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Lavorare da casa? Più oraio, senza salario in più

Qualsiasi cosa, in economia, può esser letta da almeno due lati quello dell’azienda e quello del lavoratore.

È la prima impressione che si ha vedendo come un’azienda “fornitrice di servizi flessibili e spazi di coworking” – la Regus (www.regus.it) – dà conto di una sua indagine condotta in base a un campione molto ampio (44.000 interviste in 105 paesi) sugli effetti dell’introduzione di tecnologie nel normale lavoro d’ufficio. “La tecnologia consente di lavorare fuori ufficio con numerosi vantaggi, ma riduce il tempo libero. Il lunedì è il giorno più lungo e anche nei weekend sono previsti impegni lavorativi”.

Messa così, può sembrare quasi un dato oggettivo, una pura segnalazione di fatti senza alcuna connotazione “ideologica”. Ma solo per un attimo.

Sicuramente ciò costituisce un grande vantaggio in termini di flessibilità e di produttività, con notevoli benefici nella gestione delle relazioni con clienti, fornitori e colleghi. Ma il corretto bilanciamento tra lavoro e vita privata (worklife balance) viene messo a rischio da un sovraccarico di lavoro e da una sensibile riduzione del tempo libero da dedicare al riposo”.

E in effetti il 21% degli intervistati italiani dichiara di lavorare almeno 15 ore settimanali in più rispetto al normale orario di lavoro.

Del resto Le nuove tecnologie e le connessioni di rete sempre più veloci consentono di essere sempre connessi attraverso i dispositivi digitali e di poter lavorare in modalità smart working anche lontano dall’ufficio tradizionale oltre il classico orario 9-18”.

È l’esperienza che abbiamo anche noi redattori di Contropiano, giornale fatto da militanti che non guardano né all’orario né al salario; ma che, appunto, non può esser certo definita una condizione “normale” nei rapporti tra imprese e lavoratori.

Non manca neanche la determinazione di quali siano i giorni con più ore di lavoro extra (il lunedì, naturalmente), ma non se salva neanche il weekend, come si può vedere dal grafico.

Un incubo, per chi lavora… Ma niente affato sgradita al country manager della Regus, secondo cui “Questa situazione di overworking può essere compensata con la riduzione dei tempi dedicati ai viaggi e agli spostamenti, in particolare negli orari di punta, lavorando da remoto con l’utilizzo di spazi di lavoro flessibili e professionali vicino a casa o dove si è più comodi per il tempo che serve.

Insomma: diamo la possibilità di non bruciare ore con gli spostamenti, dunque non ti puoi lamentare se lavori qualche ora in più...

Ragionamento padronale, sotto ogni riguardo, che non paradossalmente giustifica un’antica richiesta del movimento operaio “classico” (indipendentemente dall’indossare la tuta blu o il camice bianco o gli “abiti borghesi”): il tempo di viaggio per recarsi al lavoro è tempo di lavoro a tutti gli effetti e andrebbe retribuito come tale. Questo dal punto di vista del lavoratore.

Dal punto di vista dell’impresa è l’esatto opposto: quelle ore “recuperate” al viaggio le devi lavorare per noi, senza alcun pagamento maggiorato…

Chi vuol capire le dinamiche della “lotta di classe” non ha che da cominciare a fare i conti: quanto ti dovrebbero dare in busta paga per 15 ore di lavoro in più?

 

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