Se a distanza di soli cinque giorni, sul giornale di Confindustria, escono due (ottimi) articoli scritti da persone diverse, in cui si mette educatamente in discussione la serietà teorica dei manuali di economia adottati nelle facoltà del Vecchio e del Nuovo Continente, si vede che il problema sta diventando molto grande (vedi https://contropiano.org/articoli/item/33617).
Senza teoria non ci si vede. Checché ne pensino i “pratici”, gli innamorati del “qui e ora”, del “franza o spagna purché se magna” (sul piano intellettuale, è ovvio), la complessità del reale è tale che solo cercando un filo logico rigoroso si può tentare di capirci qualcosa. Una teoria può essere sbagliata, un’altra giusta ma insufficientemente elaborata, ecc; ma senza una teoria si reagisce al movimento delle cose come un agnello in mezzo al branco. Si possono dare capocciate isteriche, ma la fine è certa…
Le teorie neoliberiste – quelle che dominano sui manuali obbligatori – non riescono a spiegare quel che sta accadendo dal 2007 ad oggi. Quindi, letteralmente, impediscono di vedere. Ma se non si vede, non si riesce a fare un’esame critico della situazione. Dunque non si possono prendere decisioni sensate. O meglio, visto che parliamo di capitale, si possono prendere decisioni vantaggiose per chi le prende, anche se magari mortali per il sistema.
Scendiamo sulla terra. L’articolo che qui di seguito vi proponiamo di leggere, di Vito Lops, spiega benissimo perché la decisione che tra oggi e domani dovrà prendere la Federal Reserve sia importantissima per l’evoluzione della crisi finanziaria globale; ma indica anche l’assoluta inefficacia delle scelte fin qui fatte da tutte le banche centrali del mondo, sulla base di assunti teorici e aspettative pratiche prive di riscontri.
626 tagli dei tassi di interesse, dal 2008 ad oggi, non hanno arrestato la caduta dell’inflazione. Né ci sono riusciti i numerosi e massicci quantitative easing, che hanno forse migliorato i bilanci delle grandi banche di investimento, ma non hanno avuto effetti concreti nell’economia reale.
O meglio, hanno avuto soltanto un effetto: hanno rinviato di continuo la resa dei conti tra i troppi capitali in cerca di valorizzazione.
Se la Fed decide di rialzare per la prima volta i tassi dopo sette anni di tagli innesca una spirale opposta mirando ad attirare parte di quei capitali verso il sistema finanziario Usa. E costringerà dunque tutti gli altri a fare altrettanto per frenare un drenaggio devastante le economie “emergenti” (ma anche quella europea). Il tutto mentre queste economie sono o in deflazione o in recessione, o comunque in drastico rallentamento.
Se la Fed lo fa, è una decisione di portata storica, con qualche robusta connotazione bellica. Se non lo fa, cede alle richieste che arrivano da tutto il mondo, compreso il Fmi. Dunque rinuncia ad operare banca centrale operante nell’esclusivo interesse degli Stati Uniti. O quantomeno rinvia il momento delle “scelte irrevocabili”.
Sottolineiamo, prima di lasciarvi alla lettura di Lops, come questa situazione globale di stallo sia il risultato di un indubbio “successo” del capitale nei confronti del lavoro. Trentacinque anni di neoliberismo hanno schiantato ovunque i salari e i diritti, distrutto sindacati e organizzazioni “progressiste”, travolte – anche quelle socialdemocratiche – dal tracollo del “socialismo reale”. Quel che Lops chiama ancora “ceto medio” (in realtà il lavoro salariato stabile, certo di poter prendere impegni finanziari a lungo termine come i mutui, ecc) è, dopo questa “cura”, impossibilitato a consumare quanto potenzialmente può esser prodotto.
Tre decenni di “politica dell’offerta”, tutta tesa ad abbassare i costi di produzione, hanno insomma distrutto la domanda.
Chi giustamente ragiona in termini teorici per trovare le soluzioni, è costretto dunque a buttar via le vecchie teorie liberiste. Ma non ne trova di alternative.
C’è deflazione anche nel pensiero.
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La deflazione spaventa Cina, Giappone, Usa ed Eurozona. Dal 2009 le banche centrali hanno tagliato (invano) 626 volte i tassi
di Vito Lops – IlSole24Ore
Oggi e domani si riuisce la Federal Reserve. Deciderà se e quando rialzare i tassi per la prima volta da 10 anni. Una decisione che andrebbe contro la direzione globale visto che tutte le altre principali banche stanno tagliando i tassi. Come mai? La politica monetaria sembra ardua se raccontata al bar. Ma forse lo è un po’ meno se passa questo concetto: quando le cose vanno bene le banche centrali alzano i tassi per evitare che la corsa dell’economia faccia salire oltremisura l’inflazione, cioè il prezzo dei beni, per evitare un’eccessiva perdita del potere d’acquisto di chi ha redditi nominali stabili. Quando invece le cose vanno male, le banche centrali tendono a ridurre i tassi per rendere meno caro il costo del denaro, i prestiti alle imprese, i mutui alle famiglie. Nella speranza che questa liquidità aggiuntiva aiuti l’economia a risollevarsi.
Bene, a giudicare da quello che sta accadendo dal 2009 ad oggi le cose non è che stiano andando granché bene. Il termometro ineccepibile delle scelte di politica monetaria delle banche centrali ci dice che da allora sono stati tagliati i tassi per 626 volte.
L’ultimo caso balzato alla cronaca risale a venerdi quando la People’s Bank of China ha deciso di tagliare il costo del denaro per la sesta volta da novembre. Poco prima anche la Banca della Serbia ha sforbiciato i tassi, precedendo India, Taiwan e Norvegia.
Paesi agli antipodi geografici ma accomunati dalla scelta delle rispettive banche centrali di alleggerire le maglie del credito. Il conto delle sforbiciate del 2015 sale così a 69 (attuate da 45 banche centrali, alcune delle quali hanno quindi effettuato più di un taglio). È stato quindi già superato il totale dello scorso anno (65). Certo, siamo lontanissimi dal picco del 2009 (207 riduzioni) e dal totale raggiunto nel 2012 (108). Di questo, però, passo il 2015 potrebbe eguagliare il bilancio del 2013 quando i tassi furono tagliati per 89 volte nel mondo.
Non va dimenticato che ci sono stati istituti che sono andati ben oltre le sforbiciate, perché avevano portato in precedenza i tassi su livelli non più “tagliabili”. Quando infatti i tassi vengono portati a 0 ma non è abbastanza per risollevare l’andamento economico bisogna ricorrere alle manovre di riserva, quelle cosiddette non convenzionali. La più nota è il “quantitative easing”, cioè un allentamento monetario. È quello che hanno fatto Stati Uniti e Gran Bretagna dal 2009, Giappone dal 2013 ed Eurozona dal 2015. Come funzionano? Le banche centrali “stampano” nuova moneta e acquistano asset sui mercati aperti, fornendo così nuova liquidità a fondi di investimento e istituti di credito (che vendono alle banche centrali i loro asset).
Riepilogando, dal 2009 tutte le principali banche delle più importanti economie del pianeta non solo hanno azzerato i tassi ma sono state “costrette” a fornire un ulteriore aiutino all’economia attraverso piani di “Qe”. Le altre banche che invece hanno ancora i tassi sopra lo 0 e quindi non sono ancora arrivate al “Qe” hanno comunque ridotto il costo del denaro per 626 volte, 69 volte solo nel 2015.
Leggendo il dato al contrario, tutte queste misure sono figlie di un rallentamento globale dell’economia che si riflette anche in un conseguente rallentamento dell’inflazione e un crescente pericolo di disinflazione o deflazione, cioè di stagnazione o addirittura flessione dei livello dei prezzi di beni e servizi (il che è considerato un pericolo perché spinge gli attori economici a rimandare i consumi, la prima leva di crescita, in virtù di aspettative di riduzioni future dei prezzi).
Le previsioni sull’andamento dell’economia globale sono state ridimensionate da tutti gli analisti e anche il Fondo monetario internazionale, per bocca del direttore generale Christine Lagarde, ora avverte che la crescita quest’anno sarà più debole che nel 2014 (quando il Pil era cresciuto di un non entusiasmante 3,4%).
Anche l’inflazione globale sta frenando con una media del 2,5%. A settembre, dopo tre piani di “Qe” in 5 anni l’inflazione negli Usa si è attestata allo 0,1% mentre il livello dei prezzi nell’Eurozona è tornato a scendere (-0,2%). Persino la Cina – che negli ultimi anni ci ha abituato a una forte crescita del Pil con un’inflazione del 4-5%) – vede l’inflazione scendere pericolosamente sotto il 2% (1,6%).
L’inflazione frena contrariamente alle teorie economiche che studiamo da tempo sui manuali: quella monetarista secondo cui più moneta viene stampata maggiore è l’inflazione che si crea. Oppure la curva di Phillips secondo cui quando il tasso di disoccupazione è basso l’inflazione tende a crescere. Non è così per negli Usa dove l’inflaizone è a 0 mentre il tasso di disoccupazione ufficiale è sceso al 5,1%. È chiaro che c’è qualcosa che sfugge ai manuali, alle vecchie teorie economiche. È chiaro che il mondo sta cambiando. Molto probabilmente, i grandi Paesi fanno fatica a creare inflazione perché la coda lunga della domanda (il ceto medio-basso, quello che con i propri consumi ha la maggiore incidenza nella creazione di inflazione) è sempre più povero e indebitato. Di conseguenza manca la materia prima (ovvero un adeguato reddito per le classi medio-basse e un’adeguata capacità di chiedere prestiti) per creare l’inflazione. Forse questo andrebbe aggiunto nei manuali mentre non si può che aggiornare di giorno in giorno l’inesorabile conto delle sforbiciate, molte delle quali però sono colpi a salve, dato che al momento l’inflazione globale sta rallentando anziché crescere.
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