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La Cina è (molto più) vicina, e scatta la guerra

Il passaggio dalla fase della globalizzazione a quella, in corso, della competizione globale è ancora poco chiara a chi, anche “di sinistra” si nutre di parole e mezze informazioni diffuse da media “democratici” e/o di destra, ormai quasi indistinguibili su molte questioni.

Prendiamo il caso di Huawei, colosso tecnologico cinese, contro cui l’amministrazione Trump ha aperto una vera e propria guerra, facendo arrestare in Canada Meng Wanzhou, direttrice finanziaria e figlia del fondatore, e definendo tutte le aziende cinesi del settore “ una minaccia crescente per la sicurezza nazionale americana”.”

Parlando di telecomunicazioni, vengono subito in mente decine di film sulle guerre tra reti di sionaggio e si è disposti ad accettare tale motivazione quasi senza pensarci.

Poi si sente usare la stessa frase per… le automobili tedesche e allora diventa necessario essere meno creduloni. Per quanta tecnologia e software puoi infilare in un’auto, infatti, è difficile pensare che possa costituire una minaccia seria, se non per i passeggeri ed i pedoni…

La prova si è avuta venerdì scorso, con l’ambasciatore americano in Italia, Lewis Eisenberg, che ha voluto incontrare a Palazzo Chigi il vicepremier e ministro per lo Sviluppo economico, Luigi Di Maio, per illustrargli le preoccupazioni dell’amministrazione Trump per i «potenziali rischi per la sicurezza nazionale dell’Italia e dei suoi partner» in seguito all’accesso dell’operatore cinese Huawei alle frequenze 5G italiane.

Di Maio si è difeso al solito modo (“è stato il Pd!”), e in questo caso è a nche vero: era stato il governo Gentiloni ad aprire anche ai cinesi di Huawei la gara per la sperimentazione del 5G in cinque città italiane: Milano, Prato, L’Aquila, Bari e Matera.

Per rassicurare il pericoloso ospite, Di Maio ha firmato quasi sotto i suoi occhi un decreto ministeriale peristituire una struttura presso il Mise finalizzata ad assicurare il controllo della sicurezza di tutti gli apparecchi, software ed operatori che operano nel settore delle comunicazioni. Naturalmente, anche su questo verrà realizzato “un costante scambio di informazione tra Roma e Washington”. Come se fin qui fossero rimasti all’oscuro…

Ma si è trattato di un incontro anche molto “geopolitico”, vista la lunga insistenza sul mancato allineamento – fin qui – dell’Italia nella programmata aggressione al Venezuela. E anche qui il via libera è arrivato immediatamente, con Di Maio a giurare che «non abbiamo mai sostenuto Maduro». Seguirà dunque firma al documento “unitario” di Bruxelles…

L’argomento che proprio stride con la “sicurezza nazionale Usa” è la contrarietà alla Via della Seta. Ossia di infrastrutture per nulla hi tech o potenzialmente spionistiche (autostrade, ferrovie, porti, ecc) che supportano la logistica degli scambi commerciali. Più che la “sicurezza”, in questo caso, si può ravvisare la “chiusura” dei mercati in vista di una guerra (“competizione” sembra poco, in effetti) tra macro-aree continentali, che investe anche alleati e “neutrali”.

L’ambasciatore Eisenberg ha però lungamente spiegato che gli Stati Uniti sono “preoccupati” per gli accordi che la Cina sta firmando con molti paesi nell’ambito della cosiddetta “Belt and Road Initiative” (tra questi, di recente, anche il Portogallo) e hanno “invitato” il nostro Governo «alla massima cautela».

Ma per un paese come l’Italia chiudere alle potenzilità offerte dalla Via della Seta significa condannare la propria economia a non avere alternative rispetto al “contoterzismo” dipendente dalle filiere tedesche (contro cui peraltro, l’America di Trump, ha aperto un’altra guerra commerciale, a partire dal dieselgate).

Basta leggersi l’articolo seguente, tratto da IlSole24Ore, per capire come a poche bracciate dalla Sicilia si stiano creando le condizioni per un “balzo in avanti” che farebbe uscire persino l’asfittico mondo imprenditoriale italiano dal coma in cui si trova.

Buona lettura.

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L’Algeria nuovo laboratorio per la crescita cinese in Africa

Roberto Bongiorni

La strategia della Cina in Africa sembra esser cambiata. Prima poggiava su quattro pilastri. Prestiti miliardari a tassi non concorrenziali, senza troppo badare alla destinazione del denaro. Accaparramento di materie prime, soprattutto greggio e metalli non ferrosi. Lavori infrastrutturali eseguiti rapidamente senza badare troppo alla qualità. E non interferenza negli affari interni dei propri clienti.

Oggi c’è un Paese sulla sponda meridionale del Mediterraneo scelto da Pechino per avviare un nuovo modello di penetrazione economica e sociale: l’Algeria. Il Paese più esteso dell’Africa è forse il paradigma di come un “safari” dedicato solo alla caccia di materie prime e di contratti infrastrutturali eseguiti solo da manodopera cinese non può più rappresentare, da solo, un modello vincente. La Cina vuole instaurare relazioni durevoli con i suoi partner africani. Per farlo ha così agevolato l’insediamento di cinesi in questi Paesi, avviando relazioni che vanno al di là del solo commercio. In primo luogo in Algeria, dove i cinesi sono divenuti nel volgere di pochi anni la prima comunità straniera. In questa ex colonia francese sono oggi più di 42mila, il doppio dei francesi. Potrebbe essere definito un timido processo di integrazione, in cui, però, sta emergendo una realtà impensabile fino a pochi anni fa: i matrimoni misti tra cinesi ed algerini, due culture apparentemente agli antipodi, ad oggi sarebbero già un migliaio, secondo fonti algerine.

Sembra quasi che i cinesi vogliano riscuotere il consenso e la stima dei loro partner africani. Grazie ai loro bassi prezzi le imprese cinesi, sovente pubbliche, vincono i grandi appalti. Ma non di rado subappaltano i lavori ad alto contenuto tecnologico o di qualità ad altre imprese. E in Algeria sono ricorsi in alcuni casi alla qualità e al know how di grandi, ma anche piccole aziende italiane.

Come è accaduto nella grande moschea di Algeri. Un’opera molto ambiziosa. La terza al mondo per dimensioni, dopo quelle di Mecca e Medina. Il suo minareto, un parallelepipedo in vetro e cemento alto 270 metri, è il più alto del mondo. Alla sua base si staglia la cupola che sovrasta un grande complesso. Al suo interno vi sono facoltà universitarie, due biblioteche, una scuola. Solo lo spazio destinato alla preghiera è capace di ospitare 35mila fedeli. Mancano ormai pochi ritocchi. All’esterno operai cinesi, con divisa e casco giallo, lavorano fianco a fianco dei colleghi algerini. Per realizzare quest’opera, simbolo dell’Islam, il Governo algerino ha snobbato le imprese del Golfo e quelle del vicino Egitto. Ancora una volta ha preferito affidarsi a quelle di un Paese molto più lontano, e per sua natura laico: la Cina. Il costo? Circa un miliardo di dollari.

Se tutto andrà come previsto, l’inaugurazione si terrà il 24 febbraio, nel pieno della campagna elettorale che dovrebbe consacrare al potere, per il 5° mandato consecutivo, l’82enne Abdelaziz Bouteflika. In quella data sarà inaugurato anche il nuovo aeroporto (una capacità di 10 milioni di passeggeri) e la stazione che collegherà la metropolitana dallo scalo alla capitale. Entrambe le opere costruite da imprese cinesi.

Dal 2000 al 2014 le imprese cinesi hanno costruito 13mila km di nuove strade e 3mila di ferrovie. Ma anche ponti, dighe, lo stadio. Fino alla realizzazione di moderne raffinerie. Qui in Algeria i cinesi sono dappertutto. Nel settore delle infrastrutture hanno sbaragliato non solo la concorrenza europea, ma anche quella araba e perfino quella turca, accaparrandosi l’edilizia popolare. Il legame tra Cina ed Algeria risale a molti anni indietro. La Cina fu il primo Paese del mondo a riconoscere il Governo algerino. Lo fece ancor prima che finisse la guerra di liberazione contro la Francia.

Se l’Italia primeggia nell’interscambio commerciale con l’Algeria, e la Francia mantiene la leadership in quello degli investimenti diretti, la Cina non ha rivali nelle esportazioni: 7,8 miliardi di dollari nel 2018.

Ma l’Algeria vuole cambiar volto. Intende fare in Africa ciò che ha fatto il presidente Erdogan con la Turchia: realizzare una rivoluzione infrastrutturale, con fondi pubblici, per trasformare e rilanciare la sua industria. «Il nostro Governo – risponde Smail Debeche, professore di relazioni internazionali all’Università Algeri 3 e presidente dell’influente associazione di amicizia Cina-Algeria – desidera che i cinesi investano in Algeria su progetti win win. Qui le compagnie statali cinesi si stanno facendo carico di lavori indispensabili per il processo di diversificazione della nostra economia». Ma perché riescono ad accaparrarsi gran parte dei progetti? «I cinesi – continua Debeche – rispettano i tempi di realizzazione e le modalità di esecuzione. Mentre altre aziende straniere sono in ritardo sui tempi. Ma soprattutto le compagnie cinesi hanno prezzi imbattibili. E in questa difficile congiuntura economica è un aspetto fondamentale».

Anche perché, ricorrendo ad aziende straniere, cercano di mantenere alti gli standard di qualità. Così per la realizzazione delle fondamenta del minareto, la statale China State Construction Engeneering, la più grande compagnia di costruzioni al mondo (100 miliardi di dollari di fatturato), ha affidato l’esecuzione a un’impresa italiana leader in questo settore, il gruppo Trevi. «Le fondamenta di un minareto alto 270 metri richiedevano un attività ad altissimo contenuto tecnologico. Ma quando i cinesi interferivano con noi, lo facevano in maniera costruttiva» spiega Riccardo Cabassa, direttore generale di Trevi Algeria.

Al di là della moschea, l’Algeria è impegnata in un processo – meglio per ora definirlo tentativo – atto a stimolare il settore privato. Non se ne può fare a ameno, spiega Abderahaman Benkhalfa, ministro delle Finanze dal 2015 al 2016. «Stiamo puntando molto sugli investimenti diretti stranieri. Vogliamo Paesi intenzionati a venire in Algeria per investire in partnership con il nostro settore privato. Intendiamo realizzare una filiera dell’industria alimentare. Tutti sono ben accetti. Ma non è un segreto che la presenza cinese è molto importante sui programmi di realizzazione delle infrastrutture. È una presenza che vedrà presto un’ulteriore accelerazione grazie anche allo sviluppo dell’industria dei fosfati». Il ministro si riferisce all’accordo firmato lo scorso novembre dalla major algerina Sonatrach e la compagnia di Stato cinese Citic per la realizzazione di un impianto per lo sfruttamento di fosfati. Progetto da sei miliardi di dollari capace di creare 3mila posti di lavoro in cui Sonatrach deterrà il 51 per cento.

D’altronde, per un Paese che ricava dalle vendite di idrocarburi il 98% dell’export, non si può più rimandare il processo di diversificazione. In Algeria sta avvenendo quanto sta accadendo in altri Paesi africani esportatori di greggio. «L’incremento demografico e la crescente urbanizzazione stanno provocando un’impennata della domanda di energia – dice l’ecomomista algerino Abderahaman Aya -. Anche per il gas naturale. Il tutto si traduce in una pericolosa riduzione delle esportazioni di idrocarburi. Il governo sta puntando sulle energie rinnovabili e sulla diversificazione. Ma ci vorrà tempo». La caduta del prezzo del barile, crollato dai 114 dollari del giungo 2014 a poco più di 40 nel gennaio 2015, ha contribuito a fare il resto. «Nel 2011 l’Algeria – continua Aya – aveva ricavato dall’export di greggio e gas 71 miliardi di dollari. Nel 2018 siamo precipitati a 35 miliardi».

Da allora il deficit è stato inevitabile. L’anno scorso è arrivato al 13% del Pil. Eppure i generosi sussidi governativi sono stati mantenuti per placare il malcontento popolare. Gli algerini godono di sussidi energetici (la benzina costa 25 centesimi al litro, Ndr), università gratuite, accesso alla sanità pubblica, perfino libri e alloggi gratis per chi risiede ad oltre 50 km di distanza. Ma è una zavorra che grava sui conti pubblici. «Il fondo sovrano usato per rifinanziare il deficit, 70 miliardi di dollari, si è esaurito a inizio 2017. Le riserve valutarie della Banca centrale ammontavano a 194 miliardi di dollari nel 2014. Oggi sono meno di 80. L’Algeria è un Paese che importa quasi ogni genere di merci», confida un funzionario occidentale. Può sembrare un paradosso per un Paese esportatore di gas e greggio, ma il Governo importa grandi quantità di benzina e prodotti raffinati. «In due anni sei nuove raffinerie (accordo firmato due anni fa) saranno costruite dai cinesi. Una volta finite, smetteremo di importare benzina dalla Francia», aggiunge il professor Debeche.

Pare quasi che la Francia assista impotente all’offensiva commerciale cinese nel suo giardino africano. Ma un audace, quanto avveniristico progetto potrebbe rivoluzionare il commercio di tutto il Mediterraneo: una nuova Via della Seta africana che collegherà la Cina all’Africa subsahariana (arrivando ai giacimenti di greggio e gas della Nigeria) attraverso l’Algeria. Pechino ed Algeri hanno firmato la costruzione di un porto gigantesco (progetto da 3,3 miliardi di dollari)a El Hamdania, 70 km a Ovest di Algeri.

«Il nuovo porto è finanziato dalla Cina. Sarà una partnership win win. Potrebbe far concorrenza a Marsiglia. Ecco perché alla Francia non piace. Abbiamo già la strada, rifatta, che collega il porto fino al confine meridionale algerino. Poi toccherà ai Governi di Mali, Niger e Nigeria. Una lunga strada e una rete ferroviaria».

Un progetto che lascia molti dubbi, soprattutto sul fronte della sicurezza. Certo è che la presenza cinese sta crescendo. Lontano dai bianchi edifici coloniali del centro, a pochi chilometri dall’aeroporto, ha preso vita un quartiere conosciuto come Chinatown. Un dedalo di viuzze dove si affiancano senza soluzione di continuità negozi all’ingrosso che paiono uguali. Al loro interno sono stipate merci cinesi di ogni genere. Accanto ai proprietari cinesi, che mangiano rigorosamente cibo cinese, commessi e fattorini algerini accolgono i clienti.

Hamid ha 25 anni, frequenta ingegneria informatica e si mantiene facendo il factotum per un negozio cinese. «I cinesi si integrano, ma non comunicano. Qualcuno parla “algerois,” (un incrocio tra francese e arabo). Ma sembrano arrivati per restare a lungo. Pensate che le tende e i vestiti che vendono qui sono prodotti nel quartiere di Hammadi, 40 chilometri di piccoli stabilimenti cinesi».

Dimenticavamo. Se doveste andare al Teatro dell’Opera di Algeri, potrebbe esser utile sapere che si tratta di un regalo del Governo cinese. E se riusciste ad osservare con precisione lo spazio, sappiate che il primo satellite algerino per le telecomunicazioni è stato lanciato da Chichang, in Cina.

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