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Se i capitalisti diventano catastrofisti…

I grandi manager che hanno messo in piedi holding multinazionali hanno informazioni più attendibili, fresche, segrete, che non la maggior parte della popolazione. Una piccola parte della quale si informa tramite i media principali, mentre il grosso rimane ad orecchiare senza approfondire nulla, al massimo sfogandosi in vaffa… sui social network.

E se i grandi manager diventano catastrofisti una ragione – a noi ignota, ma non del tutto inconoscibile – ci deve certamente essere.

L'intervista data da Carlo De Benedetti al Corriere della Sera dovrebbe essere un cazzotto in faccia a tutti gli opinonisti prezzolati – anche dallo stesso De Benedetti, che controlla il gruppo Repubblica L'Espresso – che ci raccontano tutti i giorni che la crescita è dietro l'angolo, che “la luce in fondo al tunnel” ormai si vede, è quasi qui, anche se non ce ne accorgiamo. Ma anche a tutta quella sinistra non più pensante che non riesce ad afferrare che il concetto di "padroni" è un residuo del lontano passato, che sopravvive ancora – a fatica – in Italia e ne spiega, in larga parte, l'arretratezza crescente.

Dopo nove anni di crisi ufficiale di tutto il pianeta (differenziata, ovviamente, da continente a continente, e da paese a paese) l'Ingegnere viene a dirci che la prossima ondata sommergerà le stesse democrazie. Non “se” ci sarà un'altra crisi, ma quella che “sta arrivando”. Senza ese e senza ma, di dimensioni tali da squassare il pilastro stesso su cui si è retto finora tutto l'Occidente e la sua retorica.

Si può dire che i manager sono rimasti gli ultimi marxisti involontari. Nel senso che magari non hanno neanche letto Marx, ma – dovendo muoversi in un ambiente capitalistico quasi puro (globale e senza alternative sistemiche) – arrivano a conclusioni molto simili semplicemente spinti dalla materia che pretendevano di governare. L'economia, insomma.

De Benedetti parte, non paradossalmente, dalla crisi della politica. Ovvero da quella dimensione in feedback rispetto all'economia che era stata fino a pochi decenni fa utilissima per compensare i difetti sistemici dell'economia di mercato, creando condizioni sociali, ambientali e perfino economiche per l'avanzare del modo di produzione capitalistico. Il keynesismo, in fondo, aveva permesso di logorare – “imborghesendoli” – i movimenti operai dei paesi avanzati, proprio mentre lo sviluppo tecnologico e globalizzante del capitale costringeva il “campo socialista” a dissanguarsi in una folle concorrenza. E gli investimenti pubblici in deficit avevano spesso evitato l'avvitamento estremo.

La crisi della politica è perciò direttamente l'espressione della scomparsa del “ceto medio” (in una accezione interclassista molto comune, che comprendeva i salariati a tempo indeterminato o, a là zalone, col “posto fisso”). E questo sconquasso mette a disposizione delle pulsioni disgregatrici un materiale umano versatile, abile localmente o settorialmente, per quanto ridotto alla cecità sul piano complessivo o sistemico.

Il “populismo”, da questo punto di osservazione “globale”, è un risultato, non una causa. Quindi non può essere combattuto lasciando le coordinate sistemiche nella configurazione che sono andate prendendo. Qui, naturalmente, De Benedetti deve alzare le mani e arrendersi all'impossibilità – per i manager del capitale – di concepire un superamento del modo di produzione.

Senza una “borghesia” – ormai sostituita dai funzionari pro tempore del capitale, dai manager che rispondono agli azionisti – e senza un ceto medio articolato, capace di organizzare la sintesi di interessi diversi e conflittuali, ammortizzando salite e discese nell'”ascensore sociale”, non può esistere neppure la normale democrazia parlamentare borghese.

Il capitale si è autonomizzato e domina le formazioni sociali, rendendole tutte molto più simili tra di loro (in tutto l'Occidente, almeno) e soprattutto distruggendo la possibilità di una retroazione politica in grado di limitarlo, orientarlo, “regolarlo”.

Il profitto è l'unico valore, che non ha ovviamente né patria né valori…

Quindi anche De Benedetti può vedere solo la catastrofe.

 

De Benedetti: «Una nuova grave crisi economica metterà in pericolo le democrazie»

di Aldo Cazzullo

«L’Occidente è a una svolta storica: è in gioco la sopravvivenza della democrazia, anche a causa della situazione economica e finanziaria. La globalizzazione, di cui tutti noi, e mi ci metto anch’io, eravamo acriticamente entusiasti e ci siamo affrettati a raccogliere i frutti, ha creato una deflazione che ha ridotto i salari della media di tutti i lavoratori del mondo, e ha accresciuto le ingiustizie sociali sino a renderle insopportabili. Si sta verificando la previsione di Larry Summers, l’ex segretario al Tesoro di Clinton: una stagnazione secolare».

Ingegner De Benedetti, è sicuro che lo scenario sia così negativo?
«Siamo alla vigilia di una nuova, grave crisi economica. Che aggraverà il pericolo della fine delle democrazie, così come le abbiamo conosciute».

Addirittura?
«La democrazia nasce con il declino delle monarchie e della nobiltà e con l’ascesa della borghesia. Anche in Italia la democrazia si afferma dopo la guerra, quando si è creata una classe media. Oggi proprio la progressiva distruzione della classe media mette a rischio la democrazia; senza che si sia risolto il problema della stagnazione. Peggiorato dalla folle scelta europea dell’austerity in un periodo di piena deflazione, il che equivale a curare un malato di polmonite mettendolo a dieta».

Ma ci sono Draghi e la Fed. La politica monetaria espansiva: il quantitative easing.
«Le banche centrali hanno tentato di cambiare mestiere: dopo cinquant’anni in cui il grande nemico era l’inflazione, hanno combattuto la deflazione secondo le vecchie teorie, creando moneta. Ma così hanno costruito una trappola. Hanno immesso sul mercato trilioni di dollari, una cifra inimmaginabile e incalcolabile. Non ci sono più titoli da comprare. Ma questo, oltre a mettere in ginocchio il settore bancario, non ci ha fatto uscire dalla stagnazione e dalla deflazione».

Quali possono essere le conseguenze politiche?
«Negli Usa non si può escludere una vittoria di Trump; anche perché il candidato democratico è percepito come antipatico, passato, freddo, come puro establishment».

Com’è stato il dibattito tv, e chi l’ha vinto?
«Deludente. Con una leggera prevalenza di Hillary».

Crede davvero che Trump possa diventare presidente?
«Tre anni fa, il fenomeno Trump non sarebbe stato possibile. Ancora all’inizio della campagna elettorale non avrei puntato un dollaro su di lui. Ora non mi sento più di escluderlo; anche se ovviamente non me lo auguro. Nei sondaggi è sottostimato: molti si vergognano di dire che lo votano. Potrebbe conquistare Stati in bilico, come Colorado e Florida. E anche Stati tradizionalmente democratici, come Pennsylvania e Michigan».

Cosa rappresenterebbe una sua vittoria?
«Per il mondo occidentale, una tragedia. Il protezionismo americano aggraverebbe la nostra crisi».

E in Europa cosa può accadere?
«In Francia non si può escludere che diventi presidente Marine Le Pen. Il padre non poteva farcela: troppo legato a Vichy e all’Algeria francese; lei sì. Hollande si è sciolto al sole, Sarkozy è un déja-vu che i francesi non vogliono più. La Spagna è senza governo da un anno, il Portogallo in bilico, la Grecia è ancora lì perché nessuno ha interesse a fare davvero i conti. In Polonia vige un nazionalismo di destra. L’Ungheria è già passata all’estrema destra, l’Austria no ma solo grazie alla colla delle buste che ha causato il rinvio delle presidenziali. Una situazione da anticamera del fascismo».

Resta la Germania.
«Ma le elezioni tedesche del 2017 costituiscono un bel punto interrogativo, se si estrapolano i risultati delle recenti amministrative. Nel resto del mondo la democrazia arretra. Le primavere arabe sono finite con i generali. In Medio Oriente comanda la Russia di Putin, che si è messo d’accordo con un altro autocrate, Erdogan. L’unico Paese che continua a crescere è la Cina di Xi, che compra 70 chilometri di coste in Cambogia per fare il più grande porto al mondo, costruisce la ferrovia da Shenzhen a Varsavia e la nuova strada della seta verso l’Occidente. Un’altra svolta epocale».

E in Italia?
«In Italia, sulla base dei sondaggi, i Cinque Stelle oggi potrebbero vincere le elezioni».

Con quali conseguenze?
«Non ci voglio pensare. Li ho sentiti in tv da Palermo accusare tutti i giornali di essere contro di loro. Non è così, i giornali criticano i comportamenti. Contro la Appendino nessuno ha scritto nulla. Se dopo quattro mesi la Raggi non ha ancora fatto la giunta, come si può non criticare? E poi ancora con questa storia dei poteri forti…basta, davvero».

Ma i Cinque Stelle sono il secondo partito italiano, forse il primo.
«All’interno del movimento ci sono certamente persone perbene, d’altronde li vota un terzo degli italiani. È la classe media, che sceglie il movimento come per una sorta di vendetta verso le élites da cui si sente tradita. Per disperazione, più che per convinzione. Ho sentito Grillo gridare: “Sono tornato a comandare io”. Ma per fare cosa? Io non l’ho capito».

La crisi della democrazia può segnare un ritorno al fascismo?
«Semmai, un nuovo populismo, aggravato dal protezionismo, dal crollo degli scambi, dalla grande recessione in arrivo. La democrazia è ridotta al voto; ma il voto è uno strumento, non è la democrazia. Non è detto che finisca così; possono ancora farcela Hillary, Juppé. E poi c’è il baluardo dell’economia tedesca, che resta fortissima».

Ha fatto bene o ha sbagliato Renzi a polemizzare con la Merkel e l’Europa?
«Dopo Bratislava non poteva che arrabbiarsi. Con Ventotene noi italiani ci siamo illusi di essere entrati in un mini-direttorio europeo. In realtà era una photo-opportunity. La Merkel e Hollande, secondo tradizione, sono l’unico asse europeo; l’Italia è tagliata fuori. Del resto in Europa, salvo che al momento della sua creazione, non abbiamo mai contato nulla. Renzi è stato il primo a tentare di contare qualcosa. Ha ottenuto 19 miliardi di flessibilità sui conti pubblici; ma ciò non è sufficiente per far ripartire l’economia. Di fatto restiamo a crescita zero».

Lei tre mesi fa disse al «Corriere» che al referendum avrebbe votato no, se Renzi non avesse cambiato la legge elettorale.
«Lo confermo».

Quindi voterà no, visto che l’Italicum è sempre lo stesso.
«Se ci fosse vera volontà politica, ci si potrebbe accordare per una nuova legge elettorale; ma al momento vedo solo tattica. I Cinque Stelle vogliono il proporzionale puro, e non mi stupisce: un movimento populista è sempre contro qualsiasi forma di maggioritario».

Renzi può sopravvivere politicamente a una vittoria del no?
«Se vincesse il no, Renzi dovrebbe dimettersi il giorno dopo. Anche se non credo che lascerà la politica. E per fortuna, perché ha dimostrato di avere energia e qualità».

E Berlusconi?
«Berlusconi aspetta col cappello in mano. Comunque finisca il referendum, ci guadagna: anche se vince il sì, Renzi avrà bisogno di lui. La scelta di Parisi si spiega così. Insieme, Renzi e Parisi si accorderanno, ridimensionando la sinistra e restituendo Salvini alle valli che aveva disceso con orgogliosa sicurezza».

Ma come, lei che auspicava il partito democratico ora battezza il partito della nazione?
«Non scherziamo, non è certo un mio auspicio; di sicuro per combattere i populismi appare inevitabile che al partito di Renzi si sommino una parte dei voti e dell’apparato del centrodestra».

E in economia cosa dovrebbe fare il governo secondo lei?
«Un’operazione di grande coraggio. Abbattere le imposte sul lavoro. Il lavoro è la sola cosa che conta; il resto è sovrastruttura. Il lavoro è dignità. Un Paese in cui manca il lavoro conosce prima o poi turbe sociali e sommovimenti».

Dove trovare i soldi per abbattere le imposte sul lavoro?
«Certo non in deficit. Con la fiscalità generale, meglio se progressiva».

Una patrimoniale?
«Non è il nome esatto, perché dovrebbe includere anche i redditi, tranne quelli da lavoro. L’energia umana è molto più importante del petrolio. Ad esempio Israele ha un’intelligenza per centimetro quadrato che non esiste in nessun’altra parte del mondo; con il servizio militare che serve a educare i cittadini, a farli studiare, a formarli all’uguaglianza. Un Paese naturalmente socialista».

Governato da anni dalla destra dura, con un partito socialista quasi sparito.
«In tutto l’Occidente i partiti diventano sempre più evanescenti, anche se paradossalmente aumenta il loro numero. Non sono crollate soltanto le ideologie; anche di idee ne sono rimaste poche. Ma vivere nella continuità è la morte. Se continueremo così, distruggeremo le nostre società».

 

 

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