglielo a spiegare agli apprendisti stregoni e al loro codazzo di propagandisti…

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Shale oil, i cordoni della borsa stanno per chiudersi: investitori in fuga dai debiti spazzatura

di Sissi Bellomo

Per lo shale oil americano i cordoni della borsa stanno per chiudersi: ottenere finanziamenti sta diventando sempre più difficile e costoso per il settore che ha trainato il successo dell’industria petrolifera negli Stati Uniti. E col flusso di denaro rischia di assottigliarsi anche quello di greggio.

Sul mercato dei capitali i segnali di crisi si stanno moltiplicando rapidamente e Citigroup invita ad osservarli con attenzione perché saranno un «fattore chiave» per determinare le sorti del petrolio nel 2015. A spaventare, osservano gli analisti della banca, è il «funding gap»: nel suo insieme il settore dello shale oil genera flussi di cassa negativi e si sta diffondendo il timore che «se il mercato del debito si tira indietro, ci possa essere un crollo delle trivellazioni».

Considerazioni di questo tipo stanno forse dando sostegno alle quotazioni del greggio, che da qualche giorno cercano con insistenza un rimbalzo, dopo essere precipitate sotto 60 dollari per la prima volta da 5 anni.

Le “obbligazioni spazzatura”, maggiore fonte di finanziamento per le società dello shale oil, sono sempre più rischiose: negli Usa il rendimento dei junk bond del settore energia, che a giugno era sotto il 5%, si è impennato fino a superare il 10% e almeno un terzo delle emissioni ricade ormai nella categoria “distressed”, che implica un’alta possibilità di rivelarsi insolventi.

Le tensioni sono così forti che si stanno manifestando segni di contagio. L’intero mercato dei junk bond Usa – fino a pochi mesi fa molto apprezzato nel mondo “a interessi zero” costruito dalla Fed – oggi sta facendo scappare gli investitori. I riscatti dai fondi obbligazionari high yield proseguono senza sosta da quasi un mese e stanno accelerando: nell’ultima settimana se ne sono andati oltre 3 miliardi di dollari netti, secondo Lipper, la scorsa settimana 1,9 miliardi e quella precedente 859 milioni. Mercoledì intanto la performance dell’intero comparto, misurata dall’indice Us High Yield di BofA Merrill Lynch, è andata per la prima volta in rosso per il 2014, perdendo lo 0,3% in termini di total return (ossia tenuto conto dei dividendi). C’è poi stata una leggera ripresa, ma quest’anno si avvia comunque a chiudersi come il peggiore dal 2008, quando la perdita fu del 26,4% (ma i mercati finanziari erano nel pieno della bufera scatenata da Lehman Brothers).

Nel settore energia persino le obbligazioni “investment grade”, emesse da società con un rischio di credito moderato, iniziano a risentire qualche contraccolpo. Le nuove emissioni sono rallentate, in particolare quelle delle società attive nello shale oil, che negli ultimi mesi si contano sulle dita di una mano. E sono ovviamente diventate più costose, benché (per ora) non in modo eccessivo.

Le banche per il momento non hanno fatto mancare il loro appoggio alle società di fracking, che per la natura stessa della loro attività hanno bisogno di rifinanziarsi di continuo: per estrarre shale oil non bisogna mai smettere di trivellare nuovi pozzi e i flussi di cassa generati dal petrolio spesso non bastano a ripagare sia gli interessi sul debito sia il proseguimento delle operazioni. L’impresa poi è diventata molto più difficile oggi, con gli oneri finanziari che salgono e il prezzo di vendita del petrolio che è sceso a rotta di collo, dimezzando le entrate rispetto a giugno. Anche le linee di credito potrebbero però ridursi tra qualche tempo, perché se le quotazioni del greggio resteranno depresse prima o poi verranno svalutate anche le riserve petrolifere delle società, che fungono da collaterale in molti accordi di finanziamento con le banche.

 

 

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