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Aumenti dell’Iva per “competere meglio”, impoverendo noi

I governi degli imbonitori – quasi tutti quelli degli ultimi 30 anni – sono un devastante mix di promesse mirabolanti e servilismo concreto. Da un lato debbono infatti guadagnarsi o mantenere il consenso elettorale, dall’altra non sanno muovere un dito senza sottostare completamente alle direttive della Commissione europea.

Il risultato lo vediamo nella nostra vita quotidiana, che peggiora di giorno in giorno.

Ma ci sono anche delle novità. In peggio, naturalmente. Se prima avevamo sostanzialmente come minaccia principale quella del debito pubblico da ridurre tagliando la spesa sociale (sanità, scuola, pensioni, assistenza, ecc), da qualche anno è andata montando la minaccia degli aumenti automatici dell’Iva. Una tassa sui consumi, di fatto, che dunque pesa enormemente di più sui redditi molto bassi (quelli per cui anche pochi centesimi di prezzo in più su ogni merce diventa un problema insormontabile) e nulla su quelli alti, ma che proprio per questo riduce la domanda interna. Alimentando le crisi aziendali di chi opera soprattutto per il mercato inerno, e quindi i licenziamenti e la definitiva, totale, precarizzazione del lavoro a bassissimo salario.

Una spirale infernale che ogni anno minaccia di esplodere sulla vita di tutti noi e che viene “miracolosamente” rinviata all’anno successivo. Quando però tornerà a presentarsi in dimensioni aumentate, perché ogni governo pratica un giochino che sembra furbo ma incrementa la portata della bomba piazzata sotto i consumi popolari: il rinvio dello scatto automatico degli aumenti dell’Iva viene infatti associato a un incremento maggiore previsto per l’anno successivo.

Il meccanismo viene perfettamente spiegato da Guido Salerno Aletta, nell’ultimo editoriale di Milano Finanza. Ma per comprenderne ancora meglio la portata macroeconomica va associato alla lettura di un altro articolo da noi pubblicato qualche giorno fa: La regola di Gita porta il Colbertismo Competitivo in Europa.

In questa connessione si vede chiaramente come il giochino del rinvio non sia solo un sotterfugio degno del peggior “genio italico”, ma funzioni da battistrada per una stagione di competizione infraeuropea per mantenere in vita il modello export oriented di matrice ordoliberista (e tedesca). Nonostante sia ormai ammesso pubblicamente il suo fallimento!

In pratica, gli aumenti dell’Iva – per tutta l’eurozona – compenserebbero l’impossibilità di svalutare la moneta a livello nazionale. Ma si tratta di una mossa che qualsiasi altro paese dell’area potrebbe copiare, scatenando una “guerra” che non potrebbe che esser vinta da chi ha più munizioni (Berlino e Amsterdam). Aumentando così le disuguaglianze tra paesi e classi sociali.

Solo per avere un raffronto, in Cina – l’economia al momento “più competitiva” del pianeta – sta usando la strategia esattamente opposta. Dal primo aprile è l’Iva è cesa di tre punti percentuali: l’aliquota “normale” del 16% è passata quindi al 13%, mentre un altro taglio più ridotto è stato applicato a quella del 10%, passata al 9%. E’ rimasta invariata invece l’aliquota del 6%. Le misure avranno effetti su diversi settori economici, ma in particolare andranno a interessare i beni e servizi dei settori manifatturiere, delle costruzioni e dei trasporti. E da laggiù segnalano “voci” circolanti in ambienti governatici  ed economici che prevedono un’ulteriore riduzione nei prossimi mesi (più o meno in vista delle celebrazioni per il 70° anniversario della Rivoluzione guidata da Mao.

Materiale di prima qualità per orizzontarsi in temi che risultano ostici quanto più sono decisivi.

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Iva, la solita montagna da scalare

L’Iva? Aumenta! No, non aumenta! Ma se non aumenta, che si fa? Ogni anno stiamo punto e daccapo, con le clausole di salvaguardia introdotte sin dal 2011, ai tempi in cui al Ministero dell’economia sedeva Giulio Tremonti.

Fu nella manovra estiva di quell’anno che si decise il primo aumento dell’aliquota ordinaria, portandola dal 20 al 21% a decorrere dal 17 settembre, per incassare 4,9 miliardi di euro nel biennio 2011-2012. E venne inserita per la prima volta una clausola in base a cui, ove nel bilancio 2012 non fossero stati effettuati tagli alle spese ovvero rinvenute ulteriori entrate per ridurre il deficit di 20 miliardi, sarebbero scattati automaticamente altri aumenti dell’Iva e delle accise sui carburanti.

Da allora, ogni anno, tutti i governi si sono trovati d fronte al medesimo dilemma: se lasciare scattare l’aumento delle aliquote oppure trovare altre soluzioni. Il governo Monti si limitò ad aumentare l’aliquota ordinaria al 22%, con decorrenza dal 1° ottobre 2013, ma rinunciò all’ulteriore aumento già pianificato per via della recessione in atto, indotta dalle misure fiscali introdotte con il Salva Italia.

L’aumento automatico delle aliquote Iva è un meccanismo infernale, soprattutto dal punto di vista politico: nella proiezione del bilancio a legislazione vigente contenuta nel DEF si offre infatti un quadro irrealistico degli andamenti del deficit, che sono già molto più vicini all’obiettivo di pareggio strutturale. Si dà infatti per acquisita, in quanto è già legge, una decisione che invece viene invece puntualmente rimessa in discussione.

Un po’ tutti i governi hanno operato alla stessa maniera: mentre sterilizzano gli aumenti dell’Iva per l’anno di approvazione del bilancio, magari approfittando del maggior deficit concesso a titolo di flessibilità, rendono più pesante l’onere per gli anni successivi.

Siamo arrivati così alla legge di bilancio 2018, approvata durante il governo Gentiloni, che sminava gli aumenti solo per quell’anno, prevedendo per il futuro questa più irta progressione: l’aliquota ordinaria saliva al 24,2% nel 2019 (+2,2% rispetto alla clausola precedente), poi al 24,9% nel 2020 (+0,7%), ed ancora al 25% dal 2021 (+0,1%). L’aliquota ridotta saliva all’11,5% nel 2019 (+1,5%), e al 13% nel 2020 (un altro +1,5%).

La legge di bilancio 2019, approvata con l’attuale governo, ha parimenti disinnescato, ma solo per quest’anno, l’aumento di 1,5 punti percentuali che era stato disposto in precedenza per la aliquota ridotta, che quindi è rimasta ferma al 10%. Rimane così un doppio scalino, con l’aumento complessivo del 3%, che andrebbe sterilizzato nel 2020: altrimenti, si passa direttamente dal 10% al 13%.

Anche l’aliquota ordinaria è stata diminuita rispetto alla clausola precedente, solo per quest’anno, di 2,2 punti percentuali, restando così ferma al 22%. E’ stato invece ulteriormente aggravato il maggior carico già previsto per il 2020, aumentando la precedente previsione di altri 0,3 punti percentuali, per cui dal prossimo 1° gennaio l’aliquota ordinaria passerebbe direttamente dal 22% al 25,2% (+3,2% rispetto alla aliquota odierna), con l’obiettivo di incassare 23,1 miliardi di euro.

A partire dal 2021, l’aliquota ordinaria salirà ancora, di altri 1,5 punti percentuali rispetto alla clausola precedente che già la fissava al 25%, arrivando così al 26,5% (+4,5% rispetto alla aliquota odierna) al fine di incassare 28,75 miliardi. L’aumento delle accise sui carburanti, previsto sempre a partire dal 2020, dovrebbe portare un maggior incasso di 400 milioni di euro l’anno.

La idea di aumentare l’Iva viene da lontano: per un verso, era coerente con la politica fiscale sostenuta da Tremonti, che sosteneva la necessità di spostare il baricentro della tassazione “dalle persone alle cose, e dal lavoro al consumo”; dall’altra parte, era la stessa Commissione europea che vedeva con molto favore questi aumenti di imposte indirette, in quanto idonei a ridurre i consumi interni, a disincentivare le importazioni ed a favorire l’export da parte dei Paesi che avevano una bilancia commerciale in deficit, come era quella dell’Italia anche nei primi anni della crisi.

Aumentando l’Iva, si creava artificiosamente un differenziale di prezzo che rendeva più conveniente vendere all’estero, laddove invece l’aliquota Iva è più bassa; oppure ancora nei Paesi, come gli Usa, in cui le imposte indirette sono irrisorie rispetto agli standard europei.

La strategia di crescita era dunque export-led: bassi salari, flessibilità del mercato del lavoro, ed aumento della tassazione sui consumi, rappresentavano un unico tridente. Il manico era rappresentato dal taglio del cuneo fiscale che grava sul lavoro, in maniera da ridurre anche per questa via i costi di produzione, rendendo ancora più competitivo l’export.

Ci sono ora due questioni sul tappeto: la coerenza di questa impostazione nel contesto attuale, in cui c’è un rallentamento della domanda estera, inclusa quella europea; la sua compatibilità con la ipotesi di una sorta di Flat tax, da introdurre a partire dal 2020 sui redditi fino ad un determinato livello. Il primo è un aspetto di politica economica, tenendo conto che nel DEF si stima già che il rischio del rallentamento del commercio mondiale può comportare per il Pil italiano un effetto recessivo dello 0,2% in ciascuno dei prossimi tre anni; il secondo riguarda scelte di politica tributaria.

Le ipotesi sul tappeto per quanto riguarda l’Iva sono diverse, prima tra tutte quella che terrebbe ferme le aliquote oggi in vigore, facendo transitare una serie di beni e servizi da una all’altra, da una parte a fini perequativi e dall’altra per recuperare gettito. Colpendo alcuni consumi, gravandoli della aliquota ordinaria al 22% anziché di quella ridotta al 10%, e spostandone altri considerati essenziali da quella del 10% a quella minima del 4%, si potrebbe ridurre considerevolmente l’ammontare delle risorse necessarie per mantenere invariato il maggior gettito complessivo. Comunque, anche se mascherato dalla diversa composizione delle tabelle merceologiche, ci sarebbe un forte aumento della tassazione.

Nel DEF appena presentato dal governo, ed ora sottoposto al vaglio del Parlamento, si scontano sia gli effetti della manovra di bilancio, che ha completamente sterilizzato l’aumento dell’Iva e delle accise per il 2019 per un importo di 12,5 miliardi di euro, sia quelli delle nuove clausole di salvaguardia che scattano a partire dal 2020: in rapporto al Pil, le imposte indirette saliranno dal 14,5% del pil del 2019 al 15,6% nel 2020, e poi al 15,7% nel 2021. Nel complesso, la pressione fiscale dovrebbe ridursi dello 0,1% sul pil nel 2019, arrivando al 42% netto, per poi salire al 42,7% nel 2020 e 2021.

Sull’inflazione, invece, l’aumento dell’Iva previsto dalle clausole di salvaguardia nel triennio 2020-2022 avrebbe un impatto assai rilevante: i prezzi al consumo, rispetto all’aumento dell’ 1,1% registrato nel 2018 e dell’1% netto previsto per quest’anno, dovrebbero aumentare del 2,3% nel 2020, dell’1,8% nel 2021 ed ancora dell’1,5% nel 2022. Di conseguenza, mentre la crescita reale rimarrebbe comunque molto modesta (+0,6% nel 2020, +0,7% nel 2021 e +0,9 nel 2022) il pil nominale aumenterebbe in modo rilevante, passando dall’1,2% di quest’anno al 2,6% del 2020, al 2,5% del 2021 ed al 2,4% nel 2022.

Il risultato di aumentare l’inflazione, che non è mai stato colto dalla politica monetaria accomodante della Bce, attraverso il QE, si materializzerebbe immediatamente, superando gli stessi obiettivi di un incremento annuo vicino, ma non superiore, al 2%. Niente sposta tanto velocemente i prezzi verso l’alto quanto un aumento della imposizione indiretta e dei prezzi all’importazione.

Mentre il Ministro dell’economia Giovanni Tria tiene il punto, ribadendo in ogni occasione che occorre trovare le risorse già previste, i due Vice Presidenti del Consiglio, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, invece tambureggiano: con questo governo, dicono, le tasse non si aumentano. Siamo in campagna elettorale permanente, con le Europee alle porte.

Il mercato non si preoccupa affatto di queste polemiche: lo spread rimane inchiodato, rassicurato dai recenti orientamenti delle Banche centrali. Con tutte le incognite che ci sono in giro, nessuno si azzarda a speculare. E poi, occorre dare tempo al tempo: da qui all’inizio del 2020, chissà quante cose ancora sono destinate a cambiare.

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