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La Cina è troppo vicina

La logica matematica, o la banale aritmetica, dovrebbero spingere i cantori del turbocapitalismo a preoccuparsi più della sindrome cinese che non delle convulsioni intorno al debito della Grecia. E fuori dall’Unione Europea, in effetti, si guarda a quel che sta avvenendo in oriente come alla tempesta che può far precipitare la crisi globale – mai terminata né “risolta” nel corso degli ultimi otto anni – in un vortice inarrestabile.

A voler essere precisi, i problemi centrali al momento sono ben tre: a) la crisi greca, che minaccia la tenuta dell’euro e della stessa Unione Europea, b) il default di Portorico, che riguarda gli istituti finanziari statunitensi (e che, come sta facendo la Ue, non ha alcuna intenzione di sobbarcarsi un “piano di salvataggio”); e infine c) l’esplosione della “bolla finanziaria” cinese, di gran lunga la più rilevante sul piano globale.

Mentre le prime due potrebbero esser considerate problemi “regionali”, se solo li si volesse affrontare con logica diversa da quella del semplice “creditore”, la terza è di fatto sistemica per la dimensione ormai assunta dall’economia del Celeste Impero. Per capirci, è di certo la seconda economia del pianeta e, a seconda dei calcoli, qualcuno pensa che sia di fatto diventata la prima. Almeno sul piano della produzione di merci.

Ma il tracollo delle borse cinesi nell’ultimo mese – meno 6% oggi, dopo il -28% delle ultime due settimane – presenta le identiche caratteristiche di altre bolle finanziarie che hanno scosso il sistema capitalistico globale da vent’anni a questa parte. Valori azionari fuori da qualsiasi rapporto con la realtà (59 volte i profitti attesi delle società quotate, quando il price/earnigs ottimale dovrebbe essere a 16), rapidissima crescita (+110% dall’inizio dell’anno) permessa dall’effetto-calamita su risparmi al minuto, “irrazionale euforia” sostenuta – paradossalmente solo in apparenza – dalla fiducia assoluta nella capacità regolatoria di un… partito comunista.

Ma a quanto pare le dinamiche del capitalismo sono indifferenti persino al tentativo di governarle da parte di una grande potenza non-liberista, che ha promosso una “accumulazione originaria” all’interno di un “sistema socialista” (in forma decisamente diversa da quella sovietica degli anni ’30), con uno Stato attento a programmare favorendo l’iniziativa privata, ma senza sottoporsi alla sua sola logica.

Nel frattempo la Cina è diventata la manifattura del mondo, ha sviluppato un robusto mercato interno, è diventata la prima consumatrice di materie prime – specie energetiche -, nonché la principale acquirente di titoli di stato americani (e non solo), quindi finanziatrice del debito Usa.

Chi si mette a studiare gli “schemi Ponzi” sviluppatisi nella finanza cinese non vede alcuna differenza con quelli statunitensi o inglesi o tedeschi. Gente che si indebita per comprare azioni, società che vendono prodotti finanziari derivati dal “sottostante” irrintracciabile, quindi un sistema bancario ombra che stampa circolantesenza essere una banca centrale e al di fuori di qualunque mercato regolato.

Come lucidamente osservano alcuni analisti, “per fortuna” l’industria cinese è poco finanziarizzata. Significa che la liquidità necessaria proviene da profitti e normali prestiti bancari, non dal reperimento di capitali sui mercati (obbligazioni e azioni). Ma “poco” è comunque molto per un’economia già in rallentamento (parzialmente programmato), e che dunque può facilmente andare in stallo. A quel punto tutti i “creditori” internazionali e nazionali correrebbero a pretendere la restituzione dei prestiti privati (ormai arrivati al 155% del Pil), con risultati pessimi per quelle imprese e anche per molti creditori stessi (se i soldi non rientrano diventano “sofferenze”, in linguaggio tecnico).

Si chiama contagio. Di lì al panico il passo può diventare breve, come si è visto molto spesso in questi anni. E in questi giorni.

 

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