Tra i botti di fine anno ha fatto molto rumore la dichiarazione della nuova presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, riguardo il lancio del Green Deal europeo. Un annuncio accompagnato da entusiastici commenti della stessa presidente che ha definito questo accordo – che dovrebbe portare l’Unione Europea ad abbattere l’impatto ambientale delle attività umane fino a zero nel 2050 – come “il nostro uomo sulla Luna”, in quanto l’Unione Europea sarebbe la prima ad approvare un processo di transizione ecologica che riguarda tutti i settori produttivi.
Un accordo, già paragonato da molti speranzosi commentatori al famoso New Deal di Roosvelt che fece risollevare gli Stati Uniti dopo la grande depressione del 1929, che, in sintesi, ambisce al rilancio dell’economia attraverso un nuovo paradigma di crescita che punta sulla sostenibilità ambientale.
Nonostante le oggettive difficoltà di riuscire in tale impresa per via delle profonde differenze nel sistema produttivo dei Paesi membri dell’Unione Europea, come già evidenziato nella riunione del Consiglio Europeo del 12 dicembre scorso, le premesse sembrerebbero, comunque, positive.
Tuttavia, ascoltando con più attenzione la von der Leyen, appare chiaro come il Green Deal sia del tutto insufficiente a perseguire gli obiettivi preposti, dal punto di vista sia della transizione ecologica e sia della crescita economica. Vediamo perché.
La necessità di una svolta nella politica energetica, a livello mondiale, è stata avvertita già diversi anni fa. Nel dicembre 2015 l’adozione dell’Accordo di Parigi, all’interno della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ha portato 196 Stati ad impegnarsi a ridurre drasticamente l’emissione di gas serra al fine di contenere l’aumento delle temperature e mitigare il cambiamento climatico.
A tal proposito, le Nazioni Unite e l’Agenzia Internazionale dell’Energia (un’organizzazione internazionale creata in seno all’OCSE nel 1974) hanno affermato che, al fine di raggiungere i target proposti, sono necessarie grandi quantità di investimenti verdi in tutto il mondo e che, tuttavia, il loro attuale livello è insufficiente. In particolare, secondo gli studi dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, soltanto nel settore dell’energia, per la transizione verso modi di produzione in grado di mitigare l’aumento delle temperature, sarebbe necessario investire circa 3.500 miliardi di dollari annui entro il 2050 (circa 3.200 miliardi di euro), più o meno il doppio dell’attuale livello di investimenti.
Per quanto riguarda l’Unione Europea, il Green Deal dovrebbe prevedere la mobilitazione di 100 miliardi di euro spalmati sui prossimi 7 anni (circa 14 miliardi l’anno) per finanziare quello che è stato definito il “Just Transition Mechanism” con il nobile obiettivo di “non lasciare indietro nessuno”, come ha detto la stessa von der Leyen.
Ora, stando a quanto dichiarato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, i 100 miliardi messi a disposizione dalla Commissione Europea non sono sufficienti per attivare un piano di sviluppo volto ad azzerare le emissioni. Infatti, l’Unione Europea negli ultimi 5 anni ha rappresentato circa il 15/16% del PIL mondiale. Ciò significa che per dare un suo contributo effettivo alla transizione green, l’Unione Europea dovrebbe prendersi la responsabilità di investire almeno il 15/16% dei circa 3.200 miliardi di euro annui richiesti dall’Agenzia Internazionale dell’Energia.
Ossia, i Paesi membri dovrebbero spendere circa 500 miliardi di euro annui soltanto per i miglioramenti nel settore dell’energia. Una cifra di molto superiore ai circa 14 miliardi annui attualmente previsti dalla Commissione Europea per interventi ‘green’ in tutti i settori.
Ma non finisce qui. È ancora più importante, infatti, evidenziare come i 100 miliardi promessi dalla Commissione Europea, oltre a essere insufficienti, non siano il risultato di un ampliamento del budget dell’Unione Europea. Tradotto in altre parole, gli Stati membri non avranno a disposizione un’ulteriore quantità di risorse finanziarie per poter avviare la transizione energetica. Tale fondo infatti verrà creato prelevando risorse da altri Fondi, come il Fondo Sociale Europeo (FSE) e il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), e dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI).
Gli stessi Stati membri, ai quali sarà chiesto di contribuire, dovranno trovare le risorse rispettando sempre il Patto di Stabilità, ossia ottemperando sempre all’austerità fiscale imposta dall’Unione Europea. Infatti, la von der Leyen ha espressamente negato la possibilità che gli investimenti green potessero essere scorporati dal computo dei deficit pubblici nazionali, ancor prima che venisse annunciato l’accordo.
La giustificazione di tale posizione, per la von der Leyen, sarebbe nel fatto che gli Stati potrebbero essere tentati di spendere di più con la scusa di un ambientalismo di facciata, aggiungendo peraltro – e ciò rende il tutto ancora più irritante – che ci sono già sufficienti spazi di manovra nel Patto di Stabilità a favore degli investimenti pubblici.
Tale dichiarazione, tra l’altro, ignora la preoccupazione mostrata dalla stessa BEI, riportata nella relazione annuale sugli investimenti 2018/2019. Nelle parti d’Europa che sono particolarmente colpite dall’austerità, gli investimenti nelle infrastrutture pubbliche sono in uno stato terribile. La relazione annuale sugli investimenti 2018-2019 della BEI cita: “Il calo degli investimenti infrastrutturali complessivi nell’ultimo decennio è imputabile per circa l’80% al settore della pubblica amministrazione. Il calo degli investimenti infrastrutturali da parte della pubblica amministrazione è stato più pronunciato nei paesi interessati da condizioni macroeconomiche avverse e da vincoli di bilancio più stringenti”.
Dove dovrebbero trovare i soldi gli Stati per aumentare gli investimenti in infrastrutture pubbliche ed effettuare la conversione energetica? Per l’Unione Europea la risposta sarebbe semplice, nonché duplice. La prima strada da percorrere, la più gradita a Bruxelles, è ridurre la spesa pubblica in altre voci.
Ciò significa continuare in quell’opera di demolizione del welfare sociale, attraverso tagli ai servizi e alle stesse infrastrutture pubbliche, che osserviamo giorno dopo giorno, con la chiusura di ospedali e scuole, il crollo dei ponti e così via.
La seconda possibilità riguarda, invece, il recupero delle risorse attraverso un aumento delle tasse, come ha fatto nel 2018 il presidente francese Macron con l’imposta diretta sul diesel, che ha dato origine alle proteste dei gilet gialli.
In entrambi i casi ciò si traduce in un peggioramento delle condizioni di vita delle classi sociali più povere. Insomma, ci rimettono sempre i più deboli. Meno male che la von der Leyen non vuole lasciare indietro nessuno con il “Just Transition Mechanism”…
L’Unione Europea, lo sappiamo, è stata architettata come un poderoso strumento istituzionale per imporre riforme e politiche economiche gradite ai padroni. Negli ultimi anni, però, è aumentata, tra i cittadini dei Paesi membri, la consapevolezza del fatto che il processo di integrazione va solo ed esclusivamente nella direzione di austerità, precarietà e contenimento salariale.
Ciò ha portato, un po’ dovunque nell’Unione Europea, allo sfaldamento dei consensi per l’apparato europeo e alla crescita dei cosiddetti ‘populismi’. Per cercare di riguadagnare consenso, senza, naturalmente, modificare di una virgola lo status quo, le istituzioni europee hanno individuato un campo, quello ambientale, in cui mostrare sprazzi di innocuo progressismo e illuminata lungimiranza: la questione ambientale, che, oltre a essere indubbiamente un problema reale, è anche estremamente alla moda, soprattutto tra i giovani.
Basta, però, poco, come abbiamo visto, per disvelare la natura di questa apparente svolta. Ancora una volta, siamo di fronte a una cortina fumogena che serve a continuare a impartire austerità, ma con le margherite tra i capelli (questo sì che è ambientalismo di facciata!).
Soltanto attraverso la rottura con le politiche di austerità, è possibile realizzare un piano di investimenti in grado di permettere la transizione energetica e al contempo stimolare la crescita macroeconomica dei Paesi membri.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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