La settimana che si apre dovrebbe essere quella decisiva per quanto riguarda la strategia europea per il post-pandemia (ammesso e non concesso che ci si trovi in un “post” anziché in una pausa stagionale). Gli iniziali atteggiamenti ritardatari dei “paesi frugali” (“l’importante è fare bene”) sono stati improvvisamente accantonati su indicazione della cancelliera Angela Merkel, per sei mesi presidente di turno di tutta l’Unione Europea, che intende sfruttare anche questa occasione – e la crisi ne sta offrendo a decine – per imporre l’imprinting sull’Unione 2.0.
Cuore della discussione continentale è il Recovery Fund, ossia il fondo straordinario “per la ricostruzione” da aggiungere al normale bilancio europeo. 500 miliardi, come nella proposta iniziale di Merkel e Macron, e non 750 come poi proposto dalla Commissione guidata da Von der Leyen. Tanto per far capire chi è che comanda (nonostante anche la presidente della Commissione sia tedesca, ma con una composizione ovviamente più “pluralista”).
500 miliardi di “trasferimenti a fondo perduto”, vincolati a investimenti per effettuare precise “riforme strutturali” che l’Unione Europea pretende da ogni Paese non le abbia ancora compiute o completate. I dettagli non sono ancora stati resi noti, ci si è limitati ad evocare “svolte green”, rivoluzioni digitali, ecc. Ma sono pià che intuibili…
Per esempio, l’incontro tra Giuseppe Conte e il suo omologo olandese Mark Rutte ha provveduto a sgomberare il campo da ogni equivoco, visto che il boero ha consigliato all’”avvocato del popolo” di eliminare “quota 100”. Una battuta informale, certo – “quota 100” vale pochissimo, in termini di bilancio, e comunque doveva scadere nel 2021 – ma che indica con nettezza la direzione da prendere: i Paesi con alto debito pubblico, quelli euromediterranei, insomma, devono tagliare ancora di più la spesa sociale, a cominciare da quella pensionistica.
Per essere ancora più esplicito, il boero si è ripetuto stamattina anche nell’incontro con il pari grado spagnolo Pedro Sanchez, oggi in visita all’Aja: “non sarà facile” raggiungere un accordo per il fondo europeo di ricostruzione post-pandemia. Dunque Rutte ha invitato Sanchez “a cercare una soluzione interna alla Spagna“. Non sappiamo come si dica “cazzi vostri”, in quella lingua, ma certo non lo si può accusare di ostilità solo verso l’Italia…
Ma come, non eravamo qui per discutere dei “miliardi che devono arrivare dall’Europa per la ricostruzione”?
Ancora con queste favole per bambini ipodotati… La prima cosa da capire è che “l’Europa” non ha un solo euro, di suo. Tutto quello che le arriva, viene dai singoli Stati. I quali versano soldi cash oppure forniscono “garanzie” di contribuire alle spese comunitarie con il criterio della percentuale rispetto al Pil. Mentre i “fondi europei”, così costituiti, trasferiscono quei soldi ai vari Paesi secondo criteri dipendenti dalle “politiche europee”. Per esempio, dalla caduta del Muro in poi, i Paesi dell’ex Patto di Varsavia o ex sovietici, ricevono più di quanto versano per “aiutare il loro sviluppo”. Con una mano si dà, con l’altra si prende, con qualche piccola differenza.
L’Italia, in questo gioco di versamenti e ritorni sotto forma di “fondi europei”, è da sempre contributore netto. Ossia versa all’Unione Europea più di quanto poi non riceva.
Bene, dirà il lettore depistato da Repubblica e via elencando, ma “questa volta avverrà il contrario!”
No. Nemmeno per sogno, o meglio, per incubo (da virus).
Tutto dovrà andare come sempre, più duramente di sempre. Per capirlo, naturalmente, non ci si può basare sulle “dichiarazioni” dei politici. Quelli “europeisti” dicono che “finalmente l’Europa mutualizza il debito e aiuta i Paesi in difficoltà”; oppure – sul ricorso al Mes – giurano che “possiamo prendere 37 miliardi senza condizionalità”. I nazionalisti alla Salvini e Meloni dicono che è una “fregatura”, ma non spiegano il perché (è un po’ complicato capire il meccanismo, e può darsi lo sia troppo, per loro…), tantomeno indicano una via per superare l’impasse che non sia una sciocchezza buttata lì.
Per capire tocca fare i conti, guardare i numeri e fare le quattro operazioni fondamentali che si imparano ai primi anni delle elementari.
Ci aiutiamo ancora una volta con l’analisi di Guido Salerno Aletta, apparsa su Milano Finanza sabato, così nessuno potrà dire che “facciamo solo ideologia”.
Primo numero: il bilancio dell’Unione Europea, relativo al settennato 2021-2027, è di 1.279 miliardi di euro, pari all’1,11% del Reddito nazionale lordo dell’Unione, da ripartire in proporzione tra i 27 Stati membri. Ma quei soldi finanziano in pratica le “spese correnti” della Ue (commissari, funzionari, staff, strutture, ecc) e i “progetti” o “linee di investimento” già approvate o in corso.
Dunque non è da lì che arriverà qualcosa, anzi non è stato ancora risolto problema di come riempire il “buco” aperto dalla Brexit (13 miliardi l’anno, per complessivi 91 miliardi).
Il fatto brutale che il Recovery Fund sarà di soli 500 miliardi, anziché di 750, smonta in un attimo tutta la fantasiosa macchina narrativa secondo cui all’Italia sarebbero arrivati 153 miliardi (il 20,4% del totale) rispetto a 96,3 miliardi di contributi (il 12,8% del totale), con un incasso netto di 56,7 miliardi.
Secondo quella proposta – che non è più sul tavolo, ripetiamo – i “contributi a fondo perduto” (grant) sarebbero stati pari a 81,8 miliardi, mentre i prestiti (loan) a 71,2.
Gaudio, tripudio, manna dal cielo? No, perché il contributo italiano a quel fondo ormai morto sarebbe stato di 96,3 miliardi, ossia 14,5 in più di quanto sarebbe stato ricevuto come grant. Dove sarebbe stato il guadagno, non si può proprio capire…
In più, ci sarebbero stati i 71,2 miliardi di normali prestiti, ovviamente da restituire con interessi (quasi zero, com’è oggi sul mercato), che comunque andavano ad aumentare il debito pubblico e quindi a peggiorare le cicliche “verifiche” della Ue (in base alle quali scattano, oppure no, prescrizioni, sanzioni, “sorveglianze rafforzate”, ecc).
Se guardate i giornali o ascoltate i talk show, noterete che “gli europeisti” continuano a cianciare di quei 153 miliardi stracciati dalla Merkel, come se fossero cosa quasi fatta, invece che s-fatta…
Verrebbe quasi la tentazione di tirare un sospiro di sollievo per il fatto che il Next Generation EU della Commissione non esiste più.
Trattenetevi.
Il “piano Merkel” è naturalmente assai più rigido, drastico, sparagnino.
Citiamo direttamente Salerno Aletta:
“’Sosteniamo la dote da 500 miliardi per tutta l’Europa’, ha affermato [Merkel], intendendo soprattutto che si dovrà trattare di solo grant. Niente loan: per i debiti, si dovrà far ricorso al Mes.
Ha prevalso la linea dei Paesi frugali: Olanda, Austria, Danimarca e Svezia, la testuggine politica usata dalla Germania per contrastare le velleità di spesa dei Paesi mediterranei. Insieme a Gran Bretagna ed Irlanda, anche Danimarca, Olanda e Svezia hanno ampiamente risparmiato sui versamenti al bilancio europeo nel settennio 2014-2020 tutelandosi con i rebates: sono davvero frugali, ma con i soldi degli altri. Anche con quelli dell’Italia, che infatti contribuisce all’Unione in misura più che proporzionale rispetto al suo pil.”
Non dovrebbe servire traduzione, ma cerchiamo comunque di “agevolare” il lettore non abituato al linguaggio economico. I 500 miliardi saranno messi insieme con lo stesso meccanismo di ripartizione adottato per qualsiasi fondo europeo (contributi degli Stati, proporzionali al Pil), e saranno redistribuiti “ a fondo perduto” con l’identica logica (vincolati a “riforme strutturali” per cui vanno presentati al pià presto “piani nazionali” che dovranno essere esaminati e, se approvati, finanziati).
Il “guadagno”, per l’Italia, starebbe solo nel fatto che – essendo il “piano Merkel” più povero – bisognerebbe contribuire con una cifra minore per ricevere comunque un qualcosa di più modesto, e dunque con uno scarto tra dare e avere minore di quanto previsto nel piano della Commissione per cui abbiamo dato i numeri.
La parte peggiore arriva infatti dal lato prestiti: “ricorrete al Mes”. Ossia al fondo che ha distrutto la Grecia facendo scendere in campo la Troika (Ue, Bce, Fmi) e devastando la società greca.
Gli “europeisti” assicurano: “ma stavolta non ci sono condizionalità, tranne quella di spendere quei soldi per la spesa sanitaria!”.
Vero e falso, ma soprattutto molto falso.
Di vero c’è pochissimo, ossia il fatto che la ferree “condizionalità” previste dal Mes (che è stato istituito con un trattato apposito) sono momentaneamente sospese. Non cancellate. Né avrebbero potuto esserlo senza rivedere totalmente il trattato relativo.
Lo stesso megadirettore galattico del Mes – Klaus Regling, uno degli architetti dell’euro – aveva già provveduto a precisare, un paio di mesi fa, che “La Commissione Europea chiarirà monitoraggio e sorveglianza in accordo con le regole del Two Pack”.
E qui tocca aprire una breve parentesi per ricordare che il sistema dei trattati che regolano e reggono l’Unione Europea è per l’appunto un sistema. Ossia un insieme di “contratti” tutti logicamente e contenutisticamente correlati. La sospensione temporanea di una regola – per motivi contingenti o straordinari, come la pandemia – non abolisce di per sé “le regole”. Altrimenti si dovrebbe scriverne di nuove.
Il Two Pack richiamato da Regling, non a caso, disciplina insieme al trattato Six Pack (i nomi non significano niente, di modo che nessuno possa intuire cosa c’è dentro) tutta la complessa procedura di redazione della “legge di stabilità” di ogni singolo Stato dell’Unione Europea. Una procedura che da aprile ad ottobre – il “semestre europeo” – vede ogni governo stilare il modo in cui troverà risorse e per cosa le spenderà l’anno successivo; ad ogni tappa dell’elaborazione (ne sono previste diverse) dovrà sottostare all’approvazione della Commissione. Quei 37 miliardi in meno di spesa sanitaria italiana, per esempio, in appena dieci anni, sono maturati in questo modo. E casualmente corrispondono quasi al centesimo ai fondi in prestito che si potrebbero chiedere al Mes.
Non entreremo di più nei dettagli, rimandandovi per questo all’analisi di Salerno Aletta, più che esauriente sia nei numeri che nell’individuazione della “razionalità strategica” della politica tedesca.
Sull’uso dei fondi del Mes, del resto, è stato già lapidario il ministro dell’economia Gualtieri, che ha spiegato come eventualmente quei 37 miliardi verrebbero usati “per pagare le fatture emesse durante la pandemia, non per effettuare nuova spesa sanitaria”. Ossia non per rimettere in sesto il servizio sanitario pubblico e renderlo più pronto ad inevitabili nuovi schock.
Ci basta qui, per chiudere, rispondere a quanti, come contabili di condominio, raccontano che “chiedere i fondi del Mes ci costa di interessi meno di quanto spenderemmo finanziandoci sui mercati emanando titoli di stato”.
E’ vero. Con un piccolo particolare che fa una grande differenza. Sui mercati ti chiedono di pagare un interesse “attraente”, ma resti in qualche modo padrone delle scelte da fare su come spendere quei soldi (stendiamo un velo pietoso sull’attuale classe dirigente italiana, tutta, e immaginiamo una condizione “ideale”).
Dal Mes pretendono di avere le chiavi della tua cassa, poi decidono loro cosa fare…
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Il vero obbiettivo della Merkel sul recovery Fund
Guido Salerno Aletta * – Milano Finanza
Prima i numeri. Senza i numeri è vano dar conto del Recovery Fund e di quanto è accaduto nel corso della settimana: dal discorso inaugurale del semstre di presidenza europea della Cencelliera Angela Merkel, secondo cui “c’è un nuovo inizio che richiede di essere particolarmente responsabili per preservare e proteggere l’Europa in modo che possa svolgere in modo sovrano il ruolo che le spetta nel mondo”, ai colloqui madrileni tra il presidente Conte ed il suo omologo sagnolo Sanchez, convenendo sulla necessità di accelerarne al massimo l’approvazione.
Bisogna fare in fretta, come sempre, anche se non sembrano affatto chiare le reali conseguenze economiche per l’Italia. Se ne parla senza mettere i numeri.
Affossando per l’ennesima volta la prospettiva di una mutualizzazione dei debiti degli Stati membri dell’Unione, che stavolta considerava quelli necessari per fronteggiare le conseguenze economiche e sociali dell’emergenza sanitaria denominandoli Emergency Bond, Pandemic Bond ovvero Recovery Bond, la prima proposta alternativa è stata avanzata insieme da Francia e Germania, prevedendo di istituire nel periodo 2021-2027 un “Recovery Fund” di 500 miliardi di euro: un programma straordinario, quindi una tantum, aggiuntivo rispetto alle iniziative già previste nel Quadro finanziario pluriennale della Unione riferito al medesimo periodo.
Il predetto Quadro finanziario, che ancora non è stato approvato secondo la procedura che richiede la unanimità dei 27 Paesi aderenti, prevede stanziamenti complessivi per 1.279 miliardi di euro a prezzi correnti, che equivalgono ad un contributo pari al 1,11% del Reddito nazionale lordo dell’Unione, da ripartire tra i 27 Stati membri.
Nella ripartizione occorre ancora risolvere la questione della mancata partecipazione della Gran Bretagna al bilancio dell’Unione, che pesa all’incirca per 13 miliardi li euro l’anno: mancano entrate per 91 miliardi di euro, pari al 7% del totale. Qualcuno se ne dovrà far carico, se non si vuole tagliare di altrettanto gli impegni di spesa.
Nel conto del dare e dell’avere con l’Unione, l’Italia è da decenni contributrice netta: nel settennio 2012-2018 ha versato 34,7 miliardi di euro più di quanto non abbia ricevuto beneficiando dei programmi di spesa. Tralasciando la questione dei mancati contributi della Gran Bretagna, è presumibile che anche nel settennio 2021-2027 l’Italia rimarrà contributrice per una cifra analoga.
Per dimostrare di essere in grado di affrontare una situazione economica mai così grave, la Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen ha battuto un colpo, proponendo di elevare la dotazione proposta da Francia e Germania portandola a 750 miliardi di euro, aggiungendo 250 miliardi di prestiti (loan) da erogare agli Stati in difficoltà. Di conseguenza, mentre la copertura dei complessivi 750 miliardi di spesa veniva ripartita tra i 27 Paesi della Unione secondo la consueta chiave di contribuzione basata sul rispettivo pil, la allocazione delle erogazioni avrebbe tenuto conto di una serie di parametri (allocation keys), differenziando i Paesi in tre categorie, a seconda che avessero un basso ovvero un alto debito pro capite, oppure un alto reddito pro capite.
L’Italia, rientrando nella seconda di queste categorie, avrebbe ricevuto risorse per 153 miliardi (il 20,4% del totale) rispetto a 96,3 miliardi di contributi (il 12,8% del totale, commisurato al pil), con un incasso netto a suo favore di 56,7 miliardi pari al 3,2% del pil. Quest’ultimo importo avrebbe rappresentato il beneficio della solidarietà europea.
La ripartizione tra grant e loan sarebbe stata di 81,8 miliardi per i primi e di 71,2 miliardi per i secondi. Il saldo tra i contributi (96,3 miliardi) e le erogazioni a fondo perduto (81,8 miliardi) sarebbe stato dunque negativo per 14,5 miliardi: un contributo, questo sì a fondo perduto pagato dall’Italia.
Un costo enorme per ottenere 71,2 miliardi di loan: nessun differenziale di interessi, infatti, tra i più alti tassi richiesti dal mercato e le migliori condizioni che sarebbero state offerte dalla Unione, avrebbe mai coperto questo importo.
Tenendo poi conto del contributo netto al Quadro settennale 2021-2027, il passivo italiano nei confronti dell’Unione sarebbe lievitato a 49,2 miliardi di euro. E comunque, niente sarebbe cambiato anche se i loan a favore dell’Italia fossero arrivati a 90,9 miliardi, secondo le diverse stime tweettate dal Commissario europeo Paolo Gentiloni.
A Bruxelles, la Cancelliera Merkel ha smontato il progetto della von der Leyen, riportando le lancette all’indietro. “Sosteniamo la dote da 500 miliardi per tutta l’Europa”, ha affermato, intendendo soprattutto che si dovrà trattare solo grant. Niente loan: per i debiti, si dovrà far ricorso al Mes.
Ha prevalso la linea dei Paesi frugali: Olanda, Austria, Danimarca e Svezia, la testuggine politica usata dalla Germania per contrastare le velleità di spesa dei Paesi mediterranei. Insieme a Gran Bretagna ed Irlanda, anche Danimarca, Olanda e Svezia hanno ampiamente risparmiato sui versamenti al bilancio europeo nel settennio 2014-2020 tutelandosi con i rebates: sono davvero frugali, ma con i soldi degli altri. Anche con quelli dell’Italia, che infatti contribuisce all’Unione in misura più che proporzionale rispetto al suo pil.
Le ambizioni della Presidente von der Leyen escono fortemente ridimensionate dalla Cancelliera Merkel, che ha ricondotto il Recovery Fund alla dimensione ed alla configurazione iniziale: non solo si torna alla dotazione di 500 miliardi di euro, ma il bilancio dell’Unione non andrà gravato in alcun modo da prestiti contratti sul mercato.
La procedura di anticipazione della provvista per erogare i loan, che era stata ipotizzata nel Next Generation Ue con il loro rimborso da parte degli Stati beneficiari solo a partire dal 2028, era troppo pericolosa. Non solo derogava alla prescrizione del TFUE, secondo cui il bilancio della Unione è “in pareggio”, ma depotenziava il ruolo del Mes, fiore all’occhiello della strategia tedesca volta a condizionare severamente qualsiasi sostegno finanziario concesso dall’Unione agli Stati.
L’articolo 136, comma 3, del Trattato, appositamente introdotto nel 2010, prevede infatti che: “Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”.
Diversamente dai prestiti concessi dal Mes, che nella revisione non ancora approvata del proprio Statuto prevede verifiche puntuali della sostenibilità dei debiti per i Paesi che non rispettano i parametri del Fiscal Compact e quindi una loro eventuale ristrutturazione preliminare, i loan erogati attraverso il meccanismo previsto dal Next Generation UE non sarebbero stati assistiti da una altrettanto rigorosa condizionalità.
La von der Leyen, assai ingenuamente, stava mettendo fuori uso lo schiacciasassi che la Germania ha costruito con tanta cura in questi anni, non solo per smarcarsi dalla ingombrante presenza americana nel Fmi, membro della Troika con la Commissione e la Bce, quanto per mettere direttamente sotto tutela i Paesi dell’Eurozona che non riescono a finanziarsi sul mercato.
Per l’Europa non c’è dunque nessun “Hamilton moment”: non solo non c’è in vista nessun debito comune, ferma rimanendo come negli Usa la assoluta responsabilità di ciascuno Stato per il proprio, ma non c’è neppure una svolta “rooseveltiana” nel senso che l’Unione provvederebbe con propri interventi diretti in luogo dei singoli Stati.
Si conferma invece il meccanismo tradizionale che si fonda su una contribuzione al bilancio dell’Unione tendenzialmente proporzionale rispetto al pil, ovvero al comportamento concreto di ciascuno Stato membro (ad esempio, la plastic tax si baserebbe sulla quantità di prodotto non riciclato), e dall’altra su una distribuzione delle risorse legata a programmi “a gara” o che riflettono situazione oggettive, soprattutto di svantaggio economico e sociale.
Tot paghiamo, meno riceviamo: essendo già contributrice netta al bilancio europeo, e rimanendo tale anche nel prossimo settennio, all’Italia non serve un programma che peggiora ulteriormente il suo saldo finanziario nei confronti dell’Unione. Anche i prestiti previsti dalla Next Generation Ue sarebbero stati costosissimi per via del pesante squilibrio previsto tra i contributi comunque versati e le erogazioni ricevute a fondo perduto.
Comunque vada, anche nel caso di un programma ridotto a 500 miliardi di euro, dovremo contribuire al Fondo proporzionalmente al nostro pil. E se pure ci fosse nella distribuzione delle erogazioni una speciale considerazione per la maggior gravità della epidemia che ha colpito l’Italia, la complessità delle procedure europee rallenterebbe le spese in modo estenuante.
Senza contare che questi grant saranno condizionati alla adozione di riforme strutturali, come avviene con i prestiti del Mes: questo è ciò che chiedono i Paesi frugali.
Per l’Italia significa mettersi il cappio al collo da sola: pagheremmo per farci condizionare.
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