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Il ricatto dell’Ilva

Torna tragicamente agli onori della cronaca l’annosa vicenda dell’Ilva di Taranto. Gli attuali proprietari del sito pugliese – il gruppo franco-indiano ArcelorMittal, un colosso del settore siderurgico che fattura oltre 70 miliardi di dollari l’anno – hanno annunciato di lasciare gli stabilimenti. Si tratta, per ora, dell’ultimo capitolo di una storia lunga e travagliata. Proviamo a fare un po’ di luce sulla vicenda e sugli interessi che girano attorno ad uno degli stabilimenti metallurgici più grandi d’Europa.

L’Ilva è essenzialmente due cose. È un sito industriale strategico che garantisce una produzione siderurgica di livello, favorendo in questo modo il tessuto produttivo locale e nazionale e occupando oltre 10 mila lavoratori. Ed è anche, ad oggi, una sorgente inesauribile di veleno, un veleno mortale, per i suoi lavoratori e per il territorio e la popolazione locale. La storia recente dell’Ilva vive di questa perenne tensione: da un lato l’opportunità di tenere in attività i forni continuando a garantire produzione e quindi occupazione, e dall’altro la necessità di contenere le emissioni tossiche che proprio quella produzione genera.

Ma non stiamo tutti sulla stessa barca, e il problema assume diverse connotazioni a seconda del punto di vista che adottiamo. I lavoratori e la popolazione di Taranto e dintorni sono stretti nella morsa di questa contraddizione: lo spegnimento dei forni sarebbe una tragedia sociale, per i posti di lavoro che si perderebbero e per l’impatto economico sul territorio, ma il loro continuo funzionamento allo stato attuale è una calamità sanitaria e ambientale che miete oltre 200 vittime ogni anno.

I lavoratori dell’Ilva e la popolazione di Taranto si trovano quindi davanti due alternative devastanti: proseguire la produzione inquinante, o chiudere l’impianto. Un mortale aut-aut in cui la scelta è tra salute e ambiente da un lato e lavoro dall’altro. Si tratta, tuttavia, di una falsa scelta viziata all’origine che parte da variabili e scelte economiche date e immodificabili, che tuttavia immodificabili non sono affatto.

Naturalmente l’unica ipotesi favorevole ai lavoratori e la comunità locale sarebbe quella di una totale riconversione del sito industriale, una trasformazione tecnologica capace di mantenere inalterata la capacità produttiva modificando i metodi di produzione, in modo da ridurre sensibilmente l’inquinamento. Si tratta di un’ipotesi perfettamente credibile dal mero punto di vista tecnologico e, in astratto (in un contesto economico diverso da quello vigente), pienamente percorribile dal punto di vista delle opzioni di politica industriale adottabili da uno Stato.

Il problema, come al solito, sono i soldi. Già, perché una simile operazione richiede ingenti investimenti iniziali (il Ministero dell’Ambiente ha parlato di 3 miliardi e mezzo di euro), costi tali da scoraggiare qualsiasi impresa privata dall’intraprendere la lunga strada della riconversione. Ecco chiarito come l’unica via percorribile per favorire la classe lavoratrice sarebbe la nazionalizzazione dell’Ilva accompagnata ad uno sforzo di politica industriale considerevole in termini di investimenti pubblici.

Conviene a questo punto fermarsi un attimo a riflettere. Se questo fosse l’unico piano del problema, l’unica dimensione entro cui inquadrare le vicende dell’Ilva di Taranto, staremmo qui a discutere di nazionalizzazioni, piani industriali, vincoli di spesa, investimenti, tecnologie green ed altre interessantissime questioni. Invece no: il dibattito sull’Ilva, che ci piaccia o no, è un altro.

Da poche ore, ArcelorMittal ha dichiarato che intende rescindere il contratto che la lega all’impianto di Taranto. Le ragioni di questa scelta sono limpidamente enunciate dalla multinazionale stessa: le attuali condizioni impediscono di realizzare il progetto industriale che ArcelorMittal aveva in mente quando, con la benedizione dell’ex Ministro Calenda, ha prima ‘affittato’ e poi progressivamente acquistato lo stabilimento.

Per chiarire quali siano questi ostacoli alla realizzazione del piano aziendale della multinazionale dobbiamo fare un passo indietro e ricordare brevemente come un gigante del settore si sia potuto avvicinare ad una situazione intricata come quella dell’Ilva di Taranto. Nel fare questo passo indietro, abbandoniamo il punto di vista dei lavoratori e del territorio, e proviamo ad adottare l’angolo visuale del capitale, il punto di vista del profitto.

Riconsideriamo la nostra ipotesi di partenza: l’Ilva non si risolve solo in un’industria strategica per il Paese e in una centrale di morte per il territorio. L’impianto di Taranto è anche una terza cosa: è una straordinaria opportunità di profitto, ed è per questa terza ragione che la storia drammatica dell’Ilva non finisce mai, ma sopravvive in un perenne stato di eccezione che continua a sfornare acciaio e morte senza soluzione di continuità.

Quando ha deciso di rilevare l’Ilva, ArcelorMittal ha visto nell’impianto siderurgico pugliese un’occasione unica. Le travagliate vicende legislative e giudiziarie che hanno scandito la vita del sito di Taranto portando al commissariamento del sito nel gennaio del 2015, avevano lasciato in eredità un piccolo tesoro: in sostanza, chi si accaparrava lo stabilimento – tramite gara pubblica – avrebbe goduto, in cambio di un vaghissimo ‘piano ambientale’ che non prevede alcun sensibile miglioramento dell’inquinamento prima del 2021 e nessun impegno concreto in termini di investimenti, di una particolare immunità penale.

Si tratta di un vero e proprio ‘scudo’, introdotto con decreto legge nel 2015, che ha permesso prima ai commissari e poi agli acquirenti dell’azienda di non essere perseguiti legalmente durante la gestione del sito, e quindi evitare di essere accusati di reati quali quelli contestati ai vertici dell’Ilva 2012 (tra gli altri, disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, sversamento di sostanze pericolose, e inquinamento atmosferico).

Ecco l’opportunità di profitto: trovarsi a gestire uno dei maggiori siti siderurgici d’Europa senza oneri immediati per la riconversione tecnologica e, di fatto, al di fuori di ogni regola sull’inquinamento e sulla sicurezza. Questo era il ‘piano aziendale’ del colosso mondiale ArcelorMittal che nel giugno del 2017 si aggiudicava il sito di Taranto: macinare acciaio in condizioni di assoluto vantaggio rispetto alla concorrenza, perché grazie allo scudo penale avrebbero portato avanti la produzione in uno stato di eccezione permanente capace di generare profitti sulla pelle dei lavoratori e dei tarantini senza, per questo, sostenere alcun costo di riconversione ambientale.

Ma nella primavera del 2019 accade qualcosa: i Cinque Stelle si svegliano dal letargo ed iniziano a spingere per l’abrogazione dello scudo penale. La vicenda approda quindi, nell’ottobre del 2019, alla Corte Costituzionale, che dichiara lo scudo incostituzionale. Non appena lo scudo penale viene messo in discussione, i vertici di ArcelorMittal vedono evaporare l’opportunità di profitto. Senza protezione, avrebbero dovuto portare avanti senza ritardi il piano ambientale, in modo da avviare una qualche riconversione tecnologica del sito, e avrebbero soprattutto dovuto rispondere di eventuali ulteriori danni alla salute e al territorio prodotti sotto la loro gestione.

Con la rimozione dello scudo penale, viene meno lo stato di eccezione che rende l’Ilva un boccone appetitoso per la fame di profitto dei grandi attori del settore siderurgico a livello mondiale. L’Ilva, insomma, è un affare solo mentre avvelena lavoratori e ambiente – perché produce fuori dalle regole.

È così che il dilemma dell’Ilva resta tale, un rompicapo che non si può risolvere facendo contenti tutti. Lo può risolvere il capitale privato, se gli consentiamo di macinare profitti sui tumori e sulla distruzione di un territorio. E lo può risolvere lo Stato, se gli consentiamo di nazionalizzare un impianto industriale strategico per il Paese, e gli permettiamo di realizzare quegli investimenti necessari a trasformare una centrale di veleni in una moderna industria rispettosa dei lavoratori e dell’ambiente. Investimenti massicci che, naturalmente, ci porterebbero fuori da qualsiasi parametro fiscale previsto dall’Unione Europea. Il dilemma dell’Ilva, quel mortale aut-aut tra lavoro e ambiente appare irrisolvibile, allora, solo rimanendo all’interno della struttura istituzionale europea fatta di vincoli soffocanti che determinano la forzata dismissione del ruolo dello Stato nell’economia. Lo stesso dilemma svanisce e, fuori da quelle catene, l’antonimia lavoro-ambiente si dilegua.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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1 Commento


  • Paolo De Marco

    L’ILVA E IL GARGARISMO ”NAZIONALISTA” DELLA BANDA TRASVERSALE DEL BRITANNIA, 8 novembre 2019.
    Commento rapido. Vedi pure quello su Draghi in questo medesimo sito http://rivincitasociale.altervista.org

    Con la preghiera di diffondere ampiamente.

    « Lavoratori di Taranto, create i vostri propri Comitati cittadini e fate rete nazionale! »

    ILVA, ALITALIA, WHIRLPOOL : Si tratta solo della punta dell’Iceberg. Lo sa Di Maio fuggito alla prima occasione delle responsabilità del suo ministero dell’economia al tempo che fu – per chance – vice-premier, in inglese, of course.

    I lavoratori e le classe medie italiani devono capire a chi hanno a che fare. Arcelor Mittal è l’aspetto secondario del problema, il problema principale, in questo caso come in tanti altri, è la mancanza di una vera politica industriale italiana. Siamo ancoro sotto il governo della banda trasversale del Britannia, con tanti Draghi, Ciampi, Padoa Schioppa, Prodi, Monti, Gutgeld-Renzi, Padovan, Salvini,Tria, Gualtieri etc, etc.

    La deindustrializzazione dei paesi occidentali, ma sopratutto della Francia e dell’Italia dove il Partiti comunisti e i loro sindacati erano fortissimi, fu una scelta strategia … e suicida. Fu sacrificata la base industriale per distruggere la base sociologica, operaia, politica e culturale. Rimane che servizi senza base industriale possono solo essere subalterni ad imprese straniere. Con il Green New Deal sarà peggio. Vedi : http://rivincitasociale.altervista.org/pianeta-b-soldi-comprarselo-chapeau-bas-ai-giovani-compagni-osa-opposizione-studentesca-dalternativa-3-11-ottobre-2019/

    Posso testimoniare personalmente che questo governo come tutti gli alti – nel mio caso sin dal 2011 – non solo non sanno niente dei diritti fondamentali individuali e sociali dei cittadini, ma operano senza sosta in modo anti-costituzionale per distruggerli – Vedi le mie lettere aperte nel mio sito http://rivincitasociale.altervista.org )

    Questa battaglia filo-semita nietzschiana e spinelliana contro la nostra Costituzione include anche le leggi elettorali. Con l’aiuto dei 5 Stelle le leggi elettorali divennero pure contrarie al finanziamento pubblico esclusivo dei partiti politici ed alla par condicio politica e culturale. Gli abusi del finanziamento pubblico potevano essere facilmente eliminati fissando soglie di rimborsi più basse con una massima trasparenza contabile. Il finanziamento privato dei partici trasforma questi in lobbie per i poteri forti. La Piattaforma Rousseau è il puro esempio di anti-democratismo moderno e rappresenta uno vero e proprio insulto all’intelligenza dei cittadini e dei membri, che ora comunque votano con i piedi avendo capito con chi hanno a che fare. E non si tratta solo del clown di secondo ordine B. Grillo o di Casaleggio. Per me non è una sorpresa, vedi i miei testi nella Categoria « Politica » di questo medesimo sito. Devo ammettere che mi ero illuso sulla capacità dei giovani del Movimento di essere un po diversi dai pitre sovra-rappresentati e sovra-pagati trasversali precedenti. Sono di gran lungo peggio.

    Il ruolo deleterio del M5S è pure evidenziato dalla implementazione del cosiddetto Reddito di cittadinanza che di cittadinanza certo non è. E un misero REI che non rispetta nemmeno il principio costituzionale dell’accesso universale all’assistenza sociale. Questo pseudo reddito non è fondato sul lavoro e non ha niente di dignitoso. Serve, al contrario, l’urgente Riduzione generale del tempo di lavoro a parità iniziale di salario ma con il ripristino e la bonifica del salario differito – anche abbassando l’età pensionabile con sostituzione completa dei neo-pensionati con giovani lavoratori, in modo da permetterli di pianificare il loro futuro anche contribuendo alla natalità. Della sconcia e transitoria Quota 100 giallo-verde solo 1 pensionato su 3 viene sostituito e non sempre a tempo pieno. In oltre, questo pseudo Reddito di cittadinanza è un tradimento frontale del Sud e delle periferie del Nord, del Centro e del Sud del nostro Paese perché contribuisce a spopolare zone già fortemente disagiate. Vedi, ad esempio, l’ultimo Rapporto Svimez. Vedi http://lnx.svimez.info/svimez/rapporto-2019-tutti-i-materiali/

    Una vera politica industriale comporterebbe almeno il ritorno alla pianificazione nazionale, per lo meno una pianificazione strategica – incluso al livello regionale -, e il ritorno al credito pubblico – anche per comprare e cancellare il debito pubblico oggi abbandonato nelle mani delle banche private sul mercato primario del debito. Comporterebbe una autentica politica di riduzione del tempo di lavoro, e una offensiva diplomatica a favore di una nuova definizione della anti-dumping capace di proteggere i tre componenti della busta paga – o « reddito globale netto » dei focolari-, cioè il salario netto individuale, il salario differito – pensioni e ammortizzatori sociali – e le tasse necessarie per pagare le infrastrutture pubbliche di accesso universale. Rimando qui al mio Appello sullo stesso sito, come pure alla proposta contenuta nei « Brani scelti del mio Keynesianismo, Marxismo, Stabilità Economica e Crescita » nella sezione Italia del mio vecchio sito giurassico http://www.la-commune-paraclet.com . Questo proposta rimane valida, andrebbe solo aggiornata.

    Per quello che riguarda specificamente l’ILVA, serve il commissariamento immediato assieme alla creazione di una società nazionale creata col scopo di salvare la siderurgia italiana a Taranto e altrove in Italia. Questa società sarebbe appoggiata dalla Cassa dei prestiti e depositi. Nulla lo impedisce al livello europeo dato che:

    a ) si tratta di una industria necessaria dal punto di vista strategico e anche dal punto di vista della sicurezza nazionale;

    b ) il trattato di Maastricht che non è cancellato dal Trattato di Funzionamento della UE (TFUE) prevede le imprese pubbliche anche come monopolio – Articolo F, 3, 3b. Il TFUE riconosce anche gli Affari sociali, dunque le relazioni industriali, come competenza nazionale esclusiva. Lo Stato italiano ha speso e spende tutt’ora decine di miliardi per salvare le banche, i soldi ci sono pure per salvare l’industria e i posti di lavoro … ma è una questione ideologica e di scelta ideologica di società.

    Questa società siderurgica dovrà essere iscritta nel contesto di una strategia di medio e lungo respiro al livello nazionale ma anche al livello locale. Al livello regionale e municipale questo significa una nuova elaborazione dei piani regolatori locali per gestire le relazioni socio-economiche con la nuova società e sopratutto per gestire il bacino di impiego. Così i piani regolatori dovranno lanciare d’urgenza una politica dell’alloggio sociale adeguata in modo da permettere il trasferimento della popolazione del quartiere Tamburi, il quartiere di Taranto più esposto. Si potrà, ad esempio, finanziare la restaurazione degli alloggi vuoti esistenti in zone non esposte – ad esempio, cancellando l’IMU sulla seconda casa per 20 anni in cambio della messa a disposizione di queste abitazioni sul mercato degli affitti per livelli affittuari decisi dall’autorità pubblica e validi per 5 o 10 anni. Se questo non bastasse si potrebbe mettere alcuni terreni municipali a disposizione di una società pubblica per la costruzione di alloggio sociale in modo da rilanciare questo settore vitale. Vedi la descrizione del meccanismo nel mio Tous ensemble. Nel quadro del Piano regolatore e della protezione del territorio questa politica permetterebbe di abbassare il costo di costruzione – uno dei componenti maggiore è il prezzo del terreno – e permetterebbe alla municipalità e alla Regione ricreare una base demografica e dunque anche socio-economica e fiscale. Lo spostamento protettivo del quartiere Tamburi permetterà di procedere alla necessaria modernizzazione degli impianti con meno fretta e in modo più sistematico.

    Su questa base si potrà cercare un partner pubblico cinese per una joint-venture 50/50 . Questa politica dovrebbe andare di pari passo con il rilancio massiccio del Porto di Gioia Tauro e della sua zona industriale – oggi disperatamente vuota – sulla base di joint-ventures fondate sul rilancio del settore degli elettrodomestici con la 5G. In un secondo passo si potrà, ad esempio, prevedere delle joint-ventures per la ricerca universitaria ad esempio per i nuovi materiali necessari alle stampante 3D.

    Esiste già un fondo nazionale per la bonifica dei terreni inquinati. Esistono ingenti fondi europei. L’anno prossimo scade la programmazione europea 2014-2020 e l’Italia perderà la quasi totalità degli 75 miliardi di euro disponibili dei quali furono spesi al massimo soltanto 9 %. (Vedi: https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/07/12/fondi-ue-58-miliardi-su-75-ancora-da-usare-speso-solo-il-20-delle-risorse-per-occupazione-ricerca-e-piccole-imprese/5229487/ ) Una vergogna senza nome!

    Questi fondi possono servire per risanare e modernizzare il polo siderurgico di Taranto. Dovrebbero pure servire per risanare il sito della Pertusola a Crotone per trasformarlo in uno sito moderno a norme europeo di riciclaggio dei prodotti elettronici. L’Italia non dispone di terre rare o di altri minerali del genere, tutti necessari per l’industria moderna. Sappiamo pero che costa meno caro procurarseli con il riciclaggio invece di ricorrere ai processi minerari tradizionali … all’estero.

    Aggiungo, in conclusione, che non si deve ingannare gli operai. I dirigenti attuali hanno già deciso di chiudere l’ILVA ma fanno solo cinema solo per salvare la faccia e dare la colpa ad altri. Attribuirsi mutualmente la colpa ma tirando nella stessa direzione è un vecchio trucco, nel gergo si chiama « gestione dei conflitti », qui opportunista e di secondo ordine. Ad esempio la scusa dello « scudo » creata ad arte e dissotterrata in estremis – con la partecipazione attiva di Di Maio e dei 5 Stelle – mentre tutti sanno che il problema è altro, sin dall’origine, anche con Calenda. Similarmente non è proprio vero che il problema sanitario si risolverà chiudendo l’impianto e perdendo i benefici economici, incluso le tasse dell’ILVA e i salari degli operai e dell’indotto (oltre 10 000 persone!) La soluzione è di spostare la popolazione nei quartieri a rischi e modernizzare a norme europee.

    Detto questo anche nel quadro di una nazionalizzazione mirata ad un serio rilancio del polo siderurgico italiano, e chiaro che ci sarà una ristrutturazione della manodopera. E sempre cosi, ed è giusto che sia così: serve sempre la più alta produttività microeconomica anche se andrebbe sopportata con la massima competitività macroeconomica, cioè con la pianificazione e la riabilitazione delle imprese, delle infrastrutture, dei servizi e dei programmi pubblici.

    Ad esempio, un regime pensionistico pubblico costa molto meno paragonato ai regimi privati per altro pericolosamente giocati in una borsa indebolita dagli eccessi della speculazione neoliberale monetarista. Pochi anni fa, la GM dovette essere salvata dal governo dei Stati Uniti e da altri governi dato che l’attrizione della sua forza di lavoro – robotizzazione ecc – non li permetteva più di finanziare il suo regime pensionistico in-house. Idem per la Sanità pubblica. Con tutto ciò, l’Italia continua a privatizzare. ( Sull’evoluzione della contrattazione vedi : http://rivincitasociale.altervista.org/smantellamento-dello-stato-sociale-o-welfare-state-anglo-sassone-e-politiche-neoliberali-monetariste-viste-sotto-langolo-del-contratto-di-lavoro/ come pure tutta la Categoria « Lavoro » nel medesimo sito.) Serve anche perché normalmente la più alta produttività si traduce in norme di lavoro più sicure, in ergonomia più moderna e in tempo di lavoro potenzialmente ridotto almeno sul lungo termine.

    Ma gli operai hanno dei diritti. Vanno pero tutelati come cittadini lavoratori protetti dalla lettera e dallo spirito della Costituzione. Perciò il piano di salvataggio pubblico deve prevedere l’attrizione della manodopera con meccanismi adatti, cioè a breve termine con il ricorso alla cassa integrazione e sopratutto a medio e lungo termine con il diritto di partire in pensione con piena pensione a 60 anni – e se necessario a 55 anni per chi sceglierebbe farlo per ragioni di salute etc – visto l’aspetto usurante del lavoro. I residenti del quartiere Tamburi avrebbero priorità nella fascia dei 55 anni e più.

    La riduzione generale del tempo di lavoro rimane la chiave assieme alla ripristino del sistema di previdenza-assistenza pubblico su questa base. Il lavoro a tempo parziale deve essere l’eccezione non più la norma. I politici che non son d’accordo devo essere spazzarti via e i dirigenti di impresa che pretendono funzionare con due lavoratori precari al posto di uno a tempo pieno con i diritti previsto dal Articolo 18 vanno nazionalizzati. Lo prevede la Costituzione nella seria di Articoli 32-47, vedi https://www.senato.it/documenti/repository/istituzione/costituzione.pdf

    Paolo De Marco, ex-professore di Relazioni internazionali – Economia Politica Internazionale.

    NB: Faccio notare al Governo ed ai ministri che hanno prestato giuramento sulla Costituzione, come pure alla magistratura, la gravità delle mie denunce. Visto pure la parte giocata illegalmente dai servizi di sicurezza stranieri, i crimini commessi contro di me – violazioni continua del mio domicilio, atti di intimidazione polizieschi-mafiosi e alterazione delle mie bevande e del mio cibo – rappresentano chiaramente uno alto tradimento della Costituzione e dei diritti fondamentali da essa sanciti.

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