In una economia globale, con forti vincoli continentali, è da stupidi “dare la colpa a qualcuno” dell’esplodere di una crisi. Per quanto le scelte soggettive – di singoli governi, soprattutto se di paesi molto potenti – possano favorire o contrastare i processi critici, alla base restano le contraddizioni strutturali di un modo di produzione fondato sul profitto. Dunque totalmente irrazionale sul piano sistemico, per quanto ogni attore agisca in modo presuntamente “razionale” perseguendo il proprio individuale successo. Anzi, più è “capitalisticamente razionale” come impresa o individuo, più accelera i processi che fanno esplodere la crisi.
Così, mentre tutti gli opinion maker davano per sostanzialmente superato lo choc sistemico del 2007-2008 – per quanto in modo molto diseguale (l’Italia, per esempio, non ha mai recuperato i livelli ante-crisi), ecco che la recessione è tornata a soffiare sui mercati globali. In Italia è anche “tecnicamente” ufficiale (due semestri con Pil negativo, seppure di poco), nel mondo è ormai alle viste.
I grandi attori (Usa, Cina e Unione Europea), quelli in grado di condizionare in parte il processo critico, stanno seguendo strade diverse. E già questo, come si sente dire, “preoccupa i mercati”. In dettaglio: i cinesi hanno varato un piano di stimoli finanziari e fiscali di dimensioni ciclopiche, puntando soprattutto su infrastrutture globali (Via della Seta e oltre); gli statunitensi puntano a ridiscutere in modo unilaterale tutti gli accordi commerciali, e intanto la banca centrale (Federal Reserve) ha stoppato il suo piano di progressivo rialzo dei tassi di interesse, che aggraverebbe la recessione alle porte); la Bce è immobile e sembra incerta sul da farsi (tra fine dell’espansione monetaria e del mandato dell’attuale presidente, Mario Draghi, e ritorno alla “normalità” prevista dai dogmi ordoliberisti).
In questa empasse, che non può durare a lungo, entra a piedi uniti Erik Nielsen, capo economista globale di Cib Research (Unicredit).
La richiesta è semplice: la Bce deve contrastare questa tendenza “naturale”, anche a costo di portare a zero i tassi ed essere espansiva senza limiti di tempo.
Non si parla ovviamente del significato profondo di una simile politica. Che è banale quanto sconvolgente le “certezze” liberiste: i mercati, da soli, non possono reggere, occorre una quantità infinita di droga monetaria perché restino nella situazione attuale.
Non si tratta insomma neanche di una “soluzione”, ma del semplice mantenimento dello statu quo. Ovvero della “stagnazione secolare” che data in pratica dall’inizio del millennio (esplosione della bolla della net economy, nel 2000).
In attesa di cosa? Non viene detto da Nielsen, ma è già stato spiegato da molti decision maker, in modo obliquo e mai esplicito: si attende che la competizione globale tra macro-aree continentali produca, per selezione naturale, il tracollo di una o più di queste economia, riaprendo dunque la dinamica della “ricostruzione” e assorbimento dentro un mercato diversamente configurato.
Più o meno quello che è avvenuto con la prima e la seconda guerra mondiale, e poi con il crollo del “socialismo reale”. Possibilemente senza guerra guerreggiata, perché altrimenti è un compito che passerebbe ai topi…
Il candidato più accreditato, al momento, sembra proprio l’economia Europea, gestita in modo criminale – negli ultimi 30 anni – dall’ordoliberismo inscritto nei Trattati Ue.
A voi l’articolo da Milano Finanza *, che dà conto dell’allarme lanciato da Nielsen.
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Nielsen (Unicredit): perché la Bce deve richiamare il Tltro e il Qe subito
La politica commerciale di Trump ha portato a danni concreti all’economia globale e l’Europa sta soffrendo. I Paesi periferici non investono, i colossi Usa li evitano. E lo spettro ora è di una Grande Recessione, che la Bce potrebbe fermare, a costo di portare a zero i tassi ed essere espansiva senza limiti di tempo
Elena Dal Maso *
L’Europa ha bisogno di stimoli di politica fiscale e monetaria a causa anche del danno concreto e visibile che sta facendo il presidente Usa, Donald Trump, sul fronte della politica commerciale. Lo scrive Erik Nielsen, capo economista globale di Cib Research (UniCredit Bank, Londra) nel suo ultimo Morning Wrap.
Il sentiment è in calo in tutto il mondo e ha cominciato a danneggiare gli investimenti, con effetti concreti sul commercio globale in calo nelle principali economie quali Ue, Cina e Stati Uniti. Pechino, dal canto suo, spiega Nielsen, sta mettendo a punto un programma di stimolo impressionante e persino la Fed ha cambiato i suoi orientamenti di politica monetaria in materia di rialzo dei tassi. Ma, sottolinea l’economista, mentre la Bce ha espresso preoccupazione, non ha finora dato indicazioni chiare di voler cambiare direzione, per non parlare di muoversi nel concreto, determinando uno stato di attuale incertezza.
Secondo Nielsen, a questo punto Francoforte dovrebbe agire sia con aggiustamenti attraverso politiche mirate a debolezze congiunturali, che a strumenti in grado di agire sui problemi strutturali. A questo si aggiunga che viviamo in un ambiente globale competitivo, in cui la digitalizzazione richiede un approccio molto più mirato agli investimenti e all’istruzione.
Durante gli anni di austerità, molti Paesi periferici dell’Ue hanno tagliato gli investimenti pubblici fino al due punti base del pil, portandoli al 2,0%-2,5%, mentre la Germania ha limitato i suoi investimenti ai livelli attuali al 2% del prodotto interno lordo. Si tratta della metà di ciò che hanno fatto i Paesi scandinavi, in termini di nuove tecnologie e globalizzazione. E i loro investimenti rappresentano uno degli impegni più limitati rivolti alle infrastrutture pubbliche dell’area Ocse. Non sorprende che la Scandinavia ora abbia il più alto livello di digitalizzazione del settore pubblico nell’Ue.
Un’altra questione di una certa rilevanza è la tassazione in Europa, che dovrebbe essere armonizzata. L’economista di Unicredit cita una ricerca di Brad Setser di CFR secondo cui le aziende statunitensi hanno investito otto volte più in Olanda che in Germania, otto volte più in Lussemburgo che in Francia, e dieci volte più in Irlanda che in Italia. La Bce deve reagire a questo, anche perché sono trascorsi ormai anni di inflazione al di sotto dei target previsti dalla Banca centrale europea. E oggi le aspettative inflazionistiche tedesche a 10 anni (misurate dalle obbligazioni indicizzate all’inflazione) sono inferiori all’1% per la prima volta dal 2016.
E’ un’altra ragione per cui la Bce dovrebbe annunciare un altro round di Tltro a 3 anni con un tasso fisso pari a zero (anche se la versione a tasso variabile che dovrebbe essere annunciata andrà bene lo stesso.) Il programma di Targeted Long Term Refinancing Operation è importante, perché interviene come strumento per affrontare il meccanismo di trasmissione del denaro ancora mal funzionante.
Tuttavia questo meccanismo di trasmissione è compromesso fin dalla nascita dai tassi negativi (-0,4% il costo del denaro nell’Eurozona). E i tassi negativi non vengono trasferiti ai clienti delle banche (in alcuni Paesi per motivi legali), quindi agiscono come una semplice imposta sulle banche. E qui Niesel si chiede: in un momento in cui la Bce vuole che le pmi e le altre società dell’economia reale ricevano credito a condizioni allettanti, perché tassano gli intermediari?
Per l’economista “la sensazione è che la maggior parte delle persone a Francoforte capisca questa contraddizione, ma, in un momento in cui anche meccanismi complessi di politica monetaria devono essere spiegati al pubblico generale attraverso la stampa, i membri della Bce faticano a trovare un ragionamento semplice e concreto per far capire l’importanza di riportare i tassi a zero”.
Invece la Bce dovrebbe parlare “in maniera più aggressiva sugli obiettivi di inflazione, promettendo di reinvestire l’intero portafoglio per tutti gli anni che serviranno in modo da far rialzare finalmente il costo della vita secondo gli obiettivi di Francoforte. E, se necessario, aggiungere un altro round di Quantitative Easing, se sarà necessario”, conclude Nielsen.
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