Spesso le informazioni illuminanti arrivano nel modo più imprevedibile. E certo era difficile attendersi da La Stampa – organo di casa Fiat, sul punto di diventare l’inserto piemontese di Repubblica – uno sguardo così impietoso sulle più grandi banche d’affari del pianeta.
Incipit folgorante, degno della migliori penne marxiste del ‘900: “Nei due elenchi [i criminali ricercati in tutto il mondo, ndr] non appaiono altri pericoli pubblici, per esempio i responsabili di reati concepiti in grattacieli vetro e acciaio.
Poi giù una serie di informazioni per anni tenute lontane dalle prime pagine dei giornali più importanti (dunque più influenti sull’opinione pubblica, non solo italiana).
Punto primo. Le grandi banche sono delle centrali criminali in senso giuridico, ai sensi dei vari codici penali esistenti nel normale mondo capitalistico. Non sparano a nessuno – almeno in prima persona – ma provocano stragi fisiche di dimensioni apocalittiche, manovrando in modo criminale e illegale su grandezze monetarie, tassi, contratti, ecc. Nulla di nuovo, per noi. Ma certo sorprendente per il giornale che ha tra i referenti obbligati la seconda banca italiana (IntesaSanPaolo).
Punto secondo. Le loro attività criminali sono costate, solo negli ultimi otto anni di crisi, “1.100 miliardi di dollari in termini di occupazione e produzione persa, e ha estorto ai tesori nazionali 430 miliardi di dollari” per i salvataggi dal fallimento. A proposito di rispetto delle regole del mercato e della meritocrazia capitalistica (esiste anche un’altra meritocrazia, ma ne parleremo in altra sede)…
Fin qui siamo comunque in terre conosciute, ben studiate da decenni. Il punto vero salta fuori quando si evidenzia come assolutamente vero quello che è sempre stato un diffuso sospetto. Ossia che il riciclaggio del denaro dei grandi cartelli della droga o delle mafie avvenisse con la piena consapevolezza dei gruppi dirigenti delle banche. Anzi. Per iniziativa delle banche, non delle mafie o dei narcos…
Un rovesciamento totale che spiega molto del mondo capitalistico attuale, dove di fatto le élites ai vertici sono niente altro che i criminali che ce l’hanno fatta, si sono ripuliti (da due-tre generazioni, certo…), mandano i figli nelle università migliori, a volte dirigono un governo o fanno i ministri per qualche anno, poi ritornano a fare i manager, e girano con gli yacht o gli aerei personali. Mentre quelli di Sinaloa o Corleone sono quelli che ancora stanno fuori la porta d’ingresso, impegnati nella gestione fisica del business criminale di basso livello (e quindi sparano, ammazzano, comprano amministratori pubblici, ecc), con l’obiettivo di salire ai piani alti.
E intanto un ragazzo un ragazzo che ha ecceduto nell’uso di qualcuna di quelle sostenze così remunerative rischia a miglior vita se incappa nei controlli di qualche poliziotto o carabiniere in vena di “legalità muscolare”.
Naturalmente da un articolo pubblicato su La Stampa non ci si può attendere anche una proposta soluzione all’altezza di problemi così radicali. Tutto viene alla fine ridotto a una questione di “moralità”, il che fa quasi ridere quando si parla di migliaia di miliardi di dollari. In un mondo guidato – come unica regola – dalla libertà dell’impresa privata nella ricerca del massimo profitto, non c’è moralità possibile.
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La più grande industria è il riciclaggio di denaro
Alcune grandi banche hanno finanziato narcotraffico e mafie pagando solo multe
Antonio Maria Costa
Europol ha pubblicato l’elenco dei criminali più ricercati in Europa; Interpol ha aggiornato gli Avvisi Rossi. Entrambe agenzie individuano i grandi nemici della società: terroristi e mafiosi. Nei due elenchi non appaiono altri pericoli pubblici, per esempio i responsabili di reati concepiti in grattacieli vetro e acciaio.
Reati perpetrati davanti a ettari di schermi policromatici BenQ, con grafici e tabelle. L’elenco di questi crimini spaventa: manipolazione dei tassi di cambio e d’interesse, riciclaggio, frode, falsa fatturazione, evasione fiscale, aggiotaggio, vendita di derivati tossici, schemi a piramide Ponzi, violazione delle sanzioni, rischi eccessivi coi risparmi altrui, abuso dei mutuatari – e naturalmente, usura. Delitti che generano un enorme bottino (calcolato freddamente, valutando rendimenti attesi contro l’eventuale penalità), sottratto a un enorme numero di vittime. Secondo le Nazioni Unite la crisi del 2008, frutto della speculazione finanziaria, è costata 1.100 miliardi di dollari in termini di occupazione e produzione persa, e ha estorto ai tesori nazionali 430 miliardi di dollari per assistere (a volte, nazionalizzare) le istituzioni fallimentari.
«Occorre evitare nuove crisi, risarcire le vittime, e punire i colpevoli» – così ha pensato l’opinione pubblica dopo il collasso, auspicando riforme, sanzioni, incarcerazioni. È andata diversamente.
Alcune riforme hanno fortificato il sistema, ri-capitalizzato le banche, resa più affidabile la loro liquidità. Ma in Europa, l’unione bancaria (gemella dell’unione monetaria) rappresenta lavoro in corso: la singola supervisione (della Bce) è opaca; la singola risoluzione (dalle bancarotte) è complessa; la singola assicurazione (sui depositi) è incerta. Negli Usa la legislazione Dodd-Frank rafforza responsabilità e trasparenza bancaria, per proteggere i risparmiatori. Eppure, dopo l’entusiasmo iniziale, diversi articoli sono stati abrogati dal Congresso, e l’elemento centrale (la separazione tra banche commerciali e quelle d’affari) non è ancora promulgato. Le sanzioni imposte? Globalmente, circa 270 miliardi di dollari, pari a una modesta percentuale dei profitti annuali delle banche. Di incarcerazioni neanche a parlarne: alcuni operatori marginali sono sotto processo, ma nessun presidente, amministratore o consigliere è alle sbarre.
C’è di peggio. Durante la crisi, la grande illiquidità generata dal crollo dei prestiti interbancari ha fornito alla criminalità organizzata (ricca di contante) l’opportunità di penetrare il sistema finanziario. «Non è la mafia a cercare la finanza, ma viceversa», mi dice un magistrato dell’antimafia. Le prove abbondano. Negli Usa la Wachovia Bank ha riciclato 380 miliardi di dollari del cartello messicano di Sinaloa negli anni 2006-10. Nel 2014, grazie alla «procedura differita» offerta dal Tesoro Usa, gli amministratori evitano sanzioni promettendo di «non ricadere nel reato in futuro». La banca è multata di spiccioli: 160 milioni di dollari, pari al 2% del profitto annuale.
Similmente la più grande banca in Europa, la londinese Hsbc, ammette di avere riciclato miliardi di narco-reddito, e dozzine di altri crimini. Paga l’ammenda (2 miliardi), evita conseguenze penali e mostra l’ipocrisia che caratterizza la lotta alla droga. Un giovane con qualche grammo di droga in tasca finisce in galera; banchieri che agevolano traffici a tonnellate si godono yacht e jet privati.
Ma c’e’ d’altro ancora. Il presidente Renzi, indispettito per i commenti tedeschi sulle banche italiane, ribatte: «ma che pensino alle loro!» In effetti, la vera bomba nucleare nel cuore dell’Europa è la Deutsche Bank. Con 2 mila miliardi di capitalizzazione (la maggiore nell’Eurozona), è sotto inchiesta per reati in tutto il mondo: manipolazione del tasso Libor (in Inghilterra), riciclaggio di denaro (Russia e Messico), finanziamento al terrorismo (nel Golfo), violazione dell’embargo (Iran), collaborazione con giurisdizioni canaglia (nel Pacifico), falsificazione del rischio (Francia), vendita fraudolenta di strumenti «derivati» tossici (Usa) e così via.
A questo punto, il pubblico chiede: perché le banche sono salvate dal contribuente, e i banchieri sono salvati dalla galera? Ora sappiamo la risposta. I crimini finanziari non sono il risultato delle azioni di pochi avidi banksters, ma «il prodotto di una cultura finanziaria che ha perso la bussola morale – avvelenata da frode, avidità e azzardo». Questo dice il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney. Per rimediare, occorre porre fine alla collusione tra politica e finanza, che non è solo corruzione (politici disonesti comprati dal capitale), ma è inter-dipendenza fra tesori nazionali e banche private, entrambi in dissesto: un contratto di reciproca difesa, che mira a conservare il potere di entrambi.
Una situazione irrimediabile? Senz’altro no. Per restituire alle banche il ruolo di mediazione tra risparmiatori e investitori, occorre convertirle in aziende private di pubblica utilità (come acqua e elettricità), specializzate e tassate per disincentivare decisioni lucrose a breve, sconsiderate a lungo. Papa Francesco ha tracciato la via, ricordando la relazione enigmatica di Cristo con il denaro: «nel Tempio nostro Signore scaccia i cambia-valute che speculano; nelle parabole loda chi bene investe i talenti».
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