Pecunia non olet. E comunque un giro di valzer per tentare di rimettere un piede nel travolgente ritmo di sviluppo asiatico – nonostante l’attuale rallentamento – vale il rischio di una scortesia all’alleato-padrone.
È il caso della Gran Bretagna che, con qalche sorpresa, ha presentato formale richiesta di entrare a far parte dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AiiB). Non è una banca qualsiasi, ma l’alternativa ad altre banche di investimento a centralità americana, come l’Asian Development Bank, che ha sede a Manila. Fondata con un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari nel novembre scorso, è fondamentalmente una creatura cinese che ha raccolto in pochi mesi l’adesione di altri 25 paesi asiatici e mediorientali
Quasi entusiatica la nota con cui George Osborne, Cancelliere dello Schacchiere, ha datio la notizia: “Forgiare i legami economici, tra il Regno Unito e l’Asia per dare alle nostre imprese le migliori oppurtunità per lavorare e investire nei mercati con il più alto tasso di crescita mondiale, è uno degli obiettivi centrali nei nostri programmi economici di lungo periodo”.
Pechino, da parte sua, ha già dato il suo benigno assenso alla candidatura del Regno Unito: “Se tutto andrà bene, il Regno Unito diventerà un membro fondatore della AIIB alla fine di marzo” si legge nel comunicato ufficiale pubblicato sul sito del ministero delle finanze cinese.
Un concorrente diretto degli “interessi strategici degli Stati Uniti”, insomma, che fin qui non aveva ancora registrato la presenza di un paese occidentale, per di più membro del G7. Si comprende che la notizia non sia affatto stata gradita a Washington. I portavoce della Casa Bianca hanno subito stigmatizzato l'”incessante conciliazione” di Londra nei confronti di Pechino, contro cui avrebbe in teoria un contenzioso aperto per l’attuale gestione dell’ex colonia di Hong Kong. Di più, la decisione di David Cameron sarebbe arrivata “senza praticamente consultarsi con gli Stati Uniti”. E tra alleati privilegiati, al punto che tutti ritengono la presenza inglese nell’Unione Europea come l’azione di una “talpa” Usa), certe cose non si dovrebbero fare. O, perlomeno, non se lo dovrebbe permettere l’alleato più debole (è noto che difficilmente gli Usa consultano qualcuno, prima di prendere decisioni che ritengono vantaggiose dal punto di vista nazionalistico.
Del resto, con la nascita della Aiib, Washington perderebbe il dominio assoluto sui rubinetti della finanza nella regione Asia-Pacifico e avrebbe quindi provato a convincere i suoi partner principali (Giappone, Australia e Corea del sud), senza grandi risultati, a non entrare nel progetto cinese.
L’ostilità statunitense è stata per ora espressa sotto il profilo “tecnico”, per bocca del portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale Usa, Patrick Ventrell: “riteniamo che qualsiasi nuova istituzione multilaterale debba avere gli elevati standard governance della Banca Mondiale e delle altre banche regionali di sviluppo, la nostra preoccupazione è che l’Aiib non possa averli”.
Ancor meno deve essere piaciuta a Washington l’approvazione della Banca Mondiale, non casualmente espressa dal suo presidente, il coreano del Sud Jim Yong Kim: “Dalla prospettiva semplicemente del bisogno di più spese per le infrastrutture, non c’è dubbio dal nostro punto di vista che accogliamo con favore l’arrivo della Asian Infrastructure Investment Bank”.
E nessuno può in effetti contestare, dal punto di vista strettamente capitalistico, che l’Asia (Cina, Giappone e Corea del Sud a parte) abbia una grandissima necessità di opere infrastrutturali, a partire da comunicazioni, trasporti e energia. Un business potenziale dai ricavi altissimi: secondo le stime degli esperti di sviluppo, nei prossimi 20 anni c’è bisogno di finanziare nel mondo progetti infrastrutturali per 5.000 miliardi di dollari all’anno.
Gli alleati degli Stati Uniti in Asia (Giappone, Corea del Sud e Australia) ancora non avevano aderito all’Aiib cinese. E indubbiamente la mossa inglese facilita una scelta a favore della partecipazione, soprattutto per Australia e Corea, che non hanno in piedi particolari conflitti con la Cina.
E proprio l’Australia – peraltro membro del Commonwealth britannico, per quanto poco conti ormai questa istituzione sul piano globale – sembra prossima a fare il gran passo.
Pechino negli ultimi anni ha chiesto più volte una riforma delle istituzioni finanziarie internazionali (dominate dall’Occidente) che tenesse conto dei mutati equilibri economici planetari, con lo spostamento a oriente di una fetta importante della produzione e della crescita mondiale. Non ha ottenuto alcuna risposta. E quindi ora si muove, cambiando immediatamente gli equilibri in virtù del peso economico orami conquistato.
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