da Il Sole 24 Ore del 18 gennaio 2011
Gli avvoltoi della finanza e la carneficina greca
Claudio Gatti
NEW YORK – Trentottesimo piano della Bank of America Tower, il nuovissimo grattacielo di vetro nel cuore di Manhattan a un isolato da Times Square. Uffici di Marathon Asset Management. Appuntamento ogni lunedì mattina alle 7 in sala riunioni, dove i gestori del portafoglio si confrontano con i responsabili del risk management per decidere come meglio investire i dieci miliardi di dollari da loro gestiti. Molto spesso la decisone finale spetta a Bruce Richards, fondatore e presidente di Marathon.
Una vita professionale trascorsa in un’unica strada – Wall Street – Richards ha cominciato trent’anni fa a Paine Webber. Per passare a Lehman Brothers, poi a Donaldson, Lufkin & Jenrette e infine a Smith Barney. In un certo senso è sintomatico che nessuna di queste banche di investimento esista più. Lehman è implosa, le altre sono state risucchiate dai giganti del settore – Ubs, Credit Suisse e Morgan Stanley. È la finanza, baby. Dove il darwinismo regna sovrano. Ma quella di Marathon è forse la forma di finanza più pura che esiste. Con i capitali non costruisce niente, scommette soltanto. Il suo è capitalismo d’azzardo.
Marathon non ha un motto. Il più appropriato sarebbe mors tua vita mea. Quello in cui si cimenta è infatti un gioco a somma zero: se Marathon si arricchisce è perché qualcun altro si è impoverito. Anzi, peggio, è andato fallito. I profitti più spettacolari Richards li ha fatti a seguito di alcuni dei più grandi disastri finanziari della storia. A partire da quello di Long-Term Capital Management, il fondo speculativo del Connecticut salvato dalla Federal Reserve nel 1998, passando per quello di Enron e WorldCom.
In occasione dell’ultima crisi finanziaria, quella che adesso rischia di affossare la Grecia, Marathon fu uno dei primi a ritirare i propri capitali da Bear Sterns (accelerandone il crack) e a creare un suo fondo per beneficiare dal bagno di sangue dei mutui subprime.
«La liquefazione del mercato dei subprime è stata assolutamente incredibile. E ha creato opportunità significative» scrisse in quell’occasione Richards in una lettera ai suoi clienti in cui annunciava la creazione di un nuovo fondo «per giovarsi della carneficina del mercato subprime con una strategia di acquisto opportunistico di beni sottovalutati». Parole sue. Che descrivono il modus operandi di Marathon con un cinismo a cui non sarebbe arrivato neppure a un membro di Occupy Wall Street.
Ed è la stessa strategia che adesso Richards sta applicando alla Grecia. Marathon è infatti uno degli speculatori che negli ultimi mesi si sono gettati sui titoli di Stato greci. Assieme ad altri fondi speculativi come York Capital Management Lp, passato alla storia per le fortune fatte comprando bond di società fallite, dalla Enron alla Adelphia Communications, da Tyco International a World Comm.
Cifre precise non sono disponibili. A secondo di chi le fa, le stime dei titoli di Stato greci nelle mani di speculatori oscillano tra i 10 e i 70 miliardi (quest’ultima cifra, probabilmente esagerata, è stata fatta la settimana scorsa al Wall Street Journal da un anonimo «alto funzionario governativo» greco).
A parte Marathon e York, ci sono Och-Ziff Capital Management, CapeView Capital Llp, Saba Capital management Lp e Vega Asset Management, il fondo spagnolo creato da un ex trader del Banco Santander.
Per tutti costoro il possibile fallimento della Grecia costituisce adesso un’opportunità. Si badi bene: non per comprare a prezzi stracciati beni o aziende da ricostruire o rivalorizzare. No, qui si parla di puri e semplici ‘acquisti opportunistici’. E la «carneficina» che potrebbe seguire a un’eventuale bancarotta di Atene interessa soltanto in quanto potenziale fattore di moltiplicazione del guadagno.
«Può sembrare impietoso, ma della Grecia, dei greci, e del futuro dell’euro, non importa a nessuno qui. È un investimento come ogni altro: conta solo uscirne con un congruo bottino» dice una fonte in un fondo hedge «fortemente esposto sulla Grecia».
È una partita a poker. Che si deve concludere ben prima del 20 marzo prossimo, quando andranno in scadenza 14,4 miliardi di euro di titoli greci. Atene non ha i soldi per pagare i debitori, né la capacità di piazzare nuove emissioni sostitutive. Per evitare il default ha bisogno del secondo piano di sostegno europeo. Ma quei 130 miliardi di aiuti sono subordinati alla ristrutturazione del debito con i privati, il cosiddetto Private sector involvement, o Psi, il cui negoziato è stato sospeso la settimana scorsa.
Il tempo stringe. Charles Dallara, l’americano a capo dell’associazione che rappresenta banche e hedge fund nel negoziato, lunedì scorso ha detto che un accordo di principio deve essere completato entro la fine di questa settimana se si vuole finalizzarlo prima del 20 marzo.
In termini generali agli investitori privati i greci stanno chiedendo di accettare ‘volontariamente’ la conversione dei titoli posseduti in nuovi titoli ventennali o trentennali con maggiori garanzie in caso di default, un tasso di rendimento del 4 o 5% e un valore nominale dimezzato (nel gergo si parla di haircut del 50 per cento). Per rendere l’affare meno amaro, c’è poi un cosiddetto addolcitore: circa 35 miliardi in contanti da distribuire al momento dell’accordo.
Il termine ‘dimezzamento volontario’ del valore di un investimento potrebbe sembrare un ossimoro. Ma si conta sul fatto che le conseguenze di un default disordinato della Grecia potrebbero essere peggiori.
La volontarietà è elemento essenziale dell’accordo. Perché permetterebbe di interpretare la manovra non come una vera e propria ristrutturazione del debito, che farebbe scattare i cosiddetti Credit default swaps, o Cds, cioè i contratti di assicurazione contro il default. Sarebbe piuttosto un rimodellamento soft senza ramificazioni esterne.
Sembrava cosa fatta. Anche perché i Governi e la Banca centrale europea sono intervenuti sugli istituti finanziari. Ma il vero ossimoro è persuadere gli speculatori. Anche perché ognuno di loro ha una diversa strategia di quello che Moritz Kraemer, responsabile per i rating sovrani europei di Standard & Poor’s, ha definito «rischio calcolato».
Chi ha in pancia Cds, non ha interesse ad accettare l’haircut. Ma negli ultimi mesi il prezzo dei Cds sulla Grecia è salito molto e per fondi iperspeculativi come quelli di cui stiamo parlando non avrebbe avuto senso dotarsene.
C’è però uno strumento derivato alternativo ai Cds al quale ha fatto ricorso almeno uno degli hedge fund che ha recentemente investito in titoli greci: il recovery swap. Si tratta di un prodotto che garantisce un tasso di risarcimento predeterminato nel caso di default. Se alla fine della procedura di default si recupera meno di quel tasso, la differenza viene rimborsata dalla controparte dello swap. Se si recupera di più, la differenza va alla controparte. Un’altra forma di scommessa. Che però garantisce una copertura seppure parziale.
Poi c’è chi non ha né Cds né recovery swap e ha comprato titoli greci nella primavera scorsa a prezzi ultrascontati. Avendo beneficiato fin qui dei loro tassi di rendimento elevati, potrebbe in teoria essere propenso ad accettare l’haircut e portarsi a casa i contanti dell’addolcitore. Ma non è detto. «Dipende dalla capacità di sopportazione del rischio» spiega la nostra fonte. «Si può fare anche il ragionamento opposto: poiché si è recuperato già buona parte dell’investimento, si può rischiare di più e rifiutare l’accordo Psi sperando che raccolga comunque l’adesione di una larga maggioranza dei creditori. A quel punto, per chiudere il negoziato con tutti, l’Europa potrebbe essere indotta a offrire di più a chi si è tenuto fuori». C’è un termine in gergo per costoro: free rider. Che poi è un’elegante forma inglese per definire gli scrocconi.
In questo momento più che mai puntare a fare i free rider significa essere disposti a correre forti rischi. Nell’attuale clima politico i governanti europei sono infatti ben poco propensi a premiare gli speculatori più aggressivi. «Sappiamo bene dei free rider» ci dice uno dei negoziatori europei. Lo sanno anche i greci. Come ha dimostrato il portavoce del Governo Pantelis Kapsis, il quale venerdì scorso ha parlato dell’introduzione di una «clausola di azione collettiva» che, in caso di approvazione a maggioranza imporrebbe l’accordo Psi anche a chi non lo ha accettato.
Ma la nostra fonte nel fondo hedge ci spiega che è una minaccia che suona vuota agli speculatori. Perché se l’accordo fosse ritenuto ‘non volontario’ dall’organo internazionale che valuta i cosiddetti eventi di credito, l’International swaps and derivatives association, scatterebbero i risarcimenti dei Cds, un’eventualità che le autorità greche e quelle europee hanno finora cercato di evitare. Anche perché metterebbe a repentaglio i conti degli istituti finanziari che li hanno venduti scatenando una serie di reazioni a catena di non facile gestione.
«È una partita sul filo del rasoio, fatta di misure e contro-misure, mosse e contromosse» ci dice il negoziatore europeo, non nascondendo la frustrazione per le energie impegnate a far fronte ai ‘fondi avvoltoio’.
Solo all’ultimo si saprà chi l’avrà avuta vinta. Chi perderà è invece già chiaro: i greci. E con tutta probabilità sarà una carneficina.
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