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Anche le banche centrali non possono più nulla

All’ottavo anno di crisi, all’ennesimo annuncio di quantitative easing – da parte della Bce, tra una settimana – sono ormai in molti a chiedersi se, per caso, il controllo della situazione si sfuggito di mano anche a chi era stato investito (plebiscitariamente, almeno sui mercai finanziari) del ruolo di salvatore del mondo. O del capitalismo, più precisamente.

Detto in poche parole, neanche “spargendo denaro dagli elicotteri” si riesce più a rianimare la crescita dell’economia (figuriamoci con il Jobs Act…). Era la misura estrema, quasi un’eventualità assurda, prevista dalla teoria (o ideologia) economica dominante dalla metà degli anni ’70. A questo punto, insomma, quella teoria non ha più nulla da dire, non fornisce strumenti per comprendere quel che accade. Ma qualcosa accade lo stesso…

Qui in fondo vi proponiamo l’articolo di Enrico Marro, de IlSole24Ore, che riassume sinteticamente i rischi e le domande principali poste da uno studio della Fondazione Bruegel, potente think tank europeo con sede a Bruxelles e presieduto da Jean Claude Trichet, ex presidente della Bce.

Molte singole affermazioni sono assolutamente “nuove” nella narrazione neoliberista della crisi che da sempre caratterizza il giornale di Confindustria. A cominciare ovviamente dall’ammissione che a noi sembra decisiva, così riassunta:

l’economia mondiale è in sovracapacità, i prezzi delle materie prime sono a terra, i salari restano sotto pressione e l’innovazione tecnologica galoppa.

Le responsabilità della “globalizzazione” nel determinare l’impotenza delle banche centrali di fronte alla deflazione costituiscono però l’oggetto principale dell’analisi di Marro.

«Una maggior integrazione nel mercato significa che le merci importate con prezzi altalenanti hanno più peso sul livello complessivo del carovita, come è evidente per petrolio e alimentari, mentre la profonda integrazione del mercato del lavoro penalizza il potere salariale locale, e l’integrazione finanziaria influenza i tassi a lungo termine».

Già, ma questo era esattamente l’obiettivo desiderato con tutte le forze dal capitale multinazionale (sia “reale” che solo “finanziario”): prezzi delle materie prime ai minimi, così come il costo del lavoro, e tassi di interesse che più bassi non si può. Il mondo sognato per decenni… Perché non funziona?

Sostanzialmente, ci sembra, perché è il mondo che soddisfa una sola parte del sistema economico, ossia “il lato dell’offerta”, l’impresa e la banca. Mentre “il lato della domanda” – lavoratori e Stati – è scomparso dai radar. Salvo ricomparire, come problema, soltanto alla fine. Quando, non comprando il prodotto disponibile per carenza di reddito, svela fino in fondo la “sovracapacità”. Ossia la sovrapproduzione di capitale (che è merce, denaro, materie prime ed esseri umani), che rende pressoché inutili nuovi investimenti produttivi. Tranne quelli in inovazione tecnologica e automazione della produzione, che però presentano il problema di aggravare la sovracapacità e quindi la tendenza alla delfazione.

Le “iniezioni di liquidità” messe in campo dalle banche centrali dovevano far aumentare l’inflazione perché, secondo la teoria neoliberista, l’aumento del circolante si sarebbe rapidamente trasmesso alla produzione, ai consumi e dunque ai prezzi. E invece quel circolante supplementare è rimasto nelle casse delle istituzioni finanziarie private (banche, assicurazioni, fondi di investimento, ecc), che li hanno usati per risanare i bilanci, investire in borsa o in titoli di stato (dai rendimenti decrescenti), ricrare lo shadow banking… Insomma, per tutto meno che per finanziare investimenti privati capaci di aumentare la produzione (tranne che per piccole eccezioni, come detto).

Tutte le variabili dell’equazione capitalistica (investimenti, salari, materie prime, moneta e profitti) appaino dunque fermi, o in movimento così lento da non giustificare sforzi supplementari. Questo fa scendere le banche centrali dal piedistallo del potere assoluto, toglie loro il cappello del mago risolutore dei problemi. E lascia tutti i soggeti economici – finanza. Stati, imprese multinazionali, ecc – al buio.

Ma se il”colpevole” è la globalizzazione (già finita con l’inizio della crisi, peraltro) allora è inevitabile che molti comincino a chedersi

se adesso si possa sfruttare la sovranità politica e democratica ceduta ai banchieri centrali e ai “mercati” per cercare di rimettere le cose a posto. «Soprattutto sul fronte delle crescenti divaricazioni sociali provocate dagli anni di crisi e che il persistere di politiche esclusivamente “finanziarie” hanno contribuito a far crescere in modo incontrollato».

Per un verso è il terreno su cui matura il populismo reazionario, quelle delle frange di borghesia più deboli (imprese senza mercato internazionale); per un altro è anche il terreno su cui può – può, senza certezza alcuna – maturare una risposta antagonista, critica, rivoluzionaria.

Di certo, infatti, c’è solo che il sistema che conoscevamo non funziona più. E un altro non ce n’è. Neanche sotto forma di “narrazione”…

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Così gli «elicotteri» delle banche centrali hanno perso il controllo dell’inflazione

di Enrico Marro

A mettere nero su bianco quello che ormai tutti hanno intuito da tempo ci ha pensato un recente studio della Fondazione Bruegel, con la domanda retorica che risuona già nel titolo: “La globalizzazione sta riducendo l’abilità delle banche centrali di controllare l’inflazione?” (Is globalisation reducing the ability of central banks to control inflation)?
La risposta è purtroppo sotto gli occhi di tutti. Nonostante la Bce abbia soffiato sulla prima candelina del suo “quantitative easing”, Eurostat l’altro ieri ha certificato per il Vecchio Continente un’inflazione allo -0,2% a febbraio, contro il +0,3% di gennaio e il +0,2% di dicembre, e l’ultimo segno negativo che risaliva al settembre del 2015. Colpa del calo dei prezzi dell’energia, certo, assieme alle dinamiche demografiche, all’innovazione tecnologica e così via. Però sta di fatto che gli elicotteri delle banche centrali intenti a distribuire denaro dal cielo (la consueta metafora di Milton Friedman) appaiono sempre meno temibili e, soprattutto, credibili. Un po’ come quelli di “Apocalypse Now”, il capolavoro di Francis Ford Coppola, impantanati nel Vietnam. A far grippare i loro motori – secondo la Fondazione Bruegel – è stata innanzitutto la globalizzazione. Vediamo perché.

 

La globalizzazione ha ucciso l’inflazione

É stata la globalizzazione, spiega il report della Fondazione Bruegel, a mutare strutturalmente non solo le dinamiche inflattive, ma anche i meccanismi di trasmissione delle politiche monetarie. «Una maggior integrazione nel mercato significa che le merci importate con prezzi altalenanti hanno più peso sul livello complessivo del carovita, come è evidente per petrolio e alimentari – si legge nelle conclusioni dello studio – mentre la profonda integrazione del mercato del lavoro penalizza il potere salariale locale, e l’integrazione finanziaria influenza i tassi a lungo termine».
Quanto alla politica dei tassi negativi, il report sottolinea che una volta che il tasso di interesse nominale a breve termine è sceso a zero, le condizioni finanziarie possono essere influenzate negativamente da un temporaneo calo dell’inflazione su cui la banca centrale non ha alcun controllo. C’è quindi il rischio di una “giapponesizzazione” dell’Europa?

 

Una “giapponesizzazione” dell’Europa?

In Europa ormai in molti parlano di rischio “giapponesizzazione”. Quello del Sol Levante rappresenta infatti un esperimento estremo di politica monetaria non convenzionale: nonostante all’ennesima edizione dei suoi “quantitative easing” ha un’inflazione bassissima e attese per i prossimi anni ancora ai minimi termini. L’Europa con il Qe della Bce di un anno fa ha visto addirittura scendere negli ultimi mesi le attese di inflazione, mentre negli Usa e in Gran Bretagna si ripropone lo stesso discorso sebbene con numeri meno compromettenti.
«Sembra addirittura che gli effetti siano opposti a quanto sperato – nota Gabriele Roghi, responsabile della consulenza agli investimenti di Invest Banca – : tassi più bassi o addirittura negativi non favoriscono investimenti e consumi ma danneggiano in modo irreparabile la sostenibilità finanziaria del settore bancario che non ha modo di ottenere alcun margine di interesse, storicamente la sua naturale fonte di redditività».
La fiducia nell’autoattribuita capacità taumaturgica delle banche centrali sta svanendo, continua Roghi, e molti cominciano a domandarsi se adesso si possa sfruttare la sovranità politica e democratica ceduta ai banchieri centrali e ai “mercati” per cercare di rimettere le cose a posto. «Soprattutto sul fronte delle crescenti divaricazioni sociali provocate dagli anni di crisi e che il persistere di politiche esclusivamente “finanziarie” hanno contribuito a far crescere in modo incontrollato».
Secondo altri analisti, poi, anche l’alto debito pubblico e privato contribuisce a soffocare l’inflazione. Vediamo

 

Alto debito e concentrazione della ricchezza

Usa, Giappone, Gran Bretagna ed Eurozona a partire dal 2008 e ne controlliamo il risultato, in termini di produzione di inflazione al consumo, potremmo facilmente concludere che le banche centrali hanno completamente perso il controllo dell’inflazione, sottolinea a sua volta Alessandro Picchioni di Woodpecker Capital.
Al di là di alcune problematiche specifiche che aggravano il problema (quali la presenza delle svalutazioni competitive, della volatilità nel mercato dei cambi e la disomogeneità economica tra le macro aree globali, in cui vengono strutturalmente mantenuti surplus e deficit commerciali rilevantissimi) Picchioni cita alcuni nodi che ostacolano la ripresa dell’inflazione. «Primo: l’alto stock di debito finanziario in rapporto al Pil, comune a tutti i Paesi e riguardante sia il settore pubblico che quello privato – spiega – ; poi lo scarso dinamismo sociale della nostra epoca (nelle principali macro aree globali siamo probabilmente al punto più basso in termini di mobilità sociale dalla fine della seconda guerra mondiale); infine la progressiva concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e la conseguente forte erosione della classe media nelle principali macro aree globali». Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Ma attenzione: se un domani l’inflazione rialzasse la testa, le banche centrali sarebbero capaci di domarla?

 

E se il caro vita rialzasse poi la testa?

Ma che cosa succederà se un giorno l’inflazione dovesse rialzare la testa e farsi pericolosa? Le banche centrali sarebbero in grado di domarla?
Secondo i manuali basta rialzare i tassi a livelli normali per tenere il carovita sotto controllo. Il problema è che «la globalizzazione e altri fattori hanno tolto alle banche centrali il potere di controllare i prezzi», nota Matthew Lynn sul Telegraph, aggiungendo che non si vede come si riuscirebbe a imbrigliare un carovita crescente visto che non lo si riesce a fare con quello calante.
Certo, ci vorrà tempo: l’economia mondiale è in sovracapacità, i prezzi delle materie prime sono a terra, i salari restano sotto pressione e l’innovazione tecnologica galoppa. «Ma a un certo punto, la disinflazione si girerà in inflazione, semplicemente come ha fatto all’inizio degli Anni Settanta – conclude Lynn – e allora potremmo dolorosamente scoprire che le banche centrali sono davvero rimaste senza poteri».

 

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