A un tossicodipendente il regalo di una dose non può che riuscire gradito. Soprattutto se il regalo è accompagnato dalla promessa di altre dosi, se necessarie, e di dimensioni anche maggiori, per un periodo più lungo.
La risposta “positiva” delle borse europee alla decisione della Bce – lasciare i tassi di interesse allo 0,05%, prolungamento del quantitative easing anche al di là del settembre 2016, inizialmente fissato come limite temporale – è stata perciò quella classica del tossico: salti di gioia, tradotti in salita dei listini mediamente sopra il 2%.
Ma c’è davvero da gioire? Non si direbbe, perché le motivazioni di questo regalo continuo sono tutte negative. La crescita europea rallenta ancora, invece di essere rilanciata proprio dalle “politiche monetarie espansive”. E anche le previsioni a breve sono peggiori. Quindi si continua a iniettare liquidità – acquistando titoli di stato e societari, o addirittura azioni – nella speranza ormai vana che qualche goccia di questo torrente finisca anche all’economia reale, ma sapendo benissimo che finirà quasi tutta in speculazione finanziaria.
Lo dimostra l’inflazione, che la Bce vorrebbe veder tornare al livello considerato fisiologico (il 2%), e invece resta vicinissima allo zero dopo vari trimestri passati addirittura sotto. Segno che l’economia non tira, la domanda langue (la gente spende meno per consumi), le industrie non producono abbastanza e dunque non investono per aumentare la produzione.
Tanto più che dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, si sta per riaprire la fase dei rialzi dei tassi di interesse. Quindi un periodo più o meno lungo in cui una massa sconfinata di capitali si ritirerà dai mercati europei e soprattutto quelle dei paesi emergenti per riversarsi sui titoli del Tesoro o altri asset finanziari statunitensi, considerati “sicuri” e a un rendimento – da qui a poco – più alto.
La Federal Reserve, guidata da Janet Yellen, ha infatti trovato strada facendo l’ultima giustificazione “tecnica” per dare il via al rialzo, anche se a un ritmo certamente molto moderato. La disoccupazione ufficiale è infatti scesa ancora, al 5,2%, ben al di sotto del 6, considerato a sua volta “fisiologico”. E non importa a nessuno, se non ai diretti interessati, che la disoccupazione reale Usa sia molto più ampia, se una famiglia su cinque (il 20%) è composta da tutti disoccupati. Per le statistiche di Washington, infatti, contano coltanto i numeri registrati presso gli uffici di collocamento. Se in tanti sono così “scoraggiati” dalla lunga attesa nelle liste da aver rinunciato a prorogare l’iscrizione, fa lo stesso. Se in tanti hanno lavorato anche soltanto un’ora nell’ultima settimana, con il salario minimo inchiodato a 7,25 dollari l’ora (sei euro), non fa niente lo stesso; sono ufficialmente occupati, quindi tutto va bene.
La mossa statunitense non servirà a questa gente, ma a rastrellare capitali in giro per il mondo, ad alimentare una guerra finanziaria condotta senza mezzi termini, secondo un ciclo attivo da oltre 44 anni (dalla fine degli accordi di Bretton Woods, unilateralmente decisa da Richard Nixon). Rotta la parità dollaro-oro, gli Stati Uniti sono diventati l’unico paese al mondo a poter “stampare” moneta garantendo l’affidabilità della stessa con la propria potenza militare, anziché con la solidità dei fondamentali economici. Un modo semplice, rapinatorio, di scaricare le proprie contraddizioni sul resto del mondo.
Può darsi che la decisione non arrivi il 15-16 settembre, data della prossima riunione del Fomc della Fed. Ma se ci sarà un rinvio sarà solo “grazie” alle turbolenze globali messe in moto dalla frenata cinese. Non ad altre considerazioni.
Il giorno dopo Mario Draghi “scoprirà” (tranquilli: lo sa meglio di noi) che la liquidità emessa dalla Bce prenderà direttamente la via dell’America, sbattendosene allegramente dell’economia reale del Vecchio Continente. Non sarà un bello spettacolo.
Vedi anche: https://contropiano.org/documenti/item/32339-in-questa-guerra-la-finanza-conta-piu-delle-portaerei
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