Uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale del Movimento 5 Stelle è stato il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, ma di questo provvedimento, ad oggi, si sa ancora poco. Per ora, la legge di bilancio per il 2019, che sarà presentata a breve alla Camera, contiene la creazione di un fondo pari a 9 miliardi di euro, con il quale si dovrebbero finanziare il reddito di cittadinanza e la pensione di cittadinanza. Tali misure, così come la famigerata “quota 100”, dovrebbero essere introdotte con appositi provvedimenti normativi nel 2019. Durante i tre presumibili passaggi parlamentari, al fondo in questione potrebbe succedere di tutto. Anche successivamente, ammesso che il fondo venga effettivamente creato, il governo potrebbe sempre avere un ripensamento e decidere di utilizzare quel denaro (tutto o parte di esso) per altri fini, magari più graditi alla Commissione europea.
Per ora, questo è certo, questa dilazione concede al governo maggior tempo per definire come il reddito di cittadinanza dovrebbe funzionare, perché questo, al momento, non è evidentemente chiaro a nessuno.
L’unico elemento certo del reddito di cittadinanza è la “condizionalità” attraverso cui si potrebbe accedere all’assegno. Chiunque voglia presentare domanda per ottenerlo, dovrà innanzitutto iscriversi ai centri per l’impiego (CPI). Questi ultimi avranno il compito di trovare un posto di lavoro ai beneficiari del reddito di cittadinanza, i quali, a loro volta, potranno rifiutare soltanto un certo numero di impieghi, pena la perdita dell’assegno. Tutto sembrerebbe quindi ruotare attorno alla presunta capacità dei CPI di assolvere al loro compito e, non a caso, 2 miliardi (sui 9 accantonati) sono destinati al potenziamento di questi uffici. È chiaro che se i CPI non fossero in grado di presentare proposte di lavoro, il reddito di cittadinanza sarebbe dipinto come una misura assistenzialista in cui i beneficiari riceverebbero questo assegno semplicemente perché disoccupati e sarebbero incentivati – culmine della mostruosità! – a “rimanere sul divano”. Una prospettiva che questo governo assolutamente non gradirebbe perché questo strumento diventerebbe così un modo per elargire briciole ai poveri, incondizionatamente.
Al momento, nei centri per l’impiego lavorano all’incirca 8 mila persone, un numero ritenuto insufficiente dal governo, che intende raddoppiarlo. Le critiche al funzionamento dei CPI si concentrano sulla possibilità di gestire le domande dei potenziali fruitori del reddito di cittadinanza vista la sproporzione tra quest’ultimi e coloro che lavorano nei centri per l’impiego, che a loro volta vengono ritenuti inadeguati a svolgere tale funzione in quanto gli stessi CPI vengono considerati in realtà una forma di assistenzialismo, come uffici nei quali lavorano persone che svolgono mansioni inutili alla società.
Tuttavia, anche se si potenziassero incredibilmente i centri per l’impiego, assumendo personale altamente qualificato, non sarebbe comunque possibile trovare lavoro ad un numero cospicuo di persone, figuriamoci alla totalità dei potenziali beneficiari del reddito di cittadinanza. Il motivo, molto semplice, è che i CPI non creano posti di lavoro bensì si limitano a facilitare l’incontro tra posti di lavoro vacanti e lavoratori. Non a caso, un tempo la loro funzione era associata a una parola rivelatrice: “ufficio di collocamento”. Una parola semplice e rappresentativa del ruolo svolto da quest’istituzione: facilitare il collocamento, appunto, dei disoccupati nei posti vacanti.
La nuova denominazione, “centri per l’impiego”, si porta dietro tutta una visione di come funzioni il cosiddetto “mercato del lavoro”. Tale visione dipinge i CPI come entità che, per magia, risolvono il problema della disoccupazione, ma essa si basa su una visione teorica profondamente irrealistica. Essa, infatti, presuppone che la disoccupazione non sia strutturale, da carenza di domanda aggregata (domanda di beni, per produrre i quali le imprese domandano lavoro), ma semplicemente “frizionale”, ovvero derivante semplicemente da una carenza di incontro tra la domanda di lavoro (che viene dalle imprese) e offerta di lavoro (che proviene dai lavoratori). Basterebbe, dunque, risolvere un semplice problema di informazione imperfetta (orientare i lavoratori e le imprese, che si cercano a vicenda alla cieca, gli uni verso le altre: una sorta di Tinder del lavoro!) o, nella versione più raffinata, fornire (attraverso la formazione) ai lavoratori quelle capacità che essi non hanno, ma che li renderebbero più appetibili agli occhi delle imprese. D’altronde, la stampa, periodicamente, si diverte a raccontarci la storiella per la quale ci sarebbero imprenditori alla disperata alla ricerca di lavoratori, ai quali sarebbero disposti a pagare “dignitosissimi” salari, che non riescono a trovare candidati.
Al di là della becera propaganda da “signora mia, il lavoro c’è, sono i giovani che non vogliono lavorare”, i dati nudi e crudi dell’Istat ci mostrano un’altra verità. In Italia ci sono quasi 3 milioni di disoccupati ufficiali, ossia persone che cercano attivamente lavoro. Inoltre, esiste una gigantesca massa di inattivi, ossia coloro che non hanno un lavoro e neanche lo cercano, che ammonta a 13,3 milioni: di questi, oltre 3 milioni potrebbero potenzialmente lavorare, in quanto ha un’età compresa tra i 15 e i 64 anni, ma non cercano attivamente lavoro perché scoraggiati dall’attuale congiuntura economica. Tuttavia, i posti vacanti, vale a dire le posizioni aperte presso le imprese che ancora non sono state occupate, sono circa 250mila. Un incontro perfetto intaccherebbe marginalmente, dunque, il problema della disoccupazione e soddisferebbe, come si può facilmente notare, un numero esiguo di soggetti appartenenti alla platea dei senza lavoro: facendo due conti, qualora i posti vacanti fossero perfettamente occupati da chi è in cerca di lavoro, il tasso di disoccupazione scenderebbe di nemmeno un punto percentuale. Esiste, in altre parole, un problema impressionante di carenza di domanda di lavoro nel nostro paese testimoniato dall’entità del fenomeno della disoccupazione. Inoltre, anche quando si lamentano le difficoltà delle imprese nel trovare personale da assumere, si dimentica di sottolineare che spesso si tratta di contratti precari e soprattutto sottopagati, sposando implicitamente la visione per la quale un disoccupato dovrebbe accettare qualsiasi offerta di lavoro, anche la più umiliante.
I CPI, in questa situazione, potrebbero fare ben poco per ridurre la disoccupazione. Sappiamo bene che servirebbero altri strumenti per aumentare l’occupazione, a cominciare da una politica pubblica espansiva in grado di generare posti di lavoro. Ma allora perché concentrarsi sul ruolo dei CPI anziché fare un intervento mirato, in grado veramente di risolvere il problema della disoccupazione?
Innanzitutto, bisogna considerare che – anche se ci fosse un governo intenzionato ad affrontare la questione – l’austerità imposta dall’Unione Europea renderebbe impossibile attuare una politica fiscale espansiva che darebbe slancio all’economia, aumentando di conseguenza l’occupazione. Una politica fiscale espansiva, ricordiamolo, consiste nell’immissione di risorse nell’economia attraverso la spesa pubblica. Quest’ultima permette di creare reddito, domanda aggregata e occupazione. Un investimento di denaro pubblico nella costruzione o nella ristrutturazione, ad esempio, di un ponte, comporta l’acquisto di macchinari e materie prime, nonché l’assunzione degli operai necessari. Lo stesso acquisto di macchinari e materie prime comporta, per le imprese produttrici ed estrattrici, la necessità di assumere più lavoratori. Questo non solo riduce immediatamente la disoccupazione, ma fa aumentare anche la domanda di consumi: i nuovi occupati, infatti, spenderanno una parte molto consistente del proprio reddito nell’acquisto di beni di consumo, alimentando un circolo virtuoso.
Anche se il governo volesse davvero combattere la disoccupazione – cosa che chiaramente non vuole fare – dovrebbe fare una politica espansiva, in contrasto con parametri europei. Affinché una politica di spesa pubblica sia davvero efficace, infatti, essa dovrebbe avvenire in deficit, ovvero immettendo attraverso la spesa pubblica più risorse di quante ne vengono sottratte attraverso la tassazione. Le regole europee, però, non solo prevedono un limite al rapporto tra deficit (differenza tra uscite ed entrate) e prodotto interno lordo, ma prevedono anche la sua graduale riduzione fino allo zero. Ciò rende impossibile perseguire l’obiettivo della piena occupazione senza mettersi contro l’Europa.
Per sua fortuna, comunque, il governo non ha alcuna intenzione, al di là dell’anti-europeismo di facciata, di mettersi contro le istituzioni europee. È molto più facile raccontare la storiella del mancato incontro tra domanda e offerta, dovuto all’informazione imperfetta o all’inadeguatezza dei disoccupati. I giallo-verdi non hanno alcun interesse ad aiutare i lavoratori, bensì quello di favorire le imprese. Per questa ragione, hanno interessi diametralmente opposti rispetto alla riduzione della disoccupazione, perché quest’ultima permette alle imprese di ottenere maggiori profitti abbassando i salari.
Un primo tassello nella lotta alla visione dominante consiste nel prendere coscienza degli strumenti retorici utilizzati dai capitalisti e dagli apologeti del capitalismo. Al di là dal ruolo pratico che in futuro potrebbe essere ricoperto dai CPI nel sistema del reddito di cittadinanza, questo semplice discorso ci ha permesso di mostrare, ancora una volta, che anche dietro gli strumenti che ci sembrano più neutri si nascondono, in realtà, visioni teoriche distorte che hanno un obiettivo squisitamente politico: nascondere la natura della disoccupazione come strumento di disciplina nelle mani dei padroni. Conoscere questi meccanismi aiuta a smascherare lo sfruttamento, travestito dal buon senso che ci viene propinato in tutte le salse, e a dipingerlo per quel che per sua natura è: il presupposto inevitabile del capitalismo e l’obiettivo da abbattere attraverso la lotta di classe.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org
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