Un pezzo dopo l’altro, l’Italia se ne va… Parafrasando Luigi Tenco, c’è un sentore di entropia nella vendita di Italcementi ai tedeschi del gruppo Heidelberg, come se si fosse fatta l’abitudine a perdere autonomia produttiva.
Qui – conviene dirlo subito – non c’è alcuna nostalgia per le “grandi famiglie” del capitalismo italiano, semmai preoccupazione sulla situazione che si potrebbe trovare davanti un soggetto politico della trasformazione sociale. Ovvero un paese pieno di gente ma povero di caacità di produrre quel che serve a mantenerla dignitosamente in vita, se non addirittura a farle vivere uno sviluppo non orientato dal profitto.
Italcementi, punta di lancia del gruppo guidato da Giampiero Pesenti, fondata nel 1864 e attualmente quinto produttore mondiale di cemento, non è soltanto il principale fornitore dei “palazzinari” italici, ma una vera e propria multinazionale con forte specializzazione. La lista delle sue partecipazioni di controllo è infatti non solo molto lunga, ma copre di fatto tutti e cinque i continenti.
La famiglia Pesenti è da sempre una delle protagoniste del “salotto buono” della borghesia nazionale, tanto da partecipare da altrettanto tempo al controllo del Corriere della sera. La sua fuoriuscita segna dunque un salto di qualità di questa manciata di imprenditori verso il livello superiore della “borghesia europea” – anche se al momento non sono note le partecipazioni che otterrà in altre multinazionali in cambio della cessine della maggioranza di controllo dell’Italcementi – e contemporaneamente una rinuncia a svolgere un ruolo anche “nazionale”.
Non per caso, un profondo conoscitore delle dinamiche del “salotto buono”, come il vicedirettore del Corsera, Dario Di Vico, si sofferma oggi con molti interrogativi sul “muteamento geometrico” del capitalismo italiano, dalla “piramide” al “trapezio”. Sorvoliamo sulle manchevolezz dell’analogia – in questo modo si perde anche la terza dimensione, passando da un solido a una figura piana – e concentriamoci, se ci riusciamo, sulla più evidente “perdita della punta” nella stratificazione imprenditoriale di questo paese.
L’elenco delle grandi imprese nazionali passate di mano, acquisite da multinazionali con base in altri paesi e continenti, non è infinito solo perché di grandi imprese private, qui, non ce ne sono mai state tante. Ma l’elenco è comunqie significativo, da Loro Piana a Indesit, da Pirelli a Parmalat, per non ricordare l’esito delle “privatizzazioni” di grandi imprese nate sotto proprietà pubblica (Alitalia, Telecom, Ansaldo Breda, fino alla lenta agonia dell’Ilva ex Italsider).
Un esodo dei proprietari che testimonia dell’incapacità-impossibilità di diventare centri aggregatori di gruppi multinazionali più grandi – Fiat marchionnesca a parte, ma che di fatto è un’americanizzazione, non certo una “conquista dell’America” – e che quindi si consegna alle dinamiche di concentrazione dei capitali tipica di una lunga fase di crisi in cui chi non cresce è destinato a scomparire.
Le multinazionali italiane vere, insomma, sono già state quasi tutte assorbite (i gruppi più grandi ancora in campo sono peraltro due banche, Unicredit e IntesaSanPaolo), e nella parte alta del “trapezio” rimangono delle “multinazionali tascabili” (Ferrero, Lavazza, Luxottica, ecc) il cui destino non sembra molto diverso.
In questo processo di integrazione c’è non solo “perdita”, ma anche ascesa di alcuni soggetti – manageriali, più che proprietari – verso l’integraziuone in quel management multinazionale che si profila ormai come qualcosa di ben più complesso, impersonale, potente della nozione stessa di “borghesia”. Nozione inevitabilmente legata a una stratificazione sociale generata da attività con forte base “nazionale”, anche se perennemente votata alla conquista di altri mercati di sbocco o produzione.
Il capitalismo multinazionale è un’altra cosa, i suoi protagonisti vivono da un’altra parte, in ogni caso all’interno di un’altra logica e con una visione che prescinde totalmente dai confini. Anche se sta prendendo progressivamente atto che la “seconda globalizzazione” è finita e dunque deve fare i conti con nuovi e solidi confini, continentali o quasi continentali, stavolta, anziché novecentescamente “nazionali” (a meno di non essere stati Uniti, Cina o Russia, ovviamente).
E comunque questa fuga della “punta” capitalistica nazionale verso un altrove che non ci viene neanche comunicato ha effetti pesanti sulla struttura del potere sul territorio dove continuano a vivere 60 milioni di abitanti. I grandi imprenditori se ne vanno e, per usare un’immagine di questi giorni, emergono come “manager di rincalzo” le associazioni mafiose, i gruppi clientelari a ridosso della (sempre calante) spesa pubblica. Gruppi di “occupanti di posti”, esperti in interdizione di progetti e sottrazione di risorse, non certo portatori di “visione strategica” di ampio respiro.
Per fare un esempio: com’è possibile che la gestione del Porto turistico della capitale – un hub naturale per il turismo anche di medio-alto livello (avendo in mente i costi di gestione di una barca) – sia finito nelle mani di un bancarottiere impastoiato nei giri di Mafia Capitale? Quali interessi mai possono aver armato di benzina e innesco i piromani in azione ai bordi delle piste di Fiumicino? Per una volta, vista la storia degli incendi estivi di questo paese, non si potrà indicare la speculazione edilizia, quindi?
Quale borghesia nazionale europea ha mai permesso una così evidente rottura della credibilità internazionale dello Stato? Di certo non quella inglese, francese o tedesca. Ma neanche quella spagnola e portoghese hanno abbandonato in modo così evidente il controllo degli snodi strategici (infrastutturali, per colmo di ironia).
La vendita di Italcementi, insomma, conferma una tendenza alla distruzione degli assetti sociali e di potere, produttivi e finanziari, della “tenuta” complessiva di questo paese.
Non c’è nostalgia da coltivare, ripetiamo. C’è da prendere atto, e anche le misure, di un contesto parecchio diverso, di un terreno di battaglia per molti versi ignoto e ancora in via di strutturazione. Che interroga chi, come noi, non si rassegna a subire passivamente le scelte del capitale multinazionale e ambisce a creare una alternativa vivibile, concreta, migliore.
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