In un mondo strettamente interconnesso sul piano produttivo e commerciale – oltre che nelle comunicazioni e nei circuiti finanziari – ogni mossa di un singolo soggetti ha implicazioni su tutti gli altri. Naturalmente la portata di queste implicazioni è direttamente proporzionale al “peso specifico” del soggetto agente, divenendo quasi irrilevante nel caso di soggetti “leggeri” (ad esempio la Grecia, brutalizzata da Unione Europea e Troika nel 2015) o, al contrario, uno tsunami che caso dei “pesi massimi”.
La mossa trumpiana di rivedere i trattati commerciali con l’interno mondo, e in particolare con la Cina, è perciò uno di quegli eventi che da soli cambiano l’ordine globale.
Formalmente, gli Usa non intendono rompere del tutto il sistema delle regole commerciali, ma “soltanto” ridisegnarli in modo più favorevole a Washington, attraverso una serie di negoziati bilaterali anziché nel mare magnum – per loro ormai incontrollabile – del World Trade Organization. Ma, appunto, questo significa abbandonare forse definitivamente il sistema multilaterale che ha dato forma all’era della cosiddetta globalizzazione, dalla caduta del Muro ad oggi.
Lo slogan trumpiano è “il resto del mondo, e soprattutto la Cina, si sono approfittati degli Usa vista l’incapacità dei governi precedenti”, come se fosse stata la politica a guidare i movimenti dell’economia mondiale degli ultimi 30 anni. Lo squilibrio commerciale americano verso quasi tutti i partner-competitori ne sarebbe la prova. Solo con la Cina, ripete sempre Trump, «Abbiamo un deficit di 500 miliardi di dollari l’anno, non è qualcosa con cui possiamo vivere».
Non è vero, sostengono ormai centri studi internazionali di grande peso. E la notizia comincia a rimbalzare anche sulle pagine dei giornali economici più importanti, raggiungendo così una buona parte della “classe dirigente” ma non certo il grande pubblico, abbandonato ormai agli slogan dei Tg nazionali.
Non pretendiamo di colmare qui il deficit di informazione della popolazione, ma almeno quello degli attivisti politici più radicali, che hanno la necessità di orizzontarsi nel mondo con informazioni un po’ più attendibili.
Per questo pubblichiamo qui di seguito una attenta analisi di Carlo Bastasin, apparsa su IlSole24Ore di oggi, che spiega chiaramente come l’immenso squilibrio commerciale ufficiale Usa sia un falso dovuto a criteri di calcolo che andavano forse bene prima del dispiegamento della globalizzazione, ma che oggi sono clamorosamente inadeguati. La causa? Il modo di operare delle multinazionali – di qualsiasi paese, ma il nucleo più importante è comunque basato negli Stati Uniti – sfugge a quei criteri angustamente “nazionali”.
Una multinazionale, infatti, può liberamente giocare sulla diversità di regimi fiscali esistenti nei paesi in cui ha aperto un’attività (ricordiamo la Fiat-Fca, che ha traferito la sede legale e quella fiscale in paesi più “accoglienti”, come Gran Bretagna e Olanda), privando la “madrepatria” di un sostanzioso gettito. Inoltre, la delocalizzazione delle attività produttive fa sì che quel che viene fabbricato in uno stabilimento – per esempio cinese – della Apple o della General Motors diventi Prodotto intero lordo di quel paese, mentre i profitti restano per così dire “apolidi” o comunque non tornano verso gli Stati Uniti.
I meccanismi effettivi sono naturalmente più numerosi e raffinati, ma comunque anche da questo semplice schema si può comprendere come quello “squilibrio commerciale” sia un dato molto gonfiato. Con la Cina, per esempio, sarebbe di fatto la metà di quanto gridato da Trump.
Sarebbe però stupido concluderne, a là Repubblica, che è tutta colpa di quel cretino inspiegabilmente arrivato alla Casa Bianca. Il declino statunitense, in primo luogo quanto a livelli di vita della popolazione, è reale, non solo “percepito”. Ma “il problema sembra discendere maggiormente dal divario che si è aperto tra le produzioni tradizionali e le produzioni ad alta tecnologia”, che hanno dinamiche completamente diverse quanto a competitività e velocità del ciclo economico, oltre che effetti molto diversi sul rapporto Pil/occupazione.
Può sorprendere, forse, che dal giornale di Confindustria arrivi un’autentica argomentazione neo-keynesiana come questa: le multinazionali dell’high tech “sono in grado non solo di competere globalmente, ma di produrre guadagni che quasi compensano le difficoltà degli altri settori. Se però il problema fosse posto in questi termini, per la politica di Washington l’argomento diventerebbe quello di promuovere la redistribuzione dei redditi all’interno del Paese o di migliorare l’offerta assistenziale e formativa da parte degli Stati americani. Tutte politiche ‘sociali’ che vanno contro la retorica prevalente dell’era Trump”.
In altri termini, gli Stati Uniti dovrebbero piuttosto preoccuparsi di recuperare buona parte della ricchezza incamerata dalle multinazionali stelle-e-strisce per poter alzare i salari interni e costruire finalmente un sistema di welfare di tipo “ex europeo”. In questo modo crescerebbe la domanda interna, la popolazione si sentirebbe meno “in pericolo” (con tutte le folli conseguenze del caso), ecc.
Già… Ma quale presidente – ossia quale classe politica – può mettersi a combattere contro gruppi multinazionali “interne” che ormai possono vantare un potere paragonabile a quello di una grande potenza (al livello del Giappone, forse un po’ di più)?
L’unica via che resta alla classe politica, allora, è di “buttarla in politica”, trovando un capro espiatorio contro cui indirizzare un malessere sociale interno che non si vuole – o non si sa – ridurre mettendo le mani nei portafogli più gonfi.
E’ un gioco pericoloso, ma obbligato (in regime capitalistico). Perché anche quando gli Usa dovessero riuscire a ri-localizzare una serie di porduzioni in casa propria, dopo aver riscritto la maggior parte dei trattati commerciali col resto del mondo, questo avverrebbe all’interno di un movimento generale simile in tutti i paesi. E a quel punto ognuno avrebbe – come già accaduto in passato – il problema di “conquistare mercati” in cui piazzare le proprie merci in eccesso.
E’ una dinamica che prepara la guerra, non il benessere…
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Perché il deficit americano non è poi così ampio
Carlo Bastasin – IlSole24Ore
Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina stanno minacciando la crescita economica mondiale. Dopo un periodo di indifferenza, anche i mercati finanziari stanno reagendo all’inasprimento dei toni tra Washington e Pechino. Tuttavia uno studio recente pubblicato dal Bureau of Economic Analysis (Bea) mette in dubbio le basi empiriche delle rivendicazioni americane sugli squilibri commerciali a favore della Cina e ne attribuisce parte della responsabilità alle multinazionali con base in America che riescono a spostare profitti e base fiscale in Paesi diversi. Senza questi effetti contabili, il deficit commerciale americano potrebbe essere la metà di quanto dichiarato.
L’esempio che viene utilizzato dallo studio è quello dell’iPhone, il telefonino che viene venduto come “Disegnato da Apple in California. Assemblato in Cina” e il cui valore aggiunto infatti è costituito non da materie prime e assemblaggio, ma da software e qualità immateriali prodotte in California.
Proprio il carattere immateriale della produzione facilita l’imputazione del valore aggiunto in capo a sussidiarie estere della multinazionale americana in giro per il mondo, per esempio in Irlanda, Lussemburgo, Olanda o Svizzera, dove è possibile sfruttare la bassa tassazione dei profitti d’impresa. Il risultato è che contabilmente la crescita americana è deludente, la produttività dal 2004 non aumenta e il disavanzo commerciale si gonfia in misura incongrua, alimentando una pericolosa retorica sull’aggressione straniera nei confronti del benessere degli americani.
Gli autori dello studio usano come anno di riferimento il 2012, nel corso del quale la bilancia commerciale americana segna un disavanzo di 537 miliardi di dollari, analogo quindi a quello dello scorso anno. Applicando una correzione per gli spostamenti contabili operati all’interno delle multinazionali con base in America, lo studio calcola che il deficit reale scenda a 257 miliardi, meno di metà di quello ufficiale e pari a solo all’1,6% del Pil americano.
Secondo un economista di Brookings che ha rivisto i calcoli dello studio del Bea, oltre metà dei beni e servizi che vengono contati nel disavanzo americano in effetti sono prodotti proprio in America. Questo naturalmente rende più arduo sostenere che i problemi del lavoro e della manifattura americana dipendono dagli abusi dei partner commerciali esteri. Al contrario il problema sembra discendere maggiormente dal divario che si è aperto tra le produzioni tradizionali e le produzioni ad alta tecnologia. Queste ultime sono in grado non solo di competere globalmente, ma di produrre guadagni che quasi compensano le difficoltà degli altri settori. Se però il problema fosse posto in questi termini, per la politica di Washington l’argomento diventerebbe quello di promuovere la redistribuzione dei redditi all’interno del Paese o di migliorare l’offerta assistenziale e formativa da parte degli Stati americani. Tutte politiche “sociali” che vanno contro la retorica prevalente dell’era Trump.
Lo studio pubblicato poche settimane fa indica infatti che anche il problema mai spiegato del rallentamento della produttività americana, dal 2004 in poi, potrebbe risentire dell’effetto contabile all’interno delle multinazionali. Il calcolo della produttività risente ovviamente della stima del Pil che attraverso gli spostamenti di profitto all’estero risulta inferiore a quanto non dovrebbe. Rivedendo per le correzioni contabili, la produttività Usa sarebbe stata più alta dello 0,25% in ogni anno tra il 2004 e il 2008 e non a caso la differenza maggiore interessa le imprese impegnate nella ricerca e sviluppo e soprattutto nella tecnologia informatica.
Per cogliere la dimensione del problema è necessario considerare che il valore aggiunto globale delle multinazionali americane considerate è pari a 4.660 miliardi di dollari, equivalenti alla terza economia del mondo, a pari livello con il Giappone e inferiore solo a Stati Uniti e Cina. Mentre il valore aggiunto nazionale è di 3.260 miliardi.
La scelta di sfruttare i vantaggi fiscali all’estero è facilmente documentabile e dovrebbe suscitare qualche approfondita riflessione anche sui modelli economici contrabbandati come vincenti in Europa. In Paesi come Irlanda, Lussemburgo, Olanda e Svizzera il rapporto tra attività totali e capitale fisico è pari a circa 300. In paradisi fiscali come Bermuda o Barbados è inferiore di circa due terzi. In paesi fiscalmente neutri come il Canada, il rapporto è solo di 6,4, circa 50 volte più basso che nei paradisi legali europei.
Per il presidente Trump, affrontare i problemi sottostanti al disavanzo ufficiale della bilancia commerciale americana, significherebbe ridiscutere il ruolo dello Stato nell’aiutare chi è vittima della trasformazione industriale e costruire una rete di assistenza e formazione più estesa ed efficace di quella avviata dal suo predecessore Barack Obama. Infine si tratterebbe di imporre comportamenti coerenti e trasparenti alle multinazionali con base in America. È al tempo stesso ovvio e sconcertante che per l’amministrazione Trump sia più facile attaccare la Cina e creare gravi tensioni in tutta l’economia mondiale.
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