L’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) fornisce dati utili sulla forza lavoro mondiale. Il concetto di “forza lavoro” include sia gli occupati che i disoccupati. La parte impiegata della forza lavoro è composta da: lavoratori salariati e stipendiati (che sono chiamati “dipendenti”); i lavoratori autonomi con “dipendenti” (che sono chiamati “datori di lavoro”); ed i lavoratori autonomi senza “dipendenti” (tra i quali vi sono “lavoratori in proprio, coadiuvanti familiari non retribuiti ed i soci lavoratori delle cooperative di produttori). Si scopre che la percentuale dei lavoratori dipendenti che percepiscono uno stipendio o un salario all’interno dell’occupazione nel mondo intero ammonta oggi a circa il 48 per cento.
L’ILO ha anche un’altra classificazione. Comprende i “lavoratori in proprio” e i coadiuvanti familiari non retribuiti, i quali insieme costituiscono la categoria dei “occupati vulnerabili”; mentre i “datori di lavoro”, insieme ai lavoratori salariati e stipendiati, vanno a costituire la categoria dei “occupati non vulnerabili”. La composizione della forza lavoro mondiale sulla base di questa classificazione può essere data come segue: la percentuale di coloro che sono disoccupati è di circa il 6 per cento; coloro che sono “occupati vulnerabili” costituiscono il 47 per cento (tra questi, i coadiuvanti familiari non retribuiti sono il 14 per cento, e i “lavoratori in proprio” sono il 33 per cento); gli “occupati non vulnerabili” sono un altro 47 per cento (tra questi, i lavoratori salariati e stipendiati sono il 45 per cento e i “datori di lavoro” o lavoratori autonomi con “dipendenti” sono il 2 per cento).
Vi è tuttavia un grosso problema con i dati dell’ILO, vale a dire che c’è sempre un segmento della forza lavoro che non appare né tra gli occupati o tra i disoccupati; e questo segmento non viene conteggiato affatto nelle statistiche ILO, sottovalutando così la grandezza della forza lavoro effettiva. Questo segmento è costituito dai “lavoratori scoraggiati”, quelli che sono economicamente inattivi non perché intendono esserlo, ma perché sono così completamente senza alcuna speranza di trovare un impiego che nemmeno si segnalano come persone alla ricerca di lavoro. Essi sono in realtà disoccupati, ma non vengono contati tra i disoccupati perché non segnalano di essere alla ricerca di un lavoro. E’ naturalmente difficile stimare il loro numero, ma se prendiamo tutta la popolazione mondiale nella fascia di età tra i 25 ed i 54 anni che è economicamente inattiva come appartenente a questa categoria, e quindi alla forza lavoro, allora otteniamo un totale mutamento del totale della forza lavoro mondiale nel 2011 nei termini che seguono (stimati da Bellamy-Foster, McChesney e Jonna, Monthly Review, novembre 2011): i disoccupati più i “lavoratori scoraggiati” sono il 20 per cento; i lavoratori “occupati vulnerabili” il 43 per cento; e gli “occupati non vulnerabili” il 37 per cento. Tra i lavoratori non vulnerabilmente occupati, i lavoratori dipendenti (salariati o stipendiati) sarebbero circa il 35%, mentre i datori di lavoro, ad esempio lavoratori in proprio con dipendenti, sarebbero il 2%.
Da questi dati sembrerebbe a prima vista che il 35 per cento di tutta la forza lavoro globale è impiegata sotto il capitalismo; ma questa impressione è errata. Tra i “dipendenti” ci sono alcuni che sono impiegati dai lavoratori per proprio conto con dipendenti (che sono “datori di lavoro” in virtù della definizione ILO). Per esempio, una parte del 35 per cento della forza lavoro globale che consiste di salariati verrebbe impiegato da contadini ricchi. Il fatto che essi impieghino operai comporterebbe, agli occhi di alcuni, l’attribuzione della qualità di “capitalista”. Ma una tale categorizzazione è erronea; sulla base di una tale categorizzazione, si potrebbe dire che l’India ha avuto un significante settore capitalista dell’economia per tutta la sua storia, molto prima che il capitalismo sia apparso come fenomeno in Europa.
In effetti un lungo dibattito sulla questione se il fatto di occupare persone dietro il pagamento di salario potesse essere utilizzato per definire il capitalismo aveva avuto luogo in India qualche anno fa; e l’indicazione generale che era emersa era che il semplice impiego di manodopera dietro pagamento dei salari in agricoltura non autorizzava a chiamare “capitalista” il datore di lavoro. Ne consegue che la percentuale della forza lavoro globale che fornisce forza-lavoro direttamente a imprenditori capitalisti non può essere più di un terzo.
Dall’altra parte abbiamo che il 63 per cento della forza lavoro globale, o quasi due terzi di essa, è composta da lavoratori che sono disoccupati, oppure costituiscono “lavoratori scoraggiati”, ovvero sono lavoratori “occupati vulnerabili”. Bellamy-Foster ed altri autori considerarano tale percentuale il raggiungimento della dimensione massima dell’esercito industriale di riserva nell’economia mondiale. Ma, anche lasciando da parte l’aspetto dell’esercito industriale di riserva, questa proporzione, per definizione, costituirebbe il segmento vulnerabile della forza lavoro mondiale.
Una percezione fuorviante
Ciò però genera una percezione fuorviante. Assumere che l’intero corpo dei lavoratori dipendenti salariati e stipendiati sono “occupati non vulnerabili” è errato. Sappiamo che tra i lavoratori salariati e stipendiati ci sono lavoratori occasionali, lavoratori part-time, precari, lavoratori intermittenti e simili, che sono di fatto un segmento altamente vulnerabile della forza lavoro. Classificarli, come fa l’ILO, come non-vulnerabili, equivale a una grave mistificazione della realtà.
In India, per esempio, solo circa il 4 per cento della forza lavoro totale o meno non è “vulnerabile” dal licenziamento istantaneo a sola discrezione del datore di lavoro; il segmento rimanente può essere licenziato senza preavviso, se il datore di lavoro così dispone. Anche così, tuttavia, diversi cosiddetti “ricercatori” hanno sostenuto che la crescita industriale dell’India è ostacolata dalla mancanza di un potere assoluto da parte dei datori di licenziare i lavoratori; e che “la flessibilità del mercato del lavoro”, vale a dire il potere assoluto dei datori di lavoro di licenziare i lavoratori liberamente e quando vogliono, deve essere introdotta immediatamente per rimuovere tale ostacolo alla crescita industriale dell’India. La grandezza totale di coloro che sono “occupati vulnerabili” quindi supera di gran lunga i due terzi della forza lavoro mondiale menzionata in precedenza.
C’è un ulteriore importante punto che deve essere osservato. Le varie percentuali di cui sopra, dei disoccupati, di coloro che sono economicamente inattivi nella fascia di età dai 25 ai 54 anni, dei lavoratori salariati e stipendiati, e di quelli “occupati vulnerabili”, per la forza lavoro globale, non hanno quasi subito alcun significativo cambiamento negli ultimi anni, soprattutto nell’intervallo tra il 1997 e il 2011, coperti dalle indagini e dai modelli empirici di Bellamy Foster e altri. La percentuale dei lavoratori dipendenti salariati o stipendiati, in rapporto al totale della forza lavoro totale globale, per esempio, è stato del 35 per cento nel 1997 ed è salito al 37 per cento nel 2011 in maniera a malapena percettibile.
Sappiamo tuttavia che nel corso di questo lungo periodo c’è stato un massiccio attacco ai piccoli produttori, soprattutto contadini, sotto l’egida del neo-liberismo. In effetti si è liberato un vero e proprio processo di ciò che Marx aveva chiamato “accumulazione primitiva del capitale”; e nell’India stessa abbiamo avuto un calo nel numero di famiglie contadine nell’intervallo di tempo compreso tra gli ultimi due censimenti, il che è indicativo del fatto che i piccoli produttori sfollati sono stati costretti ad affollare le città in cerca di lavoro. Dato l’elevato tasso di crescita del PIL nell’economia, ci si sarebbe aspettati una crescente domanda di forza-lavoro da parte del capitale, la quale avrebbe dovuto far crescere la quota dei lavoratori salariati e stipendiati nell’economia indiana, e, quindi, implicitamente (poichè anche altrove ci si aspettava una altrettanto simile fenomenologia) della forza lavoro globale.
Accrescimento della diseguaglianza nella distribuzione del reddito globale
Il fatto che ciò non sia avvenuto, che cioè le percentuali delle diverse categorie in rapporto alla forza lavoro totale globale siano rimaste più o meno invariate nel tempo, suggerisce che tali fasce di popolazione lavoratrice dall’economia agraria, o dall’economia della piccola produzione in generale, sono ancora una volta entrate nel segmento degli impieghi “vulnerabili” nelle città. Sono cioè migrate da un segmento produttivo ad un altro sempre rimanendo tra gli “occupati vulnerabili”, dall’economia contadina al settore dei servizi nelle aree urbane.
In altre parole, il processo di accumulazione primitiva del capitale che si verifica sotto il neoliberismo, non comporta un aumento della percentuale di forza lavoro assorbita dal settore capitalista. Questo fatto, a livello globale può sembrare a prima vista strano. Anche se la rapida crescita dell’India non ha portato ad un aumento della percentuale della sua forza-lavoro, sempre assorbita quest’ultima nell’esercito industriale attivo impiegato dal capitale, lo stesso non poteva dirsi per la Cina dove anche il londinese Economist ha parlato dell’emergere di un mercato del lavoro ristretto a causa della rapida industrializzazione (sulla base del dato del pagamento dei salari). Tuttavia quanto detto sembra essere vero per l’economia globale nel suo complesso. I piccoli produttori migrati dai settori tradizionali, cioè coloro che hanno dovuto affrontare in pieno l’assalto esplosivo del capitale, non sono stati assorbiti nelle file dei dipendenti salariati e stipendiati.
La dimensione dell’esercito industriale di riserva può essere identificato in modo diverso in base a criteri diversi. Bellamy Foster e altri inquadrano la dimensione massima dell’esercito industriale come consistente di: disoccupati, popolazione economicamente inattiva nella fascia di età dai 25 ai 54 anni, e “occupati vulnerabili”; l’esercito industriale di riserva effettivo sarebbe tuttavia inferiore, costituito solamente da una frazione di questa dimensione massima (poichè una parte di esso comprende contadini e piccoli produttori che non sono immediatamente inseriti nell’esercito di riserva). Ma non importa come lo definiamo, la dimensione relativa dell’esercito industriale di riserva nella forza lavoro globale complessiva (che comprende sia la forza attiva che l’esercito di riserva) sembra essere rimasta più o meno invariata nel corso degli ultimi anni.
Ciò riveste critica importanza perché spiega la crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito mondiale. La dimensione non comprimibile dell’esercito industriale di riserva assicura che la grandezza assoluta del vettore dei salari reali nell’economia mondiale non aumenti quando aumenta la produttività del lavoro. Ciò comporta un aumento della percentuale di eccedenze della produzione mondiale, vale a dire, nella quota di reddito percepita dai capitalisti e dai loro “parassiti”, che si manifesta come un aumento della disuguaglianza di reddito.
E ciò smentisce anche le teorie che suggeriscono che il ritmo di accumulazione del capitale è limitato dalla crescita delle dimensioni dell’esercito industriale totale (attivo e di riserva). Gli economisti borghesi, naturalmente, ritiengono che ci sia sempre la piena occupazione sotto il capitalismo, e che gli unici disoccupati sono coloro che scelgono di esserlo ovvero sono occupati a ricercare il prossimo lavoro (1); e si ritiene pertanto, di necessità, che il ritmo di accumulazione sia vincolato dalla crescita della forza lavoro. Ma anche tra gli scrittori che rifiutano l’idea che la “piena occupazione” prevalga sotto il capitalismo, c’è qualcuno che potrebbe ancora obiettare che l’accumulazione di capitale sia vincolata dalla crescita delle forze del lavoro; Otto Bauer, il noto marxista austriaco, che Rosa Luxemburg aveva criticato a questo proposito, è stato uno di questi. Le statistiche sulle forze lavoro in materia di economia mondiale non supportano questo punto di vista.
1) n.d.t. l’espressione “between jobs” indica persone di fatto disoccupate nel tempo intercorrente tra la perdita dell’ultimo lavoro e l’acquisizione del nuovo (http://uk.businessinsider.com/what-successful-people-do-between-jobs-2015-2?r=US&IR=T, ed altro che indica l’uso in tal senso di questo idioma).
Prabhat Patnaik | peoplesdemocracy.in resistir.info
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
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