È l’ora delle “riforme dei trattati” che reggono l’Unione Europea. Dopo sei anni passati a difendere “austeramente” le regole scritte ai tempi di Maastricht (quando le economie nazionali “tiravano” e l’inflazione era ancora un problema per alcuni paesi), nel pieno di una crisi da cui nessuno sa come uscire, mentre un paese membro come la Grecia è di nuovo sull’orlo del baratro dopo essersi suicidato obbedendo – pur tra grandi resistenze popolari e sindacali – agli ordini della Troika… ecco che i sommi criminali che reggono la baracca cominciano ad ammettere che “così non va”. E quindi bisognerà cambiare qualcosa.
Prima che tiriate un sospiro di sollievo, vi consigliamo di abbandonare ogni illusione. Quando costoro parlano di “riformare” qualcosa stanno certamene meditando un nostro peggioramento: nelle condizioni di vita, nei livelli salarali, nei poteri democratici.
Ma qualcosa devono cambiare. Giusto per capire che aria tira, il primo capitolo che verrà aperto riguarda ancora una volta le banche, e quindi il baricentro del sistema bancario europeo: la Bce. Si sono accorti, questi criminali che passano per super-esperti, che l’Unione bancaria varata appena due anni fa ha un difetto strutturale piuttosto serio. In pratica, affidare alla Bce la sorveglianza sulle banche private comunitarie configura un possibile “conflitto di interessi”, visto che la stessa Bce deve decidere su tassi di interesse, prestiti, acquisti di titoli (privati e di stato), ecc. Quindi si comincia a parlare di istituire un’altra “autorità indipendente” – sia mai detto che ci sia un potere autorizzato a mettere il naso nelle banche dipendente dalla “volontà popolare”, cui pure si plaude quando c’è da destabilizzare paesi fuori del recinto – incaricata di questa specifica bisogna.
Ma il cuore della partita sulle “regole” si giocherà ancora una volta intorno alla Grecia, martoriato paese condannato a fare da cavia. Troppo piccolo per far crollare l’Unione Europea in caso di fallimento procurato, ma anche abbastanza grande da fornire test attendibili sul grado di sopportazione popolare e sulle dinamiche politiche interne scatenate dalle misure in stile Troika, Atene va alle elezioni anticipate con un carico “sperimentale” molto superiore alle sue possibilità di controllo.
Al centro c’è il “pericolo Syriza”, sottoposta contemporaneamente a una campagna elettorale europea di taglio “terroristico” e a trattative semi-formali per neutralizzarne l’eventuale vittoria. Evento peraltro per nulla facile, se per vittoria bisogna intendere la formazione di un governo e dunque una maggioranza parlamentare che i sondaggi per ora escludono.
Ma il “laboratorio greco” è importante anche al di là delle intenzioni della coalizione che governerà il paese dopo il 25 gennaio. I mercati finanziari stanno attendendo con crescente impazienza l’uso del “bazooka” promesso da Mario Draghi ormai oltre due anni fa. Si tratta della grande “immissione di liquidità” fatta di acquisti di titoli di Stato – per ora si è limitata a prestiti alle banche, oltre ad acquisti mirati di titoli-spazzatura privati – la cui componente principale dovrebbe riguardare proprio i bond italiani, spagnoli, portoghesi e naturalmente greci.
Qui, come noto, Bundesbank (e Merkel e Shaeuble) punta i piedi, temendo di dover coprire con soldi dei contribuenti tedeschi eventuali perdite della Bce. Se uno di quei paesi fallisce, automaticamente i titoli di stato messi in cassaforte diventano carta straccia. Ma anche se davvero Syriza riuscisse a formare un governo e mantenesse poi l’intenzione di “ricontrattare il debito”, puntando a un consistente taglio delle cifre da resistuire, i conti della Bce subirebbero un certo scossone.
Non è finita. Qualsiasi governo Atene si dia, il problema resta aperto. Perché può benissimo trovarsi nella condizione di non riuscire a pagare neanche obbedendo agli ultimi ordini della Troika (allungamento ulteriore dell’età pensionabil, ulteriori privatizzazioni, ecc). A quel punto “i mercati” taglierebbero i rifornimenti (la Grecia si troverebbe di nuovo a non poter rifinanziare il proprio debito) e la “paurosa” eventualità di una uscita di Atene dall’euro sarebbe quasi una conseguenza obbligata, anche se non voluta.
Con questa incertezza sul futuro a breve, dunque, le pressioni tedesche per “immobilizzare” Draghi si fanno più intense. Così come il vuoto chiacchiericcio su “riforme dei trattati”, su cui nessuno azzarda né previsioni né tantomeno ipotesi. Qualsiasi modifica dello statu quo, infatti, comporta perdite di posizione per alcuni e migliore posizionamento per altri, con inevitabile contorno di trattative lunghissime, oscurissime, fatali per paesi – come l’italietta renziana – la cui unica idea di sviluppo consiste nell’offrirsi nudi e indifesi agli “investiment stranieri” (proprio come l’Albania, “tasse basse e niente sindacati”).
Ma “cambiare si deve”. Se n’è convinto anche il presidente di Bundesbank, Jens Weidmann, che ha provato a indicare la direzione con una intervista a Repubblica, nei giorni scorsi: la Bce potrebbe acquistare titoli di Stato soltanto se il “rischio di insolvenza” resta a carico delle banche centrali nazionali, non di quella comunitaria. Sembra un compromesso, in realtà prefigura – nemmeno nascondendolo troppo – una separazione dei destini. Senza “mutua assicurazione”, senza condivisione dei rischi, infatti, non può esistere alla lunga nessuna comunità sovranazionale. Tantomeno se erogatrice di regole strangolatrici come lattuale Unione Europea.
La Germania sta dunque accarezzando l’idea di un’Unione più arcigna con i deboli e contemporaneamente rassicurante con i forti (“solo vantaggi, niente rischi”). Oppure ognuno per sé. Alla faccia dell’”europeismo” come valore assoluto…
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