Un giorno +3%, il giorno dopo -3%. I movimenti delle borse indicano nervosismo crescente, più che incertezza. Indicano anche che c’è una massa di “capitali liquidi” in cerca di valorizzazione, ma senza alcuno sbocco che garantisce un minomo di tranquillità.
E ne hanno molti motivi. Prendiamo lo scenario europeo, con la Bce che giovedì spiega – accenna, fa capire… la comunicazione ai mercati è fatta di messaggi sciamanici, ormai, più che di discors chiari – che dal 22 di questo mese comincerà a comprare titoli di stati; ovviamente a partire da quelli più traballanti (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Cipro) per dare “stabilità” ai relativi debiti pubblici e immettere altre quantità enotmi di “liquidità” nel sistema finanziario. Tutti felici, bose che volano…
Il giorno dopo la stessa Bce invia una lettera alle banche ordinando di rispettare più stringenti meccanismi di sicurezza, a a cominciare dai “requisiti di capitale” posti a riserva come garanzia per eventuali insolvenze. In pratica: diminuite i pestiti a imprese e famiglie, specie se non sono da considerare ultra sicuri. Un’indicazione in contraddizione aperta con quella del giorno prima e che rivela preoccupazioni sistemiche sul mondo del credito. Tutti infelici, in fuga “verso la liquidità”, vendendo azioni e obbligazioni ritenute rischiose, crollo delle quotazioni.
Colpa anche di un oscuro governatore della banca centrale estone, Ardo Hansson, che dichiara alla stampa «personalmente troverei problematico annunciare un programma di acquisto bond inclusi quelli greci a gennaio». Ovvero prima di sapere chi vincerà le elezioni ad Atene e quindi che tipo di obbedienza la Troika avrà (totale o da ricontrattare). Senza questa informazione-chiave, dice l’estone, di comprare titoli di stato gerci non se ne parla. Non è un dettaglio, visto che proprio la Grecia è il paese di nuovo al centro delle paure continentali.
Di qui il diffondersi di voci secondo cui il “quantitative easing” che potrebbe essere permesso a Mario Draghi da Bundesbank e alleati est europei potrebbe non superare i 500 miliardi di euro; molto meno di quanto sperato, atteso, ipotizzato.
Ma nemmeno gli Stati Uniti hanno portato notizie tranquillizzanti. E dire che il dati sul Pil (+5%) e l’aumento dell’occupazione ufficiale (+252.000 posti di lavoro, con un tasso di disocupazione che scende al 5,6%, avrebbero giustificato l’esatto opposto. Il problema è che i dati statistici andrebbero letti nel loro insieme, mai singolarmente. Si vedrebbe – come vedono gli analisti esperti – che il numero di americani disoccupati non censiti dalle statische sulla disoccupazione è enormemente più alto, perché non acchiappano quanti il lavoro non lo cercano nemmeno più. Soprattutto, si vedrebbe che i salari medi sono in discesa (-0,2%), il che indica una “qualità dell’occupazione” molto bassa (“lavoretti”, si direbbe in Italia), sottopagata e quindi non in grado di spingere i consumi di massa verso l’alto. Ma se i consumi non crescono anche la produzione rallenta.
Non basta, insomma, far scrivere ai giornali solo quel dato che dovrebbe suscitare “ottimismo”. C’è la bruta realtà dell’economia reale che resta sostanzialmente ferma in tutto l’Occidente capitalistico. E la finanza, gonfiata dalla droga emessa dalle banche centrali, comincia a rendersi conto che il distacco tra i due mondi – l’economia reale dovrebbe essere pur sempre il “sottostante” delle quotazioni borsistiche – è ormai troppo ampio. Che “la bolla” è troppo gonfia e non potrà che comportarsi come tutte le bolle finanziarie della storia. “E’ nella sua natura”, direbbe il supercomputer di Dark Star.
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