Menu

Tormentone Alitalia, in cerca dell’ennesimo inciucio

Alitalia è un massacro. Non solo finanziario per chi la gestisce, ma anche per i cervelli di quanti – sia pure giornalisticamente – se ne occupano. L’informazione “british” è rara, la capacità di “fare storia dell’azienda” pressoché inesistente.

 

Questa incapacità tutta italica di entrare nel merito dei problemi, preferendo di gran lunga l’ideologia spruzzata senza originalità negli editoriali mainstream, produce una sensazione di impotenza generale che facilita lo smantellamento del patrimonio industriale “nazionale”.

 

Qui di seguito vi proponiamo due articoli a loro modo esemplari. Entrambi incredibilmente ospitati nello stesso giornale (IlSole24Ore) anche se con caratteristiche diametralmente opposte. Il primo, dell’ottimo Giabbi Dragoni, fa il punto sulla crisi attuale della compagnia. Che è stata privatizzata cinque anni fa da Berlusconi e Tremonti, tramite una “cordata” di improvvisatori tenuta insieme da IntesaSanPaolo (diretta allora dal gran cerimoniere Corrado Passera) e da un “socio industriale di riferimento” come Air France. Nonostante tagli draconiani del personale e degli stipendi, nonostante (o forse per questo) un’occupazione indecentemente precaria e subappalti a compagnie low cost (come la rumena CarpatAir), la “nuova società” chiamata Cai non ha mai avuto un bilancio in attivo. E dire che Berlusconi le aveva abbonato tutti i debiti, trasferendoli a carico dello stato.

 

Il secondo – di Roberto Perotti – è un concentrato di luoghi comuni rintracciabili anche su fogli molto meno prestigiosi del quotidiano di Confindustria. Un pezzo che ignora la storia della compagnia (che ha iniziato a far debiti – al contrario di quel che dice Perotti – solo quando il governo Prodi, oltre venti anni fa, decise di svuotarla progressivamente in base a un accordo “europeo” che limitiva a soltanto tre i vettori principali: AirFrance (che poi avrebbe assorbito l’olandese Klm), Lufthansa (che avrebbe fatto un boccone di tutti i verttori mitteleuropei) e British Airways (che di lì a poco avrebbe incorporato la spagnola Iberia). Secondo quell’accordo Alitalia sarebbe finita sotto l’ombrello (“allenza”) di Air France, con buona pace di tutti i miti dell’”italianità”.

 

Da allora cominciano le altrimenti assurde “rinunce” a tratte intercontinentali molto redditizie (clamorosa la cancellazione della Roma-Pechino, in prossimità delle olimpiadi cinesi) e la contrazione del “core business” nel solo mercato interno (la Roma-Milano, che andava subendo la concorrenza clamorosa delle Ferrovie dello stato, a colpi di “alta velocità”). Ovvero la “regionalizzazione del vettore”, che andava a ravanare nello stesso mercato in cui prosperava nel frattempo la malapianta del low cost foraggiato dai consorzi pubblico-privato nati intorno a una pletora di piccoli aeroporti senza futuro.

 

Senza tener presente questa storia si dicono corbellerie a raffica. A cominciare dal titolo del pezzo di Perotti (“Ora basta, vendiamola”), che sebra non aver ancora metabolizzato il fatto che la compagnia ora è a tutti gli effetti privata. E quindi quell’imperativo “collettivo” (“vendiamola”), come se ci trovassimo nella situazione di cinque anni fa, è semplicemente insensato. Una compagnia privata può esser venduta se i proprietari lo vogliono e se trovano un compratore, oppure va in fallimento. Lo Stato non può “venderla”, per il buon motivo che non è più sua.

 

Al massimo potrebbe – secondo noi dovrebbe – nazionalizzarla. Senza alcun indennizzo per quella banda di corsari senza cultura industriale che si era prestato a un’operazione squallida.

 

*****

Alitalia al bivio fra l’aumento e il commissariamento

 

di Gianni Dragoni
L’ipotesi di lavoro a Palazzo Chigi per la crisi dell’Alitalia-Cai è un aumento di capitale per 300 milioni di euro, con l’ingresso nel capitale di una società pubblica che verserebbe da 100 a 150 milioni e diventerebbe l’azionista di riferimento della compagnia, con una quota tra il 30 e il 50% del capitale.

 

Il resto verrebbe coperto da Air France-Klm (fino a 75 milioni) e dagli attuali soci italiani, in particolare i Benetton, Roberto Colaninno, Intesa Sanpaolo, non è escluso un nuovo nome: solo a queste condizioni le banche presterebbero altri 200 milioni.
Se non si troverà un’intesa, l’alternativa sarebbe il commissariamento di Alitalia, l’amministrazione straordinaria con la legge Marzano. La stessa strada percorsa nel 2008 quando Silvio Berlusconi liquidò l’Alitalia pubblica per consegnare la polpa alla Cai, la cordata dei «patrioti» guidata da Colaninno. Il commissario dovrebbe poi trovare un compratore, che potrebbe essere Air France-Klm.
Non c’è ancora una soluzione per la crisi della compagnia, che tra pochi giorni esaurirà la liquidità (l’Eni non è disposto a concedere ulteriore credito per le forniture di carburante oltre «il fine settimana»), ma queste apparivano ieri le uniche strade percorribili, sia nel governo sia tra gli azionisti. Il potenziale nuovo socio pubblico di Alitalia potrebbero essere le Ferrovie dello Stato, sebbene non si escluda la chiamata in causa di Fintecna.

 

Oggi alle 17 si riunisce il consiglio di amministrazione di Alitalia. Secondo fonti autorevoli, sono state le banche, guidate da Unicredit e Intesa, a porre come condizione per dare altri prestiti che ci sia una ricapitalizzazione di 300 milioni con la quale entri nel capitale una società pubblica come socio al quale fare riferimento.
Il premier Enrico Letta lavora per questa soluzione, mentre il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, si esprime con grande cautela: «Il Consiglio dei ministri non ha discusso della questione Alitalia», ha detto ieri sera. La condizione posta dal premier per l’intervento pubblico è la «discontinuità», l’esclusione dal comando dell’attuale compagine di venti soci italiani che – ha detto Letta – non hanno dato buona prova nella gestione, con 1,2 miliardi di perdite dal 2009 ad oggi. Sul tavolo del governo c’è il piano di integrazione treno-aereo presentato dalle Fs di Mauro Moretti, il quale ha detto: «Siamo un’impresa italiana, diamo un contributo a tutti nei limiti delle nostre possibilità e i limiti sono tanti».

 

Moretti ha posto condizioni dure, sintetizzate con il «fuori tutti», cioè una ricostruzione da zero del capitale Alitalia, escludendo tutti gli attuali soci e accogliendo solo chi sottoscriverà la ricapitalizzazione. Diversi soci italiani chiedono invece che venga valorizzata la loro quota prima dell’aumento di capitale, come se le azioni della Cai avessero ancora valore (ma il patrimonio netto consolidato è negativo per quasi 100 milioni), per questo hanno dato un incarico alla Ernst & Young.
Chi valuta l’alternativa del commissariamento osserva che, con la legge Marzano, Alitalia potrebbe continuare a volare solo se lo Stato desse garanzie sul rimborso dei nuovi debiti accesi dal commissario, si stima un fabbisogno di circa 500 milioni per il periodo invernale, fino a marzo. Senza queste garanzie, Alitalia resterebbe a terra.

 

 

 

Ora basta, vendiamola

 

Roberto Perotti

 

Alitalia è un buco nero: da decenni ingurgita soldi del contribuente, e li fa scomparire. Le abbiamo provate tutte.

 

Finché era pubblica abbiamo provato scorpori, cambi di management, ricapitalizzazioni; poi le abbiamo comprato i debiti per renderla più appetibile a un gruppo di “privati” legati a filo doppio con la politica, le abbiamo assicurato un monopolio triennale sulla rotta più remunerativa, e le abbiamo trovato persino banche compiacenti disposte a buttar via un po’ di soldi dei loro azionisti per fare le solite “operazioni di sistema”. Ora basta. Vendiamola, subito. Qualunque prezzo è benvenuto, pur di liberarci di questa palla al piede.
Per molti vendere Alitalia è tabù, perché è un “asset strategico” del paese, come ha ribadito il premier Letta. Ma cosa significa “strategico”? Un argomento portato da molti è che un proprietario straniero danneggerebbe il turismo. Si teme veramente che Air France (che peraltro non ha intenzione di comprare Alitalia) farà sbarcare a Nizza i milioni di turisti stranieri diretti a Roma, e li farà proseguire in treno, al fine di valorizzare un aeroporto francese? Qualcun altro ha in mente (come nel caso Telecom) questioni di difesa, e teme che una vendita di Alitalia ci privi della possibilità di requisire i velivoli per trasportare le truppe a Shanghai in caso di guerra con la Cina. Per altri “strategico” sembra essere equivalente a “prestigioso”: per motivi mai meglio specificati un grande paese non può non possedere una compagnia di bandiera. Ma che orgoglio ci può essere nel tenere in vita un’azienda che perde soldi da sempre? Per certi politici e imprenditori regionali “strategico” significa “rafforziamo Malpensa a spese di Fiumicino”, o viceversa, oppure ancora “manteniamo in vita questo piccolo aeroporto che non ha ragione di esistere”.

 

Per politici e sindacalisti nazionali “strategico” significa “manteniamo in vita un’azienda dove siamo abituati a farla da padroni”. Ma se c’è una lezione che dovremmo aver imparato dalla “privatizzazione” del 2008 è che non ci si può improvvisare manager di una compagnia. Ci vogliono competenze profonde, e se non le si hanno non bastano le connessioni politiche.
Come con un altro fallimento infinito, la Rai, periodicamente i governi sono costretti a spendere quel poco di capitale politico di cui dispongono in discussioni interminabili su un problema senza soluzione. Ogni volta si dice che sarà l’ultima e ogni volta si scopre che era la penultima. Una misura della situazione surreale è il ventilato intervento di Ferrovie dello Stato. In quali paesi del mondo le ferrovie gestiscono compagnie aeree? E non stiamo parlando di ferrovie normali, ma delle ferrovie italiane, la cui gestione è sotto gli occhi di tutti. Alitalia ha sempre avuto un problema con i sindacati, e vorremmo darla a una società che è ancora più loro ostaggio? Senza dimenticare che, se c’è un’azienda che ha interesse a dare il colpo di grazia ad Alitalia, questa è proprio Ferrovie dello Stato, che ha investito 20 miliardi per far concorrenza ad Alitalia sulla tratta Roma-Milano.

 

Al momento, la soluzione più gettonata è un aumento di capitale di 300 milioni sottoscritto per metà da Fintecna (cioè Cassa Depositi e Prestiti) e per metà dalle immancabili “banche di sistema” Intesa e Unicredit. Se è così, Letta si dovrà assumere la responsabilità di aver gettato al vento 150 milioni di euro del contribuente per fingere di mantenere in vita un cadavere, e i CdA delle banche si dovranno assumere la responsabilità di aver gettato al vento i soldi dei propri azionisti, rompendo il rapporto fiduciario cui si sono impegnati. Il tutto, per di più, per ritrovarci tra sei mesi a riparlare esattamente degli stessi problemi.

 

 

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *