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Esuberi e rottamazioni. L’unica cosa sbagliata è non fare nulla…

Si moltiplicano le analisi di un declino economico continentale, e soprattutto italiano, che appare ormai inarrestabile. Rimergono così punti di vista teorici estranei al neoliberismo imperante da 30 anni, qui nell’Occidente capitalistico, ormai evidentemente fallito nella sua promessa storica: “più ricchezza per tutti”. Keynes e Marx, così, vengono riesumati per supportare proposte e correttivi anche molto diversi tra loro. Evidenziando come, di fronte al disastro inarrestabile provocato dal laissez faire, l’unica soluzione davvero idiota è continuare sul percorso fin qui seguito. Imposto dall’Unione Europea e fedelmente applicato dai governi degli ultimi 30 anni, senza alcuna differenza tra “democratici”, fascioleghisti, berlusconiani e grillini.

Qui cominciamo a sottoporvi alcune della riflessioni meno scontate…

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Esuberi più recenti, come riportati dalla stampa, senza pretesa di completezza

SAFILO annuncio di 700 esuberi in Italia e chiusura stabilimento di Martignacco (Udine) Nonostante la previsione di vendite in leggera crescita nei prossimi cinque anni, l’azienda ha avviato un programma di ristrutturazione industriale. L’amministratore delegato Angelo Trocchia ha affermato che punterà su “una crescita più significativa del nostro business e-commerce direct-to-consumer“.

CONAD il gruppo Conad dichiara 3.100 esuberi, di cui più di mille nella sola Lombardia, su 6.600 dipendenti dei negozi Auchan e Simply (punti vendita già confluiti in Conad), appena acquisiti. I lavoratori che operano già sotto il marchio Conad hanno visto un peggioramento delle loro condizioni lavorative, rispetto al passato, in termini di orario, turni e salario.

CONTINENTAL 500 esuberi annunciati , da qui a 10 anni, negli stabilimenti Continental di Pisa e Fauglia. Sono il primo risultato dei cambiamenti produttivi, del passaggio dalle auto a benzina o diesel alle auto elettriche. L’auto elettrica ha bisogno di nuovi macchinari e linee produttive che comporteranno la riduzione del 60% della forza lavoro.

Anche le fabbriche del GRUPPO MAHLE pagano il prezzo della grande fuga dal diesel.
Risultano in via di chiusura in Piemonte, 620 esuberi alla BOSCH di Bari, produzione in calo del 30 per cento nello stabilimento FCA di Pratola Serra, nell’avellinese.

FEDEX-TNT giganti delle spedizioni e consegne a domicilio. In ballo 361 licenziamenti e 115 trasferimenti. Il progetto prevede, anzitutto, la chiusura di 24 sedi su 34 e l’allontanamento di 361 lavoratori (315 in Fedex, quasi tutti corrieri, e 46 in Tnt). Previsti anche cento spostamenti di sede. Si teme esternalizzazione massiccia di personale.

QN, IL RESTO DEL CARLINO, IL GIORNO E Q.NET:  112 esuberi su 283 redattori, potrebbe essere affiancato dall’accorpamento di edizioni e dalla chiusura di redazioni.

Il 6 febbraio scorso per i lavoratori della PERNIGOTTI era scattata la cassa integrazione straordinaria per un anno. Era in pratica la chiusura della storica azienda dei gianduiotti dopo 160 anni di attività. Sono 25 gli esuberi dichiarati dall’azienda su 70 dipendenti, oltre a 50 lavoratori interinali non considerati dal piano.

MAGNETI MARELLI cassa integrazione per 910 a Bologna e Crevalcore.

TELECOM ITALIA la nuova era inizia con la cassa integrazione straordinaria per 29mila dipendenti e 4.500 esuberi.

CARIGE il piano dei commissari: aumento di capitale da 630 milioni e 1.050 esuberi.

Il gruppo tedesco SIEMENS ha annunciato il taglio di 6.900 posti di lavoro in tutto il mondo. Una decisione anticipata nei giorni scorsi quando l’azienda aveva dichiarato che erano in vista “tagli dolorosi“. La notizia è stata ufficializzata a Monaco, in Germania. Oltre ai tagli, Siemens ha previsto la chiusura di due stabilimenti, quelli di Goerlitz e Lipsia, dove lavorano 920 dipendenti. NOKIA SIEMENS NETWORKS ha aperto le procedure per il licenziamento di 445 tra lavoratrici e lavoratori italiani.

SKY ITALIA dopo il mancato accordo di agosto sulle procedure di licenziamento per 124 dipendenti presso il Ministero del lavoro, ha inviato 63 lettere di licenziamento.

UNICREDIT un nuovo piano prevede 8 mila esuberi.

POSTE ITALIANE annunciano 12 mila nuovi esuberi.

CANDY malgrado abbia annunciato la volontà di potenziare la produzione nello stabilimento di Brugherio dichiara 130 esuberi.

Gli aiuti per salvare ALITALIA sono condizionati al fatto che il sindacato accetti almeno 2mila esuberi e il taglio del 30% dello stipendio per piloti e assistenti di volo. Il piano industriale della compagnia è un vero e proprio diktat delle banche creditrici e socie, Intesa e Unicredit. L’offerta di Lufthansa era interessata a creare NewAlitalia con annesso taglio di 6mila posti.

LA PERUGINA che fa capo alla multinazionale Nestlè, intende ridurre di 364 unità gli 800 dipendenti impegnati sulle linee produttive di San Sisto, Perugia.

Relativamente a questa crisi aziendale oggi stesso e con straordinaria tempestività la Nestlè Italia ci ha inviato un comunicato di rettifica che pubblichiamo qui di seguito (red):

CONCLUSA POSITIVAMENTE LA VERTENZA PER LO STABILIMENTO PERUGINA

Grazie allo sforzo di tutti è stata trovata una soluzione per ciascun dipendente coinvolto dalla riorganizzazione. San Sisto si conferma la fabbrica italiana di cioccolato più grande per numero di addetti. La nuova configurazione organizzativa e delle linee produttive fa di San Sisto uno stabilimento più moderno e competitivo.

Milano, 23 maggio 2018 – Nestlé Italia conferma che presso la sede di Confindustria Umbria è stato firmato oggi, con le organizzazioni sindacali e le RSU di fabbrica, l’accordo di conclusione della vertenza riguardante lo stabilimento Perugina di San Sisto. La vertenza si conclude positivamente riuscendo a conseguire il riequilibrio occupazionale indispensabile per rendere sostenibile e competitivo lo stabilimento di S. Sisto e, nello stesso tempo, a evitare licenziamenti attraverso un piano sociale del valore di circa 20 milioni di euro che ha permesso di offrire una opportunità concreta a ciascuno dei 364 lavoratori coinvolti nella riorganizzazione. Perugina a San Sisto continuerà a dare lavoro a 613 persone a tempo indeterminato – ai quali si aggiungono i lavoratori stagionali necessari per far fronte ai periodi di picco produttivo – confermandosi lo stabilimento di Nestlé con più occupati in Italia e la più grande fabbrica italiana di cioccolato per numero di addetti. Sono già programmate riunioni periodiche per monitorare l’andamento del piano industriale per lo sviluppo di Perugina in Italia e all’estero soprattutto con l’export di Baci, pralina simbolo del Made in Italy nel mondo.

Nestlé Italia dà atto alle organizzazioni sindacali del comportamento rispettoso tenuto anche durante le fasi più difficili della vertenza, con una dialettica – a tratti aspra – ma sempre costruttiva. L’azienda desidera inoltre ringraziare le Istituzioni locali – Regione Umbria e Comune di Perugia – e quelle nazionali, a partire dal Ministero dello Sviluppo Economico, che hanno ascoltato e verificato attentamente la serietà dei nostri piani, sempre con la dovuta terzietà e nel pieno rispetto del loro ruolo di controllo e vigilanza.

ILVA da 4700 a 6300 gli esuberi dichiarati.

1500 posti di lavoro in meno nella RYANAIR.

Le federazioni regionali di CONFCOOPERATIVE LAVORO E SERVIZI E LEGACOOP PRODUZIONE E SERVIZI a seguito dell’approvazione del decreto legge Scuola (DL 126/2019) denunciano il licenziamento di 5.000 lavoratori in esubero a livello nazionale nei servizi di pulizia. Le imprese in appalto vengono costrette per legge a licenziare procedendo all’internalizzazione del servizio di pulizia nelle scuole. Riducono fino al 50% lo stipendio per 11.000 lavoratori.

MERCATONE UNO dichiara fallimento. 1800 dipendenti perdono il lavoro.

La cessione di WHIRLPOOL di Napoli in favore della Prs-Passive Refrigeration Solutions, con sede a Lugano, per ora sospesa, prevede la riconversione della fabbrica che si dedicherebbe all’assemblaggio di container refrigeranti e annesso licenziamento di circa 400 lavoratori.

PIOMBINO — JSW 250 esuberi. Se gli investimenti per la nuova acciaieria non verranno fatti gli esuberi aumenteranno e si aggireranno intorno a 750.

MPS, oltre 5mila esuberi e 600 filiali da chiudere che il salvataggio con fondi pubblici non ha saputo/voluto salvaguardare.

AF LOGISTIC 170 licenziati.

POPOLARE ETRURIA, BANCA MARCHE E CARICHIETI chiusura 140 sportelli. 1.569 i dipendenti in esubero secondo Ubi che da qui al 2020-2021 stimano circa 30mila uscite dal settore.

DEMA l’azienda aerospaziale ha annunciato 213 esuberi.

ALMAVIVA annunciati 1.600 esuberi nella sede di Palermo.

Lo stato delle cose

Precipitiamo progressivamente in uno stato di miseria crescente che costringe i nostri giovani ad andarsene, sempre più numerosi. I dati Istat confermano che solo nel 2018 sono partiti 117mila italiani di cui 30mila laureati. Negli ultimi dieci anni più di 800mila hanno lasciato il bel paese in cerca di fortuna all’estero. Flessibilizzati, meglio dire precarizzati permanenti, quelli che rimangono si adattano ad accettare un lavoro a scadenza, con paghe lesive della dignità umana, per qualche mese, quando va bene. Rappresentano il completo insuccesso delle politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro. Lavoro e lavoratori mercificati. Vittime, peraltro, di quel messaggio, più o meno latente, che subdolamente accusa: se sei disoccupato è colpa tua.

È stata sdoganata, ormai da tempo, e istituzionalizzata, la pratica del lavoro gratuito nelle forme della “alternanza scuola lavoro“, del baratto amministrativo, comprese varie forme di “volontariato“ e di apprendistato ecc. Il lavoro gratuito così come l’impiego a scadenza, sottopagato, ha presa, grazie alla promessa/speranza, più o meno esplicita, che fa alle loro vittime, di essere assunte a tempo indeterminato o almeno riconfermate per un ulteriore periodo lavorativo.

Come è facile capire, ciò risulta anche funzionale alla desindacalizzazione dei lavoratori. Il lavoratore sottopagato è ricattabile perché vive costantemente nell’emergenza lavorativa; non è perciò in grado di far valere i propri diritti. Si registra, inoltre, una esplosione del part-time involontario (60%), che è una delle molteplici forme di sottoccupazione.

Quasi un quarto dei nostri giovani in età lavorativa vengono definiti NEET «Not in Education, Employment or Training», avendo rinunciato a cercare lavoro e non essendo impegnati nello studio, né nella formazione. Il dato, ormai strutturale, della disoccupazione rimane attestato intorno al 10% ma tale valore non conteggia i cassaintegrati e i part-time forzati.

Tutte le leggi (pacchetto Treu 97, Legge Biagi, Jobs Act, ecc.) che negano il diritto al lavoro sicuro e stabile sono e dovrebbero essere dichiarate incostituzionali. Il processo ha la sua genesi sin dall’inizio degli anni ’80 in cui i sindacati, purtroppo, accettano, su richiesta della confindustria, che i lavoratori siano disponibili alla pur necessaria flessibilità ma senza contropartite (la maggiore flessibilità, infatti, sarebbe dovuta essere compensata da adeguati aumenti retributivi).

Si pensava che una maggiore flessibilità avrebbe generato più posti di lavoro. In realtà, la flessibilità si trasforma in precarietà diffusa e in danno, sia per la classe lavoratrice che per l’economia, a causa del conseguente calo della domanda interna.

Quelle leggi rappresentano la negazione postuma dei diritti dei lavoratori inscritti nello Statuto dei Lavoratori del 1970, frutto di intense lotte sindacali, agli antipodi della recente “voucherizzazione“, anticostituzionale perché negante il diritto alle ferie, alla indennità di malattia, ai contributi previdenziali, a essere pagati dignitosamente. I rapporti di lavoro che si stanno affermando oggi sono sempre più spesso di tipo schiavistico.

L’ultimo film di Ken Loach – Sorry, we missed you – racconta di un falso rapporto di lavoro autonomo nel settore delle consegne a domicilio, in cui a lavoratori, privati di tutti i diritti, è fatta oltretutto richiesta di assumersi le responsabilità legate al rischio di impresa. Tutto a garanzia di un profitto alto e garantito per i veri padroni finanziari dell’azienda. Protestare però è diventato un reato.

Le aberranti norme del cosiddetto Decreto Sicurezza hanno colpito i lavoratori della Tintoria Superlativa di Prato, i cui operai, senza stipendio da 7 mesi, in condizioni lavorative inaccettabili, si sono visti affibbiare 21 multe dai 1000 ai 4000 euro ciascuna, per un totale di 84.000 euro “colpevoli“ del reato di “blocco stradale” grazie al quale le Questure possono incriminare i lavoratori che fanno i picchetti davanti alle aziende.

Il lavoro frammentato, invalida oltretutto il diritto alla pensione poiché i mancati versamenti, essendo proporzionati ai bassi e occasionali salari non possono far aspirare a nulla più che alla pensione sociale. Nel frattempo gli effetti del sistema contributivo stanno alzando l’età pensionabile a 71 anni, ostacolando ulteriormente il ricambio generazionale. Dopo anni di blocco del turnover nel pubblico impiego, attivo dal 2004 (governo Berlusconi), il decreto Crescita sembra, tuttavia, mirare ad assunzioni non più calibrate sulle uscite, ma sui bilanci.

Quindi solo laddove ci saranno risorse adeguate si potrà tornare a programmare nuovi ingressi in numero superiore, o almeno pari, ai pensionamenti. Considerando i bilanci disastrati delle PA non è difficile preconizzare che, nei fatti, il turnover rimarrà una chimera, malgrado, rispetto ad altri paesi, l’età media del pubblico impiego sia ormai vicina ai 60 anni e, in rapporto alla popolazione, i lavoratori pubblici siano solo la metà del personale impiegato da altri paesi europei.

In pratica, un nostro impiegato svolge mediamente il doppio del lavoro, in rapporto alla popolazione, rispetto a quello di altri paesi. Sullo sfondo, una povertà assoluta in crescita colpisce più di 5 milioni di persone; altre dieci milioni sono in stato di povertà relativa. Malgrado agli italiani sia inflitta una imposizione fiscale tra le più alte al mondo, a questa non corrispondono servizi pubblici adeguati alle necessità. Tagli implacabili e continuativi a carico di sanità, istruzione, ricerca, previdenza sociale, investimenti pubblici, degradano la qualità del servizio.

A chi gestisce i servizi pubblici si chiede di far quadrare i conti grazie ad una gestione di tipo aziendale. Secondo questa logica le unità sanitarie locali sono state trasformate in aziende sanitarie locali e avanza inesorabile il sistema della salute a pagamento fondato su ticket, assicurazioni private, interventi intra moenia (tra le mura) per ovviare alle lunghe liste d’attesa [interventi, cioè, erogati dai medici ospedalieri che utilizzano le strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale stesso a fronte del pagamento da parte del paziente di una tariffa] che minano alla base il reddito indiretto (principalmente l’assistenza sanitaria gratuita) e il reddito differito ovvero previdenziale e pensionistico, alle origini dello stato sociale europeo pre-Ue, alla base della pratica del welfare universale.

Sull’altro versante le privatizzazioni e le svendite del patrimonio comune.Il sistema delle micro imprese (95% delle imprese italiane!) è in estremo affanno. La grande e media industria praticamente non ci sono più. L’impresa pubblica è ridotta ad un quinto di quella che è stata. Ha cambiato natura e scopo trattandosi oggi di società per azioni. L’IRI nel 1980 occupava da sola circa 550 mila lavoratori.

La differenza principale con l’impresa privata sta nel fatto che il suo scopo non era il profitto ma la funzione sociale, potremmo dire il Bene Comune.

I dati ufficiali sulla natalità e mortalità delle imprese italiane nel terzo trimestre del 2019, diffusi da Unioncamere – InfoCamere, riferiscono «…un saldo attivo di 13.848 unità in più, rispetto alla fine di giugno, il bilancio fra le imprese nate (66.823) e quelle che hanno cessato l’attività (52.975) nel terzo trimestre dell’anno. Il segno ‘più’ continua dunque a caratterizzare l’andamento demografico della grande famiglia delle imprese italiane (6.101.222 unità alla fine di settembre), pur in presenza di segnali di difficoltà sia sui mercati internazionali sia su quelli domestici, in particolare per le piccole e piccolissime imprese.

Il 91% dell’intero saldo è infatti dovuto alle imprese costituite in forma di società di capitali (cresciute nel trimestre al ritmo dell’0,7%). Nel complesso, il tasso di crescita del trimestre (+0,23%, tra i più contenuti dell’ultimo decennio con riferimento al periodo giugno-settembre) è frutto di una natalità (1,1%) e una mortalità (0,87%) sostanzialmente in linea con l’anno passato.»

La disoccupazione è legata alla finanziarizzazione dell’economia che bypassa l’economia reale e pretende di far soldi con i soldi. Un mercato del denaro fatto di rendite parassitarie e commercializzazione, in forma di derivati e cartolarizzazioni, di debiti e scommesse, moneta fittizia, che pur non rappresentando ricchezza reale viene ad avere un potere d’acquisto che esercita nei confronti della ricchezza reale di cui si nutre cannibalizzandola.

La finanza speculativa registra, infatti, corsi borsistici continuamente crescenti che distribuiscono ricchezza fittizia agli investitori i quali con i loro investimenti ricorsivi gonfiano l’enorme bolla speculativa, sostenuta dal nuovo ruolo delle banche centrali, che dalla crisi del 2007 immettono denaro a sostegno dell’economia finanziaria, alimentandola e stabilizzandola finché possibile mentre mantengono, bassi come non mai, i tassi di interesse del denaro che mettono in circolazione, denaro a cui è impedito di giungere in maniera diretta ad alimentare gli investimenti pubblici e l’economia reale.

Della vera ricchezza dismessa, di stati ed economia reale, in crisi permanenti provocate ad hoc, si ciba il vampiro finanziario. 

L’economia reale fatta di micro e piccole imprese resiste ma è continuativamente sotto attacco. Se non riusciremo a bloccare i processi in corso il tessuto fatto di piccole imprese, il piccolo e locale, a cui è affidata la tenuta del Paese sarà costretto a cedere il paese alle potenti multinazionali pilotate dalle oligarchie finanziarie che controllano i grandi fondi di investimento speculativo. 



Con l’ingresso nell’Unione, ma già prima, si è smesso di perseguire la piena occupazione, sostenuta dalla spesa pubblica di cui era strumento la banca centrale nazionale (tassi di interessi reali negativi al netto dell’inflazione). Quell’obiettivo è stato sostituito da quello della stabilità dei prezzi attraverso il vincolo esterno che ci ha imposto politiche fiscali assai restrittive.

Oggi l’euro, una valuta troppo forte per l’economia italiana, ci ha costretto ad una competitività sui mercati esteri ottenuta solo a prezzo di svalutazione interna e deflazione salariale. Con una moneta iper valutata rispetto alla forza dell’economia, gli acquisti all’estero sono incoraggiati (a discapito della domanda di prodotti italiani), mentre il listino prezzi delle nostre esportazioni ostacola la collocazione competitiva di larga parte della nostra produzione mentre facilita le importazioni a discapito del mercato interno già messo a dura prova dal calo drastico delle retribuzioni che provocano il calo di consumi ed investimenti che a loro volta retroagiscono sul sistema economico deprimendolo ulteriormente… molte aziende licenziano o chiudono… contemporaneamente le tutele del lavoro sono rimosse dai governi.

Si tratta di una miscela pericolosa di diminuzioni successive della domanda interna, ulteriori richieste di abbassamento del costo del lavoro, in una spirale perversa di impoverimento crescente con conseguenze negative sulle casse della previdenza sociale (cassa integrazione, indennità di disoccupazione, infortuni legati al peggioramento delle condizioni di sicurezza…). 
Austerità e mancata azione della banca centrale europea insieme ai vincoli sul deficit hanno colpito il debito pubblico e quello privato provocando piuttosto l’innesco di un processo deflattivo sul quale a rigore dovrebbe intervenire la BCE (che per mandato ha la stabilità dei prezzi).

L’azione dello Stato e della politica, secondo i dettami del titolo 3 della Costituzione economica, è ormai impedita. Allo Stato sono venuti a mancare i suoi tradizionali strumenti di politica economica. Non controlla né disciplina il credito, non è in grado di tutelare e valorizzare il risparmio, né gli è permesso di optare per investimenti pubblici di largo respiro; non controlla i tassi di interesse che sono stati affidati al mercato, né la spesa ad essa correlata del servizio al debito (interessi passivi sul debito). Gli è stata sottratta anche la politica valutaria con cui era possibile regolare la bilancia commerciale e quella dei pagamenti.

Il vincolo esterno, ordoliberista, finalizzato a garantire la stabilità dei prezzi, ha frustrato l’azione dello Stato. Esso è stato attivato a discapito del vincolo interno virtuoso rappresentato dalla nostra Carta Costituzionale. L’obiettivo è stato raggiunto (oggi siamo però in stato di deflazione) a scapito di occupazione e salari facendo della disoccupazione un dato strutturale; ha impedito, in ultima analisi, la persecuzione degli obiettivi di pieno impiego inscritti nella Costituzione.

Con l’ingresso nella Ue, infatti, abbiamo cominciato ad utilizzare i trattati europei al posto della Costituzione. In piena opposizione alla democrazia economica della Costituzione italiana, in cui il diritto fondamentale è quello al lavoro (art.1), la finalità dell’Ue è quella di realizzare una economia di mercato attraverso una «forte competizione» tra paesi europei finalizzata alla stabilità dei prezzi (l’obiettivo inscritto nello statuto della BCE è che l’inflazione rimanga costante e al di sotto del 2%) ed una restaurazione del mercato del lavoro e della economia anteriori alla crisi del ’29, che pensa l’intervento dello Stato nel ripristino dell’occupazione come una ingerenza che, avendo effetti inflazionistici, è da impedire.

Qualsiasi intervento dello Stato è visto, cioè, come distorsivo di un equilibrio naturale generante un’inflazione che distorce tutto, impedendo una efficiente allocazione delle risorse. La disoccupazione sarebbe, quindi, compatibile con il livello di inflazione desiderata. Le politiche della Ue portano a bassa inflazione ed alta disoccupazione.

Che fare? Non è il lavoro che manca. Verso una economia postcapitalista

Accanto ai reali vincoli economici di cui sopra, luoghi comuni assai diffusi attribuiscono la mancanza di lavoro a tutta una serie di fattori. Il lavoro mancherebbe perché:

  • l’automazione dei processi produttivi incorporando il lavoro nelle macchine, sempre più intelligenti, espelle forza lavoro;

  • il costo del lavoro è troppo alto;

  • la competizione con gli immigrati sul mercato del lavoro toglie agli italiani il poco lavoro rimasto;

  • il lavoro manca perché non abbiamo soldi per remunerarlo.

È innegabile che l’automazione incorpori lavoro umano. La novità è che, mentre in passato, le tecnologie dell’automazione creavano nuovi posti di lavoro distruggendone almeno altrettanti in un rapporto di sola sostituzione, oggi le macchine, dotate di intelligenza artificiale di seconda generazione (utilizzanti la tecnologia delle reti neurali) apprendono e sono sempre più adatte a sostituire anche il lavoro cognitivo umano (1). Lo sbilancio tra i nuovi lavori creati dall’introduzione dell’intelligenza artificiale e i lavori che scompariranno crescerà inevitabilmente. 

Bisogna però chiedersi come mai questo non si trasformi in benefici a vantaggio di tutti. Il banco di prova, per un sistema economico sano e sostenibile, dovrebbe a rigore risiedere nel fatto che i guadagni di produttività, e la conseguente ricchezza, generata dalla introduzione di macchine intelligenti nel mondo del lavoro, dovrebbero tradursi in riduzione dei tempi di lavoro (orario di lavoro, età pensionabile, ecc. ) a parità di remunerazione, in tutti quei casi in cui il bisogno e quindi la domanda di beni prodotti con sistemi automatizzati si mantenga stazionaria, e la piena occupazione, nei settori interessati, fosse stata raggiunta.

Veniamo da una cultura economica in cui industria e manifattura hanno occupato il centro dell’economia. Le macchine intelligenti, incorporano sempre più occupazione, in moltissimi settori della produzione di merci e servizi, così da garantirci grandi aumenti di produttività e di profitto senza che questo sia in grado di tradursi in diminuzione della giornata lavorativa standard di 8 ore a parità di retribuzione o in abbassamento dell’età pensionabile. Quando ai nostri giovani in cerca di occupazione diciamo che manca il lavoro stiamo dicendo una clamorosa bugia che è facilissimo smentire.

Basta guardarsi intorno. Basterebbe guardare allo stato delle nostre infrastrutture o al settore della cura della persona, della manutenzione e messa in sicurezza dell’ambiente naturale, si pensi, in particolare al dissesto idrogeologico del territorio o alla messa in sicurezza idraulica dello stesso, alla tutela, manutenzione e valorizzazione del patrimonio artistico, monumentale, culturale e anche immobiliare (non abbiamo bisogno di continuare a cementificare il suolo quanto piuttosto di recuperare, manutenzionare e ristrutturare energeticamente il patrimonio edilizio esistente).

Un esempio di lavoro non svolto è, infatti, quello delle ristrutturazioni energetiche degli edifici. Ci sono un mare di interventi necessari in tal senso, che rimangono in gran parte non svolti. La ristrutturazione energetica di edifici privati e pubblici, coinvolgerebbe inevitabilmente lavoratori edili, impiantisti, architetti ecc.; i costi di tali interventi si ripagherebbero in breve tempo grazie al risparmio di energia che consentirebbero. Gli incentivi pubblici potrebbero catalizzare tali processi di ristrutturazione energetica su larga scala.

Nella attuale condizione, in assenza di adeguati investimenti pubblici, si sprecano le energie e le competenze di coloro che vengono lasciati inattivi, senza occupazione. Messi alle strette dall’evidenza si è costretti ad ammettere che mancherebbero le risorse finanziarie necessarie ad attivare tutti i fattori produttivi esistenti ma inespressi a cominciare dalla forza lavoro. Nei settori schematicamente indicati sarebbe indispensabile aumentare grandemente l’occupazione (alcune stime – A. Galloni 2016 – prevedono la necessità di attivare sino a 8 milioni di posizioni lavorative in questi settori) ma accade che in essi nessuno è più in grado di investire adeguatamente, perché, in generale, il fatturato di queste attività risulta più basso del suo costo! 

Per affrontare queste attività socialmente necessarie il modello capitalistico è perciò, evidentemente, inefficace! Esso non è in grado di mobilitare tutti i fattori produttivi disponibili in termini di forza lavoro, competenze, tecnologie e risorse finalizzandole alla generazione di ricchezza pubblica. Lo Stato costituzionale deve tuttavia sottrarsi al nodo scorsoio della moneta a debito e ritornare ad usare, allo scopo di permettere ai propri cittadini di affrontare il lavoro incompiuto di cui sopra, lo strumento della moneta di stato pubblica, non a debito.

Si tratta di biglietti di Stato, emessi dal Tesoro, moneta legale all’interno del territorio nazionale con la quale coprire il fabbisogno dello Stato – rispetto alle necessità determinate da quegli investimenti pubblici, non coperti da entrate fiscali – senza indebitarsi ulteriormente, utilizzabile nelle normali transazioni all’interno del territorio nazionale e quale strumento di pagamento delle imposte fiscali.

Il suo uso consente l’equilibrio di bilancio (pareggio) come previsto dall’attuale art. 81 della Costituzione. Con i trattati europei abbiamo devoluto alla BCE la competenza sulle banconote (moneta a debito privata). Essi non risultano, perciò, incompatibili con l’uso interno, in parallelo all’euro, che continuerebbe, in questa fase, ad essere la valuta utilizzabile negli scambi internazionali e unità di conto per le statonote (moneta pubblica non a debito). Già Aldo Moro ne fece uso quando con la legge 31 marzo 1966, n. 171 si autorizzò il Tesoro a emettere biglietti di Stato a corso legale da 500 £. Fra il 1966 e il 1974 furono emesse due serie di queste banconote (emissioni “Aretusa e Mercurio“) per un totale di 300 miliardi di lire. Il consulente economico di Moro era stato quel Federico Caffè, a cui si deve l’impianto del titolo 3 della Costituzione economica, misteriosamente scomparso il 15 aprile del 1987.

I paesi OCSE contano 250 milioni di disoccupati, con il 20% di disoccupazione strutturale. Anche i paesi più avanzati sono affetti da disoccupazione strutturale. L’impresa capitalistica da sola non è in grado di garantire pieno impiego. Solo in un sistema economico non capitalista, uno Stato pienamente sovrano, può permettersi di far crescere l’occupazione, in questi settori dell’economia immateriale, sino a colmarne la domanda. Si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma che ridefinisce lo scopo dell’economia identificandolo nella risposta ai bisogni della società.

Ciò sarebbe ancora più fattibile man mano che si riallocassero le spese del settore militare (80 milioni €/giorno) verso la riattivazione dello stato sociale, nel contesto di una politica estera, degna di questo nome, che vedesse l’Italia quale paese neutrale, finalmente fuori dalla NATO in ottemperanza al dettato costituzionale (art.11). Una tale scelta ci consentirebbe di svolgere un ruolo non più subalterno, ai dettami NATO, nella costruzione di una politica estera, di pace e cooperazione economica, nell’area del mediterraneo.

Urge una azione di alta diplomazia che abbia come asse portante il rifiuto di considerare Russia e Cina quali potenziali nemici ma come partner nella ricerca e nella realizzazione di accordi commerciali e di pace. In questo nuovo status, l’Italia potrebbe contribuire a disinnescare i processi di riarmo e confronto militare, pericolosamente in atto piuttosto che concedere un aumento di spesa per la “difesa” dall’1,1% del Pil al 2% che equivale a ben 7 miliardi in più all’anno per assecondare la richiesta USA/NATO.

Domanda interna e lavoro: una relazione virtuosa

Gli incentivi a investire in mancanza di domanda risultano del tutto inefficaci. Detto in modo paradossale, se si incentivano le aziende, in mancanza di domanda interna ad assumere giovani e/o donne, le aziende facilmente li assumeranno, ma licenziando i lavoratori di genere maschile o di età più avanzata…

È sbagliato, perciò, pensare che la condizione primaria, per l’assorbimento della disoccupazione, sia l’abbassamento del costo del lavoro. Sottopagare il lavoro non serve a farlo aumentare, tutt’altro. Il licenziamento di lavoratori in esubero al fine di salvare l’azienda, la delocalizzazione presso sedi a più basso costo del lavoro (dove cioè sono generalmente più bassi i costi di produzione ed in particolare è possibile e legittimato un maggior sfruttamento dei lavoratori) o nei casi più estremi la chiusura della micro/piccola e in qualche caso anche media impresa non sono sempre scelte obbligate. In molti casi è già avvenuta una nuova alleanza tra lavoratori e micro e piccoli imprenditori (ciascuno mette il proprio lavoro e un proprio seppur piccolo capitale) che si è spinta a integrare i lavoratori nella gestione dell’impresa, consentendo loro la partecipazione agli utili e persino alla proprietà!

Si tratta di un modello di worker’s economy, un’economia del lavoro in cui i lavoratori recuperano aziende destinate al fallimento. In Argentina 300 fabbriche prima occupate e poi recuperate dai loro operai hanno lanciato un modello di riqualificazione industriale che ha coinvolto 10 mila lavoratori.

Importante anche l’esperienza italiana. Nel gennaio 2014 queste realtà si sono date appuntamento in Francia per mettere a confronto le proprie esperienze. È importante che queste piccole imprese trovino soprattutto in un diverso habitat socioeconomico, in particolare, a partire dall’economia interna e locale il proprio equilibrio economico. I circuiti di credito commerciale che funzionano valorizzando la tecnica della camera di compensazione permettono di ancorare e far fruttare la ricchezza prodotta localmente nel territorio.

È noto infatti che in tali circuiti la moneta è ridotta alla sua funzione di unità di misura del valore di merci e servizi scambiati all’interno del circuito. Ciascuno acquista all’interno del circuito pagando con ciò che produce. Si tratta di una forma di baratto multilaterale in compensazione mediata dalla tecnologia che però induce coloro che ne fanno parte (imprenditori, professionisti, dipendenti, e cittadini comuni) a spendere i crediti guadagnati (vendendo la propria produzione a chiunque ne faccia parte) all’interno del circuito.

Il sardex o il WIR svizzero ne sono degli esempi. In questo modo vengono disintermediati i grandi centri commerciali, le grandi multinazionali, e le grandi banche d’affari. È un sistema che struttura la collaborazione tra le parti finalizzando le attività alla costruzione di Bene Comune.

La domanda di lavoro e l’occupazione dipendono dallo sviluppo economico e non viceversa

Un patto per il rilancio – sarebbe necessario un convegno nazionale per il pieno impiego – dovrebbe affrontare e risolvere le cause della deindustrializzazione e delle relative delocalizzazioni ovvero della perdita di controllo della capacità del nostro sistema economico di generare valore a partire dal lavoro autonomo sino alla crisi dei distretti e delle grandi aziende comprese quelle pubbliche. Importante sarebbe reinternalizzare le attività industriali e favorire gli investimenti tecnologici, piuttosto che accettare l’ennesima proposta di gabbie salariali, salari di ingresso, deroghe nel sud ai contratti nazionali.

Le politiche di sgravio fiscale per le nuove assunzioni non sono sufficienti; è necessario l’esercizio della sovranità monetaria per immettere nel sistema moneta non a debito in quantità tale da attivare le energie umane e le risorse necessarie ad affrontare l’ordinario e lo straordinario senza lasciare che le molteplici risorse, di cui il nostro paese è ricco, vengano abbandonate e/o svendute al miglior offerente.

La falsa esigenza di legittimare solo il lavoro che produce profitto ha determinato da una parte la grande crescita del settore manifatturiero e dall’altra la dismissione della economia sociale. Dal primo, però, non ci si può più aspettare un ulteriore assorbimento occupazionale. L’aumento occupazionale, invece, sarebbe possibile nel settore della cura delle persone e del territorio. In questi ambiti è d’obbligo, però, l’intervento pubblico. La relativa spesa atta a sostenere gli investimenti, ancora una volta, è sostenibile solo in condizioni di ritorno all’esercizio della sovranità essendo l’unica che possa garantire lo sviluppo dei servizi di cura della persona e dell’ambiente, di manutenzione e recupero del patrimonio artistico.

Da una parte, dunque, come ripete spesso l’economista A. Galloni, abbiamo dei comparti ad alto profitto dove non cresce l’occupazione e dall’altra abbiamo un settore a basso profitto dove l’occupazione sarebbe in espansione ma che risulta, morente, e vicina allo stato fallimentare, a causa della mancata azione sovrana della Stato.

Sono necessari investimenti pubblici nel contesto di una vera e propria politica industriale che potrà essere realizzata solo uscendo dalla trappola delle politiche di austerità e della fissità dei cambi e, al tempo stesso nel ritornare ad avere una banca centrale sotto il controllo pubblico (4), in modo da poter riavviare il circolo virtuoso innescato dal welfare state che liberando i cittadini da spese sanitarie, trasporti, istruzione, ecc. permette loro un maggiore investimento nei consumi.

L’innalzamento delle retribuzioni pensionistiche, ad esempio, servono a stimolare la domanda di prodotti di qualità da parte degli anziani che è ciò che serve ai giovani per avere un lavoro stabile. Il conflitto generazionale, non a caso, è un’altra invenzione dell’offensiva culturale che ha portato alla riaffermazione dei modelli economici liberali.

Cassa integrazione, disoccupazione ed indennità di disoccupazione, mancati investimenti sulla sicurezza del lavoro sono i veri fattori che contribuiscono a svuotare le casse della previdenza sociale. L’economia è sempre trainata dalla domanda; oggi più che mai, non ci sono più problemi dal lato dell’offerta. Qualunque cosa si può produrre in grandi quantità a costi relativamente bassi ma se il potere d’acquisto non è sufficiente il sistema perde la sua sostenibilità.

Per il liberismo, le pensioni, la previdenza sociale, sono ingiustificabili; esso vorrebbe naturalizzare l’esistenza di ampi margini di disoccupazione, deflazione, mercato del lavoro esclusivamente regolato dalla competitività, privazione dell’accesso all’abitazione. Al posto del sistema pubblico ogni cittadino dovrà dotarsi di assicurazione sanitaria e investire in un fondo pensioni privato sperando che non subisca le conseguenze delle crisi che esso stesso può contribuire a generare o più banalmente che non investa male perché in tal caso diviene concreto il rischio di perdere la pensione, l’assistenza sanitaria e anche il lavoro con conseguente abbassamento della speranza di vita. 


La Repubblica costituzionale invece si impegna a promuovere il welfare universale, e a rimuovere, come suo primo e principale compito, tutti quegli ostacoli che impediscono il pieno godimento dei diritti fondamentali che il prevalere dell’ideologia liberista tende inevitabilmente ad impedire. I costituenti ci lasciano indicazione di come il conflitto sociale, presente nel mercato del lavoro, si risolva nella formulazione dei primi due articoli: la Repubblica è fondata sul lavoro, la Sovranità è di un popolo di lavoratori attivo nella costruzione del benessere della Nazione; lavoratori sono tutti quelli che esercitano una attività lavorativa compresi quindi gli imprenditori, escludendo però i rentiers che vivono di rendita (vive di rendita chi vive di ricchezza tesaurizzata) e che non sono, perciò, considerati meritevoli non godendo della dignità del lavoro.

L’art. 3, nel suo comma secondo, dice che compete alla Repubblica (governo e parlamento) «…rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» ed è sempre la Repubblica nell’Art.4 che «…riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.»

Ecco. Questo è un programma di intervento attivo! Lo strumento che rende effettivo questo diritto, secondo i costituenti, è la Costituzione economica Keynesiana, articoli dal 35 al 47, che vanno dalla tutela del lavoro alla tutela del risparmio. La Costituzione economica è lo strumento fondamentale per attuare il diritto al lavoro, fondamento della Sovranità popolare democratica e, perciò inderogabile sul piano del diritto pubblico come impegno dello Stato, al di sopra quindi della sfera del diritto civile.

Settant’anni fa, Lelio Basso, in Ciclo totalitario, «Quarto Stato», 1-31 lug.-15 ago. 1949, n. 13/14/15, pp. 3-6 scriveva:

Quali siano queste trasformazioni di struttura abbiamo già più volte indicato: esse vanno dal superamento dell’economia di concorrenza alla conseguente distruzione della produzione indipendente, cioè non legata a gruppi, sia essa piccola, media o relativamente grande, dall’abbandono di certi tipi di produzione industriale alla trasformazione delle culture agrarie in relazione alle direttive dell’imperialismo americano e alle sue esigenze di sfruttamento di un solo grande mercato europeo, dalla cartellizzazione e cosiddetta “razionalizzazione” dell’industria alla modificazione delle abituali correnti di traffico, dall’abbandono di difese doganali alla rinuncia a sovranità nazionali, dalla subordinazione dei poteri pubblici alle direttive dei monopoli fino alla creazione di un sistema di sicurezza del grande capitale capace di garantirgli la tranquillità del profitto e di socializzarne le perdite.

Tutto questo processo è evidentemente destinato ad accrescere la disoccupazione operaia, ad aumentare il livello di sfruttamento delle masse contadine, e, in misura forse ancora maggiore, a sgretolare e pauperizzare i ceti medi, a soffocare ogni libertà di pensiero e ad avvilire intellettuali e tecnici al rango di servi dell’imperialismo.

Non importa se i nostri avversari si riempiono la bocca di formule altisonanti di democrazia: la loro politica, più ancora di quella di Hitler, è la minaccia più grave che abbia fino ad oggi pesato sulle possibilità di sviluppo democratico dell’uomo moderno.

È chiaro perciò che la politica della classe operaia deve essere una politica capace di interessare non soltanto gli operai stessi, ma altresì tutti quei ceti – e sono l’immensa maggioranza della popolazione – che la politica dell’imperialismo distrugge od opprime sia economicamente sia spiritualmente e coi quali noi dobbiamo ricercare i mezzi e le vie per creare un nuovo equilibrio di forze sociali che rovesci quello oggi in via di consolidamento.

Dev’essere chiaro per tutti che le forze, che oggi si sono insediate al governo del nostro paese, non hanno alcuna possibilità di tornare indietro dalla strada su cui si sono avviate e che è la strada del domino totalitario dello stato per conto dei grossi interessi capitalistici; e che perciò la sola possibilità offerta a chi non vuole soggiacere a questa nuova edizione del regime fascista che si profila, è di opporvisi con tutte le proprie energie, non per tornare indietro o per stare fermi, ma per allearsi con tutte le forze decise a creare un nuovo equilibrio che segni un passo avanti sulla strada della democrazia e del progresso.

NOTE

(1) Le funzioni delle banche centrali quali la Federal Reserve, la Banca d’Inghilterra, la banca del Giappone, la banca centrale cinese, ecc., secondo una letteratura ormai consolidata, sono essenzialmente tre: essere banca del Tesoro, banca delle banche e banca dell’estero. La BCE svolge l’unico compito di banca delle banche. Gli è proibito il finanziamento del Tesoro così come qualsiasi intervento sul cambio (banca dell’estero).

(2) Ogni politica espansiva è in qualche misura inflattiva. In passato si reagiva ai processi inflattivi indicizzando salari, stipendi, pensioni e piccoli risparmi e mettendo in atto, contemporaneamente, politiche anti monopolio e oligopolio a favore della libera concorrenza dei prezzi. Nei rapporti con l’estero era sufficiente svalutare il cambio in misura pari al differenziale di inflazione residuo. Se, ad esempio ipotizziamo una inflazione negli Usa del 2%, rispetto ad un 5% di inflazione in Italia, dovuto ad eventuali manovre espansive, bastava svalutare la moneta nazionale del 3% per ristabilire il listino prezzi del made in Italy e del made in USA, precedente alla variazione inflattiva, riportando la competitività ai valori precedenti (Nando Ioppolo, 2012).

(3) Questo tipo di applicazioni è già in uso. Si pensi al riconoscimento di volti, traduzioni automatiche, gli assistenti virtuali come siri ed altri, le auto autonome o a WATSON, un supercomputer sviluppato dalla Ibm, già in uso in molte strutture sanitarie in Florida, Tailandia, India, in grado di eseguire analisi, diagnosi e possibile terapie per il trattamento dei tumori in appena 10 minuti, compito che i team di esperti impiegano più di 150 ore a completare. Anche il futuro della chirurgia sarà affidato sempre più ai robot. Si pensi inoltre agli aumenti di produttività conseguenti all’introduzione di un «robot avvocato» in uno studio legale o a quelli conseguibili dalle grandi testate giornalistiche che hanno cominciato a fare uso di algoritmi adatti alla produzione automatica di articoli… La semplice informatizzazione del processo penale, come richiesto da N. Gratteri, abbatterebbe insieme ai tempi e ai costi del processo, la necessità dell’istituto della prescrizione. Anche il potere discrezionale umano sarebbe minimizzato.

(4) L’unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

 * da https://www.francescocappello.com

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