Nel dibattito politico recente si è parlato in lungo e in largo della famigerata Riforma previdenziale Monti-Fornero. Questo provvedimento, che ha avuto forti impatti restrittivi sui diritti pensionistici, è tuttavia soltanto il punto di arrivo di un processo di continue riforme in campo previdenziale avviato da ormai venticinque anni.
Avviato dal 1992 con la prima grande controriforma Amato, proseguito con la legge Dini nel 1995 e poi con successive riforme “minori”: Prodi (1997), Maroni (2004), Damiano (2007), Sacconi (2011) e infine la Fornero (2011-12), il groviglio di mutamenti legislativi ha seguito un iter coerente le cui direttrici fondamentali sono state almeno cinque:
- l’aumento dell’età pensionabile di vecchiaia, ovvero l’età minima per poter accedere alla pensione per motivi anagrafici;
- il progressivo aumento del numero di anni necessari per la pensione di anzianità, ovvero quella ottenibile in base al numero di anni lavorati, fino alla sua totale abolizione, avvenuta con la legge Fornero che l’ha sostituita con la pensione anticipata strutturata tuttavia come opzione penalizzante.
- il passaggio dal sistema retributivo, in cui la pensione è pagata in base al livello dei redditi ricevuti durante la vita lavorativa, a quello contributivo, nel quale la pensione è pagata in base ai contributi versati effettivamente all’INPS;
- riduzione dei coefficienti di trasformazione, ovvero dei tassi di rendimento dei contributi versati e quindi della prestazione pensionistica mensile ottenuta al momento dell’acquisizione del diritto alla pensione;
- interventi ad hoc di ulteriore riduzione della pensione, di cui l’ultimo eclatante esempio è il blocco della perequazione all’inflazione previsto per il biennio 2012-13 proprio dalla discussa legge Fornero.
Queste cinque direttrici convergono nel definire un risultato molto semplice: si va in pensione sempre più tardi e si percepiscono sempre meno soldi, malgrado un’intera vita passata a lavorare.
Un passaggio cruciale è stata la transizione dal retributivo al contributivo avvenuta nel 1995 con la riforma Dini. Quel passaggio storico è stato accompagnato da una contemporanea precarizzazione del mercato del lavoro (legge Treu 1996), dal fiorire di contratti con basse aliquote contributive e soprattutto da una crescente discontinuità nelle carriere lavorative con sempre più frequenti mesi o anni di disoccupazione temporanea che significa assenza di versamenti contributivi e quindi una doppia beffa: assenza di lavoro oggi e pensione sempre più bassa in futuro. Le successive riforme, sulla base del nuovo sistema, hanno poi creato via via parametri sempre più restrittivi per l’accesso alla pensione, in particolare attraverso l’aumento dell’età per la pensione di vecchiaia e infine l’abolizione di quella di anzianità, e ridotto i coefficienti di trasformazione, ovvero la pensione attesa dal lavoratore negli anni residui di vita post-lavorativa.
Questa politica di forte riduzione dei diritti pensionistici è stata accompagnata da una grande narrazione a forte impatto mediatico e culturale, la cui trama a grandi linee seguiva questo ritornello: la popolazione invecchia sempre di più; siamo in crisi demografica dunque e lo squilibrio tra sempre meno giovani e sempre più vecchi non è più sostenibile. Chi paga le pensioni ai vecchi? L’unica soluzione per non ipotecare il futuro dei nostri figli sarebbe aumentare l’età pensionabile e ridurre l’ammontare delle pensioni. Solo così l’ente previdenziale potrà agire in equilibrio finanziario tra entrate (contributi dei lavoratori) e uscite (pensioni erogate).
Questa logica, apparentemente dotata di buon senso, è stata poi condita da alte dosi di cultura del conflitto generazionale, dove il giovane precario e a basso reddito veniva dipinto come una povera vittima del vecchio privilegiato che dopo aver goduto dei “privilegi” (sic!) di uno stato sociale sprecone negli anni delle vacche grasse adesso pretendeva persino di succhiare risorse alla collettività ricevendo “laute” pensioni negli ultimi anni della sua vita. Infine, la storia veniva resa apparentemente credibile e persino inquietante agitando i presunti enormi passivi di bilancio dell’INPS e l’urgenza improcrastinabile di riforme restrittive. Due le cifre periodicamente agitate come preoccupanti: i passivi dell’ente previdenziale e il crescente peso della spesa previdenziale rispetto al PIL, ritenuto assai più elevato rispetto a quello degli altri Paesi europei.
A questa grande narrazione mancavano e mancano però molti tasselli fondamentali, considerati i quali la storiella viene ridotta in cenere, la verità viene riabilitata e la vera responsabilità delle condizioni sempre più miserevoli di tutti i lavoratori di ogni fascia anagrafica, pensionati inclusi, può essere agevolmente individuata.
Primo tassello del mosaico: i conti dell’INPS non sono mai stati in passivo se correttamente calcolati. A tal proposito occorre una brevissima premessa: il fatto che un ente pubblico previdenziale sia in disavanzo non è, in linea di principio, un problema. Non intendiamo in alcun modo dipingere come una virtù in quanto tale l’accumulo di avanzi primari che caratterizza i nostri bilanci pubblici negli ultimi anni. Tuttavia iniziare a ragionare sulla verità dei numeri è un primo passo che consente di fare chiarezza sullo stato reale della previdenza in Italia.
Come detto l’INPS è in realtà, è un ente da molti anni in attivo a dispetto di ciò che viene continuamente affermato. Una parte consistente delle uscite dell’ente previdenziale è, infatti, quella erogata in spese assistenziali non legate in alcun modo alle entrate contributive, come le pensioni di invalidità e quelle sociali. Si tratta ovviamente di prestazioni sacrosante ma che, come in molti da anni denunciano (in primo luogo i sindacati) andrebbero poste a carico della fiscalità generale (pagate cioè da tutti tramite sforzo progressivo) e non coperte con le sole entrate contributive dei lavoratori. Inoltre i conti ufficiali che paventano i terribili presunti passivi di bilancio non considerano che una parte del denaro computato in uscita ritorna allo Stato sotto forma di imposte, cioè tramite l’Irpef pagata dai pensionati. È evidente quindi che non si tratta di un’uscita di bilancio in senso stretto. Infine un ultimo elemento di distorsione nella valutazione dell’entità della spesa pensionistica è il famoso TFR, che lungi dall’essere una componente di spesa pensionistica è in realtà mero salario differito. Considerate queste voci, il famigerato passivo INPS semplicemente non esiste e diventa per tutta la serie storica degli ultimi 25 anni un modesto o addirittura consistente attivo. E il presunto livello elevatissimo della spesa pensionistica italiana rispetto alla media europea si rivela anch’esso del tutto falso.
A dimostrazione del ragionamento appena svolto si veda il prospetto grafico che segue in cui per l’anno 2015 si mostra come sia il saldo pensionistico (entrate-uscite) in rapporto al PIL (prima riga) sia la spesa previdenziale in rapporto al PIL (seconda riga) varino drasticamente quando si considerino la componente assistenziale (definita con l’acronimo GIAS) e le trattenute fiscali Irpef, le imposte pagate dai pensionati allo Stato. Da un presunto saldo passivo del 3,8% in rapporto al PIL (ottenuto calcolando la spesa lorda) si giunge ad un attivo dell’1,6% calcolando la spesa al netto della componente assistenziale e al netto delle imposte pagate dai pensionati; e similmente da un rapporto spesa pensionistica lorda/PIL pari al 15,1% si scende ad un 9,8% tra spesa netta e PIL ovvero addirittura al di sotto della media dei paesi UE che si colloca attorno al 11-12%.
Saldo previdenziale lordo | Saldo previdenziale al netto GIAS | Saldo previdenziale al netto GIAS + Irpef |
-3.8% | -1.0% | 1.6% |
Spesa previdenziale lorda | Spesa previdenziale al netto GIAS | Spesa previdenziale al netto GIAS + Irpef |
15.1% | 12.4% | 9.8% |
Le voci (tutte calcolate in rapporto al PIL) sono frutto di una nostra rielaborazione sui dati del Rapporto sullo stato sociale 2017, a cura di F.R. Pizzuti, Sapienza Università Editrice.
La storia dei conti in rosso e dell’anomalia italiana circa il peso insostenibile della spesa previdenziale si rivela così una bugia colossale.
Secondo tassello del mosaico: la crisi demografica è un fatto indubbio la cui radice è economica e culturale (costituire nuclei familiari e fare figli richiede anzitutto stabilità lavorativa e sicurezza di reddito oltre che ovviamente la volontà di farlo). Ma davvero i numeri attuali di questa crisi, pur preoccupante dal punto di vista sociale e culturale, sono tali da mettere a repentaglio i conti INPS? Innanzitutto abbiamo già detto che le casse dell’INPS non sono in rosso come sempre si afferma. La domanda diventa allora: la crisi demografica potrebbe davvero creare uno squilibrio tra entrate e uscite da qui al futuro tale da compromettere l’equilibrio dell’ente previdenziale? Chi lo afferma con tanta sicurezza evidentemente ignora o finge di ignorare alcuni elementi cruciali del problema: la presenza di disoccupazione di massa; la presenza di lavoro nero diffuso; la discontinuità lavorativa delle carriere Tre piaghe socio-economiche che riducono drasticamente il montante di entrate contributive presenti e attese e che, se lenite, contribuirebbero in modo decisivo a rimpinguare le entrate dell’INPS, fugando, senza dubbio, ogni timore di potenziali squilibri.
Ebbene, l’aspetto paradossale è che proprio coloro che agitano lo spettro dell’insostenibilità del sistema pensionistico e della necessità di continue riforme previdenziali restrittive sono gli stessi che hanno favorito la precarizzazione del mercato del lavoro e la presenza di un quadro macroeconomico che causa la disoccupazione di massa. Ovvero proprio quei fattori che riducono i potenziali contributi dei lavoratori e cioè le entrate dell’ente previdenziale mettendo eventualmente a rischio la stabilità finanziaria dell’ente (non oggi, come già dimostrato, ma chissà nei prossimi 20-30 anni). Qualcosa dunque non torna. Ma non basta. L’allungamento dell’età pensionabile, auspicata dai riformatori, non può che peggiorare ulteriormente il quadro occupazionale giovanile e dunque la stessa fonte delle entrate contributive. Ancora una volta, qualcosa non quadra.
La verità allora va cercata altrove. Quali sono gli obiettivi reali delle riforme pensionistiche? Non certo il riequilibrio dei conti! Lo spettro dei conti in rosso è soltanto una scusa che serve a celare ben altro e a giustificare altrimenti ingiustificabili interventi restrittivi. I fini principali delle riforme previdenziali sono a ben vedere almeno due.
In primo luogo la marginalizzazione del ruolo della pensione pubblica basato su un patto intergenerazionale, a favore di un sistema privato basato sui conti individuali di carattere assicurativo gestito da banche, assicurazioni e fondi di investimento. Un processo di privatizzazione di fatto delle pensioni coerente con il generale smantellamento dei cardini storici dello Stato sociale a favore di una gestione privatistica dei bisogni vitali dei cittadini. Avviene in campo sanitario, in parte nel campo dell’istruzione e avviene in modo ancor più palese nel campo previdenziale. Le risorse pensionistiche sono gigantesche e questa enorme massa di denaro è attualmente in gran parte ancora convogliata verso un ente pubblico che la gestisce e la redistribuisce senza profitto. Su questa enorme entità di denaro esistono elevatissimi profitti potenziali di soggetti intermediari pronti a gestirla. Banche, assicurazioni e fondi di investimento non aspettano altro che veder affluire verso le proprie casse crescenti quote di risparmio previdenziale da investire nella finanza speculativa con ampi margini di profitto, ovviamente a rischio e pericolo del capitale risparmiato dai lavoratori. Non è quindi certo un caso che mentre si è progressivamente ridotta la generosità del sistema pubblico riducendo il livello della pensione attesa, si sia contestualmente agevolata con provvedimenti fiscali ad hoc di detassazione la cosiddetta previdenza complementare privata presentata come la soluzione inevitabile all’insufficienza della pensione pubblica. Il processo di trasferimento di quote di risparmio dei lavoratori verso il capitale finanziario privato è solo in piccola parte già avvenuto, ma i margini sono ancora amplissimi. Ecco spiegata la grande e attualissima attenzione al boccone succulento delle pensioni in tutti i Paesi europei. Solo un’ulteriore riduzione molto consistente della pensione pubblica attesa, infatti, potrà dare quella spinta massiccia di quote di risparmio verso la gestione privata.
Vi è poi un ulteriore scopo di finanza pubblica legato direttamente alle politiche di austerità: le risorse risparmiate dall’Inps, come già accennato, vengono da anni usate per vari fini assistenziali impropri di pertinenza non strettamente previdenziale e non legati ai contributi versati dai lavoratori. La quota parte assistenziale che mediaticamente contribuisce grandemente allo spauracchio del presunto bilancio in rosso, viene naturalmente ripianata dalle risorse statali di anno in anno. Sono proprio quelle cospicue risorse sotto attacco nell’ambito delle politiche di taglio della spesa orientate a perseguire il pareggio di bilancio sancito ormai persino in Costituzione dopo la riforma del 2012 che ha modificato l’articolo 81 della Carta. Lo Stato non può permettersi di tagliare in modo brutale voci assistenziali sensibilissime come pensioni di invalidità o pensioni minime sociali. Non per “bontà d’animo”, ma perché si tratterebbe di interventi troppo forti da effettuare in grandi proporzioni. Quindi che fa? Si rivale sulle prestazioni previdenziali, ad esempio bloccando l’indicizzazione all’inflazione delle pensioni dei lavoratori o abbassando in modo continuo i coefficienti di trasformazione. In questo modo diminuiscono le uscite INPS nella componente previdenziale e quel denaro risparmiato viene utilizzato per coprire gli interventi assistenziali che si sarebbero dovuti coprire invece con risorse prelevate dalla fiscalità generale. In tal modo, riducendo la spesa pubblica statale si compiace la Commissione europea. Di fatto il tutto si traduce in un’indebita ingerenza dello Stato sui conti INPS effettuata per far quadrare i conti pubblici dell’erario. Questo improprio trasferimento di risorse dall’ente previdenziale ad altre voci di spesa corrente statale implica naturalmente un aggravio nei confronti di coloro che contribuiscono ogni anno a nutrire le casse dell’ente previdenziale, i lavoratori, a tutto vantaggio di quei redditi che invece non pagano contributi sociali, in primis il capitale finanziario che non partecipa al processo produttivo.
Ancora una volta un regalo fiscale indiretto al grande capitale e ancora l’uso dei soldi dei soli lavoratori per mantenere in vita i cardini minimi dello Stato assistenziale.
Ecco dunque svelati i due motivi fondamentali del terrorismo mediatico e dell’attenzione maniacale ai conti pensionistici da parte del centro decisionale della nostra politica economica: la Commissione Europea.
Il Sole 24 Ore pochi giorni fa titolava: “Pensioni: ad aprile resa dei conti UE, il rapporto sull’invecchiamento fisserà proiezioni di budget e vincoli di spesa”. Si ricomincia insomma con il solito spauracchio della spesa fuori controllo, le consuete previsioni terroristiche sul peso insostenibile della previdenza e la presunta necessità di ulteriori “riforme”. Nulla di nuovo e nulla di vero sul fronte dell’austerità!
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.wordpress.com/
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