Tutti i giornali, noi compresi, ci siamo in queste settimane occupati quasi soltanto del contenzioso europeo intorno alla nuova Grecia di Tsipras e Varoufakis, attratti – giustamente – dall’ennesima variazione sul tema dello scontro tra Davide e Golia.
Ma c’è un’altra guerra in corso, nello stesso tempo, e vede protagoniste le banche. Che usano, non sembri blasfemo, argomenti e toni che ci si aspetterebbe da un leader syrizista, con qualche venatura più scopertamente nazionalista. Prima di pensare “ma che ce ne frega a noi delle banche” conviene ricordare che il “sistema del credito” è fondamentale nell’attuale sistema di produzione europeo (specie italiano), perché ne dipende il finanziamento degli investimenti alle imprese e dei consumi (mutui, prestiti, ecc, alle famiglie).
Una guerra quasi sotterranea, condotta al massimo su giornali ultraspecializzati (es: Milano Finanza), ma con un solo nemico: la Germania, l’austerità, il rigorismo, le regole troppo rigide.
La fortuna è che questa battaglia, essendo condotta da esperti della materia – anziché da imbroglioni messi a fare i leader politici o i presidenti del consiglio – mette in chiaro i termini del contendere, senza rifugiarsi in frasette banalotte per rimbambire un pubblico che non chiede altro.
Viene detto chiaramente che regole attuali – quelle che hanno passato la vigilanza sugli istituti di credito alla Bce – sono talmente insensate che avvantaggiano soltanto i più forti. Ovvero le banche tedesche. E strozzano le possibilità di “crescita” molto più di qualsiasi diritto dei lavoratori. Ma guarda un po’ chi l’avrebbe mai sospettato…
Il meccanismo “tecnico” – concordato mediante trattative interstatuali e mediato da trattati specifici – è molto interessante, perché apre uno squarcio su quel micromondo di ultrapotenti che decidono delle nostre vite (e anche delle banche, pare).
Da un lato sono state fissati “requisiti di capitale” molto stringenti per le banche. Si tratta della quantità di capitale che ogni banca deve tenere a riserva per affrontare eventuali crisi innescate da mancati rientri dei prestiti concessi (eventualità molto frequente, in tempi di crisi). Sembra – ed è – una precauzione molto logica, prudenziale, per non trovarsi un’altra volta nella situazione del 2008-09, quando gli Stati hanno dovuto correre a salvare le banche incrementando in modo eccezionale quel “debito pubblico” che poi le popolazioni sono state costrette a ridurre, distruggendo sistemi di welfare costruiti in tutto il dopoguerra.
Dall’altra, però, nella definizione dei criteri-guida di questi “requisiti di capitale”, si è stabilita la percentuale messa in riserva soltanto in relazione ai capitali prestati, e non a tutte le attività di una banca. Cosa c’è di diverso? Solo questo: le banche che hanno come business principale l’erogazione di credito (a imprese e famiglie, quindi all’economia reale) sono di fatto “ammanettate”, perché considerate “a rischio”; quelle che invece fanno speculazione finanziaria, creano “prodotti derivati” o, come si dice in gergo, praticano “effetti leva” sconsiderati, sono giudicate perfettamente sane.
Indovinate i paesi di riferimento dei due tipi di banca e avrete esattamente l’immagine dell’Europa divisa tra Piigs e “satrapi austeri” del grande Nord.
Attenzione, però. Questo meccanismo selettivo è molto dinamico e contribuisce a riscrivere il potenziale industriale dei diversi paesi in direzione delle aziende capo-filiera, inevitabilmente e in primo luogo tedesche. Nel complesso, dunque, la “politica dell’austerità” è una politica di redistribuzione continentale: “la crisi dell’Eurozona per Berlino si è trasformata in un grande affare; gli investitori sono fuggiti dai paesi in difficoltà (che a quel punto hanno rischiato davvero di saltare, come accaduto anche all’Italia nell’estate del 2011) e si sono riversati sui titoli tedeschi. Così la Germania si è potuta finanziare per anni a tassi zero o addirittura negativi“. Bel vantaggio competitivo, non vi pare? Altro che jobs act e abolizione dell’art. 18… E hai voglia a tagliare spese e diritti, con questi sistemi si scavano baratri che non si colmano a forza di salari bassi. E se le imprese fuggono a investire da un’altra parte, o chiudono semplicemente i battenti, non c’è incentivo di “regole” che possa farle tornare indietro o restare. Non si può essere “competitivi” con la Germania perché non hai quella potenza di fuoco. Punto.
Quando si rompono le dighe del rancore, però, è difficile tenere a freno l’informazione importante. La Grecia dei truffatori Karamanlis-Papandreou-Samaras avrà avuto certamente enormi responsabilità nel portare il paese sull’orlo del default, ma “la prima ristrutturazione del debito greco è stata fatta in ritardo per dare tempo alle banche tedesche di ridurre l’esposizione“. Non è un segreto che questo “ritardo” ha fatto levitare enormemente il costo del “salvataggio” (se si fosse intervenuti per tempo, è stato calcolato che sarebbero bastati 50 miliardi, anziché i 240 di cui si parla tanto).
L’Unione Europea, fuori dalla retorica comunitaria, è un terreno di battaglia di tutti contro tutti, “dove inevitabilmente vince il più forte“. Quando sentite qualcuno parlare di “rispetto delle regole”, sta in realtà dicendo “obbedite al nuovo padrone”. E persino un banchiere, a quel punto, si fa saltare la mosca al naso…
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa