Le simulazioni risultanti dallo studio d’impatto della legge sulla riforma delle pensioni evitano ovviamente l’argomento, per di più raramente menzionato. Tuttavia, abbiamo il diritto di porci questa domanda essenziale: cosa accadrà alle pensioni in caso di crisi economica?
La risposta non può che evidentemente dare luogo solo ad ipotesi e dipenderà dalla maggioranza politica del momento e dall’entità della crisi. Ma il disegno di legge ci permette già di tracciare alcune piste.
L’articolo 55 del progetto di legge stabilisce chiaramente l’obbligo di garantire l’equilibrio finanziario del sistema pensionistico nell’arco di cinque anni, indipendentemente dalla situazione economica. Il consiglio di amministrazione della futura Caisse Nationale de la Retraite Universelle (CNRU) sarà obbligato “ogni anno” ad adottare misure per garantire questo equilibrio.
La base di lavoro per questa decisione sarà la relazione del “comitato di esperti indipendenti”. L’indipendenza del comitato sarà comunque relativa: i suoi membri saranno nominati dai presidenti delle assemblee (Senato, Assemblea nazionale e Consiglio economico, sociale e ambientale) e dal Presidente della Repubblica, oltre a due rappresentanti della Corte dei conti.
In altre parole, questo comitato, che non comprenderà rappresentanti dei pensionati e dei lavoratori, si concentrerà esclusivamente sulla questione dell’equilibrio finanziario.
Questo consiglio di amministrazione così composto avrà poi il compito di “proporre gli adeguamenti dei parametri per garantire il rispetto della regola d’oro”. Questo è il cuore del vero interesse della riforma “a punti”: l’adeguamento permanente del sistema all’equilibrio finanziario.
Tuttavia, spesso si dimentica che le risorse dell’assicurazione per la vecchiaia sono estremamente dipendenti dalla situazione economica e dal mercato del lavoro. Nel 2019, secondo la Commissione di controllo della previdenza sociale, il 67% delle risorse dell’assicurazione generale per la vecchiaia si basava sui contributi. A ciò si aggiungono i trasferimenti da fondi supplementari e speciali e le imposte e i prelievi dedicati, compresa l’imposta sui salari. Al contrario, la spesa è legata a motivi demografici indipendenti dalla situazione economica.
In altre parole, in caso di crisi economica e di deterioramento del mercato del lavoro, il sistema pensionistico è necessariamente squilibrato. Si potrebbe permettere al sistema di riequilibrarsi con il movimento ciclico dell’economia. Ma questa non è la strada scelta dalla riforma, perché in questo caso non sarebbe necessario fissare un orizzonte per riequilibrare il sistema.
La scelta che è stata fatta è ben diversa: equivale a costringere il Consiglio del futuro CNRU ad adottare misure per equilibrare il sistema fin dall’inizio della crisi. D’ora in poi, qualsiasi deficit ciclico dovrà essere seguito da un corrispondente surplus entro cinque anni. Più grande è il deficit, più grande dovrà essere l’eccedenza. E poiché non si conosce la durata dello squilibrio “naturale”, sarà quindi necessario intervenire rapidamente per rallentare il deficit e garantire un surplus una volta superata la crisi.
In altre parole, le misure di austerità dovranno essere adottate rapidamente.
In questo senso, l’articolo 55 elenca una serie di misure: procedure per l’indicizzazione delle pensioni, variazioni dell’età di riferimento, rivalutazione dei valori di acquisto e di servizio, aliquote contributive e, in caso, prodotti finanziari di riserva. Chi sarà interessato da queste misure? Con l’eccezione di quest’ultima possibilità, tutti questi mezzi faranno pagare ai pensionati la crisi (deindicizzazione delle pensioni il cui solo valore nominale è garantito dall’articolo 11), ai futuri pensionati (attraverso la modifica dell’età di riferimento e del valore dei “punti”) o ai contribuenti.
Date le esigenze di competitività che dominano nell’attuale universo politico e che sono ancorate all’equazione altamente discutibile che “l’aumento del costo del lavoro crea disoccupazione”, l’aumento dei contributi sembra l’opzione meno disponibile.
Per quanto riguarda l’utilizzo delle riserve, non garantisce eccedenze in grado di equilibrare il sistema in un secondo tempo, ed è molto probabile che un comitato di esperti dominato dalla Corte dei conti preferisca misure che si concentrino sulle spese.
Questo è quanto la Corte propone da anni per i conti pubblici, in accordo con il dogma neoliberista che i disavanzi possono essere ridotti solo riducendo le spese. Questa visione è all’origine del pensiero di “austerità espansiva” che ha portato alla crisi dell’eurozona nel 2010. Questo era il periodo in cui Jean-Claude Trichet sosteneva che l’austerità poteva essere un bene per la crescita. E questa idea è alla base del futuro sistema pensionistico: si ritiene che, in caso di crisi, l’austerità permetterà ai conti di riprendersi al meglio.
Questo è ovviamente un rischio enorme. In caso di crisi, è probabile che molte di queste misure pesino sull’attività e peggiorino ulteriormente la situazione economica. Ciò è ovvio in caso di deindicizzazione della pensione o di aumento dei contributi dei dipendenti. Ma il calo del tasso di sostituzione del salario, sia spostando l’età di riferimento sia modificando il valore dei punti, porterà anche a una perdita di reddito e, inevitabilmente, a meccanismi di protezione attraverso un aumento del tasso di risparmio a scapito dei consumi.
Questo è esattamente ciò che deve essere evitato in caso di crisi.
Ci sono quindi buone probabilità che la “regola d’oro” inneschi un circolo vizioso che riduca la rete di sicurezza dei trasferimenti sociali in Francia contro i rischi ciclici. Se il governo non aveva in mente tali mezzi, perché allora non sono stati esplicitamente esclusi dalle possibilità di adeguamento a breve termine?
Tuttavia, il rischio è immenso perché, aggravando la crisi, si rischia di peggiorare il deficit. Anche in questo caso, è il meccanismo di austerità che ha aggravato la crisi e i deficit, che sono all’opera dal 2010. L’altro rischio è che l’equilibrio venga rapidamente ripristinato a costo di impoverire i pensionati e/o i lavoratori.
Quando guardiamo all’ultima crisi e alle misure adottate per riequilibrare il sistema, il quadro diventa francamente inquietante. Tra il 2008 e il 2010 si è registrato un peggioramento del deficit del sistema di 4,1 miliardi di euro, ma a questo si è aggiunto un deficit legato alla demografia, che nel 2007 era cresciuto fino a quasi 5 miliardi di euro. Nel 2010, il regime generale di assicurazione per la vecchiaia era quindi in deficit di 8,9 miliardi di euro.
La “riforma Fillon”, adottando una misura dell’età e una rigorosa indicizzazione delle pensioni all’inflazione, ha ridotto questo deficit a 4,8 miliardi di euro nel 2012. In altre parole, tra il 2008 e il 2012 il sistema è stato prossimo al pareggio se si esclude l’effetto del deficit passato. La regola del nuovo sistema sarebbe stata quindi rispettata. Ma a quale prezzo?
Nel 2011 è stato previsto un deficit di 5,8 miliardi di euro con una crescita dell’1,9% e infine vi è stato un deficit di un miliardo di euro in meno con una crescita dello 0,2%. Si è quindi dovuto stringere violentemente le spese, dividendo la crescita per 4 tra il 2006 e il 2011. Non sorprende che con una tale pressione la crescita francese sia stata debole, anche mentre infuriava la crisi dell’eurozona.
Ricordiamo semplicemente le condizioni di questo adeguamento: la riforma Fillon ha provocato un lungo conflitto sociale. Questa è una delle conseguenze dell’attuale principio delle prestazioni definite. Se vogliamo riequilibrare il sistema, dobbiamo ripensarlo e lanciare un dibattito nella società.
D’ora in poi, con il sistema a punti, ciò sarà fatto più semplicemente con una semplice decisione annuale “illuminata” del Consiglio di Amministrazione del CNRU, convalidata da un decreto governativo. È più semplice e più discreto. Chi scenderà in strada in massa ogni anno contro l’assenza di un aumento del salario minimo o il congelamento dei punti-indice per i lavoratori pubblici? Questo è infatti il principale vantaggio del sistema a punti mai proposto dal governo, che tuttavia non lo ignora.
Il caso del periodo 2008-2012 è abbastanza eloquente, ma la futura riforma renderà inevitabilmente ancora più doloroso l’aggiustamento. Infatti, durante l’ultima crisi, i governi non sono stati costretti a riequilibrare il sistema, e quindi ad aggiustare anche il deficit passato, quello accumulato nel 2006-2007. Se così fosse stato, la spesa avrebbe dovuto essere ridotta di altri 5 miliardi di euro.
Immaginiamo che si verifichi una crisi economica quando il sistema è fuori equilibrio. Non è una visione mentale, perché la riforma in corso porterà ad un vero e proprio “salto nel vuoto finanziario”, legato in particolare alla perdita di contributi sui redditi elevati, ma anche perché le risorse del sistema non sono garantite e sono sotto la pressione delle politiche di riduzione del costo del lavoro. La “regola dei 5 anni” costringerà quindi a regolare contemporaneamente e rapidamente sia il deficit ereditato che quello causato dalla crisi.
L’austerità sarà quindi necessariamente più intensa. In realtà, sarà permanente. Infatti, la pressione sul sistema verso il deficit causato dalla demografia sarà costante e indurrà ogni anno misure correttive. In caso di crisi, queste misure saranno rafforzate. Ed è per questo motivo che tutte le proiezioni pubblicate sul nuovo sistema devono essere prese con grande attenzione. Si basano su un mondo ideale lontano dalla realtà, un mondo senza crisi e dove la produttività e la crescita dell’attività sono stabili. Questo è improbabile.
Tuttavia, è improbabile che le misure relative all’età, al valore dei punti o al valore della rendita adottate nelle crisi future possano essere corrette. Pertanto, le crisi avranno un effetto acceleratore su ciascuna di queste misure. Se, per gestire una crisi, si decide di posticipare l’età dell’equilibrio, questa decisione non verrà invertita. È quindi possibile che la proiezione di un’età di equilibrio di 67 anni nel 2060 sia molto ottimistica. Potrebbe accadere molto prima.
Questo è il naturale funzionamento di un sistema che pone l’equilibrio fiscale come punto di partenza. Questo sistema di gestione dei costi avrà poi una conseguenza ovvia: genererà incertezze che daranno luogo a risparmi precauzionali, soprattutto, come è tradizione francese, nel settore immobiliare. Anche l’aumento della capitalizzazione avverrà in questo modo.
Più che mai, questa riforma costruisce un modello economico ad alto rischio che ignora le lezioni del passato.
* Traduzione a cura di Andrea Mencarelli (Potere al Popolo) dell’articolo pubblicato su Mediapart.
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