Se addirittura il periodico “The Economist” giunge alle conclusioni che si trovano in fondo a questo interessante articolo, forse i cosiddetti “G20”, asserragliati nel loro fortino ad Amburgo, dovrebbero capitolare. Ed invece la Germania corre da sola, rompe con Trump (che forse si ritroverà nella barca con i suoi cugini britannici) ed allunga la mano al Giappone…
Insomma: si può essere dominanti in una determinata area del pianeta, anche importante come l’Europa. Ma se non si sa trasformare questa forza in capacità di guida condivisa sul lungo periodo, si creano più contraddizioni e tensioni di quel che si cerca di risolvere.
Il mondo non è più unipolare, dopo un quarto di secolo. Ma si ritrova senza una direzione di marcia chiara. Dieci anni di crisi non hanno lavorato invano…
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Perchè il “surplus” di capitale della Germania può essere un pericolo per l’economia globale
The Economist, 7 luglio 2017
Le linee di combattimento sono tracciate. Il palcoscenico del G20, dove si sono incontrate le più grandi potenze commerciali del mondo, è pronto per uno scontro tra un’America protezionistica ed una Germania aperta al libero mercato.
Il Presidente Donald Trump, come sappiamo, ha già scartato il TPP (Trans Pacific Partnership, trattato di libero scambio fra USA ed una serie di altri paesi fra cui Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Singapore), e chiesto la rinegoziazione del NAFTA (North-American Free -Trade Agreement, trattato di libero scambio fra USA, Messico e Canada). Nello stesso tempo sta soppesando l’opportunità o meno di imporre delle tariffe sulle importazioni dell’acciaio negli Stati Uniti, mossa quest’ultima che potrebbe provocare quasi certamente una qualche ritorsione. La minaccia di una guerra commerciale, d’altronde, pende sulla Presidenza Trump fin dal gennaio scorso.
Di contro la Cancelliera Merkel, padrona di casa nel summit, sta sbandierando la sua gran voglia di aprirsi al libero mercato. Dopotutto, il 29 giugno scorso la Merkel, in un suo discorso, aveva già attaccato, neanche tanto velatamente, l’isolazionismo ed il protezionismo del Presidente americano; a chiudere i giochi, infine sarà molto probabilmente, un imminente accordo di libero scambio tra Giappone ed UE, che, in un prossimo futuro, sostanzierà la sua retorica.
Non c’è dubbio alcuno su chi avrà la meglio nella discussione: la filosofia trumpiana che il mercato debba essere bilanciato, equilibrato, per essere giusto è, dal punto di vista economico, da analfabeti; la sua convinzione, che i prezzi metterebbero tutti nelle stesse condizioni è quantomeno naive, e, proprio per questo, dannatamente pericolosa. La verità è che ridurrebbero la prosperità per tutti. Ma Mr. Trump, almeno una cosa, l’ha azzeccata, afferrando una verità abbastanza scomoda: ha ammonito la Germania riguardo il suo surplus commerciale, lo scorso anno il più alto del mondo con una scorta di 300 miliardi di dollari (la riserva cinese ammontava invece a soli 200 miliardi di dollari). La sua unica soluzione, fu la minaccia di mettere uno stop alla vendita delle auto tedesche, e si rivelò controproducente. Il fatto è che la Germania risparmia troppo e spende troppo poco; e la portata, nonché la persistenza delle riserve tedesche, fa dello Stato tedesco un tenace difensore del libero mercato.
Un’armonia imperfetta
In fin dei conti, un surplus commerciale altro non è che un eccesso di investimenti nell’economia nazionale, nelle aziende del proprio Paese. Nel caso della Germania, questo non è il risultato di una politica di governo mercantilistica, come invece lamentano alcuni paesi stranieri; né, come alcuni funzionari tedeschi spesso insistono a dire, riflette l’urgente bisogno, per una società che sta rapidamente invecchiando, di risparmiare di più. Il tasso di risparmio delle famiglie è rimasto stabile per anni, anche se tendente verso l’alto; l’aumento del cosiddetto plusvalore nazionale proviene dal governo e dalle imprese.
Alla base del surplus tedesco c’è un accordo vecchio di decenni fra imprese e sindacati favorevole ad un contenimento dei salari, per mantenere competitive le industrie esportatrici. Una misura di questo tipo è servita d’aiuto all’economia tedesca, basata sulle esportazioni, per la ripresa subito dopo il dopoguerra, ma anche dopo. E’ un’attitudine che aiuta a capire la trasformazione della Germania, considerata alla fine degli anni ’90 “il malato d’Europa”, in quello che oggi è un campione tutto muscoli.
C’è molto da invidiare nel modello tedesco: l’intesa fra imprese e lavoratori è stata una delle principali spiegazioni della forte performance positiva dell’economia. Le imprese potevano investire liberamente, senza la preoccupazione di essere tenute in ostaggio dai sindacati. Lo Stato faceva la sua parte finanziando un sistema di tirocinio professionale fortemente apprezzato. In America, invece, le aspettative per gli uomini senza diploma di laurea sono peggiorate, con un calo drastico nelle attività manifatturiere, e tutto questo a causa del nazionalismo economico abbracciato da Trump. La Germania non è comunque scampata del tutto a questo stato di cose, ma almeno ha tenuto duro sull’occupazione delle tute blu, degli operai, la cui diminuzione ha invece fatto tanto dannare l’America. Questa è una delle ragioni per cui il partito populista Alternative fur Deutschland è rimasto ai margini della scena politica tedesca.
Ma gli effetti collaterali di questo modello, badate bene, opposti a quelli appena accennati, sono sempre più evidenti: tutto questo ha lasciato l’economia tedesca ed il mercato globale pericolosamente sbilanciati. Una contrazione dei salari significa meno denaro nelle tasche dei cittadini, dei consumatori, ed importazioni ancora minori. Gli investimenti dei consumatori sono calati vertiginosamente, ad appena il 54% del PIL, quando in America sono al 69% e nel Regno Unito al 65%. Gli investitori non capitalizzano i loro inaspettati profitti in casa propria. La Germania, in questo, non è comunque sola: anche Svezia, Svizzera, Danimarca e Paesi Bassi hanno continuato ad accumulare enormi surplus di capitale.
Per una grande economia, caratterizzata da una piena occupazione, gestire un surplus di capitale pari all’8% del PIL può voler dire porre sotto stress il sistema del mercato globale in modo assurdo. Per compensare tali eccedenze e, nello stesso tempo, sostenere in modo adeguato una domanda aggregata, per mantenere le persone al lavoro, il resto del mondo deve poter guadagnare, e spendere con uguale slancio. In alcuni paesi, particolarmente in Italia, Grecia e Spagna, deficit costanti alla fine hanno portato ad una crisi. Il loro successivo trasferimento verso la creazione di un surplus, un’eccedenza per così dire, è poi avvenuto ad un costo molto elevato. La perdurante accumulazione in Nord Europa ha reso l’adeguamento inutilmente gravoso. Nel periodo di elevata inflazione degli anni ’70 ed ’80, l’inclinazione della Germania per un alto tasso di risparmio è stata una forza che ha creato stabilità; ora è diventata una palla, una panzana vuota di qualsiasi credibilità, sulla crescita globale ed un obiettivo per protezionisti della risma di Trump.
Un cambio di marcia sul risparmio.
Può essere risolto il problema? Forse l’enorme surplus commerciale della Germania sarà eroso, come è stato per quello della Cina, da una brusca crescita dei salari. La disoccupazione è sotto il 4% e la popolazione in età lavorativa è destinata a diminuire, nonostante la forte immigrazione. Dopo decenni di flessioni, il costo degli immobili è in crescita, il che vuol dire che i salari non aumentano come sarebbe stato auspicabile. Le istituzioni che sono addette al controllo salariale stanno perdendo la loro aura di influenza. L’Euro potrebbe impennarsi. L’istinto tedesco per la cautela, per la prudenza, è profondamente radicato. I salari, lo scorso anno, sono cresciuti solo del 2.3%, più lentamente che nei due anni precedenti. Lasciato solo, a trovare un suo personale adattamento, il surplus potrebbe metterci molti anni per ritornare a livelli accettabili.
Il governo dovrebbe aiutare, spendendo un poco di più. Il budget per il saldo strutturale della Germania è andato da un deficit maggiore del 3% del PIL nel 2010, ad un leggero surplus. Questa, alcuni funzionari del Governo, la chiamano prudenza ma, dal momento che i risparmi vengono soprattutto dal settore privato, è una tesi difficile da difendere. La Germania ha un gran numero di progetti degni di nota, su cui investire denaro. Le scuole crollano, le strade anche, e tutto questo a causa dei tagli alla spesa pubblica, richiesti per andare incontro ad errate regole fiscali. L’economia rallenta dietro la spinta per la digitalizzazione, collocando il paese al 25° posto nel mondo per velocità di connessione. In un’economia dove la partecipazione delle donne è bassa, maggiori risorse per l’assistenza dopo-scuola da parte dello Stato, vorrebbe dire un numero maggiore di mamme che potrebbero avere un lavoro full-time. Alcuni dicono che una crescita del genere non è possibile, a causa della piena occupazione. Ma anche in un’economia di mercato esiste un modo, testato e affidabile, per ovviare alle scarse risorse messe in campo: pagare di più.
Soprattutto, per la Germania, è passato troppo tempo per ammettere che il suo eccessivo surplus di capitale è una debolezza. La signora Merkel ha assolutamente ragione a promulgare un messaggio di libero mercato. Ma i suoi compatrioti devono capire che i surplus della Germania sono loro stessi una minaccia ad una eventuale legittimazione del libero mercato.
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