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Bruxelles dice sì alla spesa per l’emergenza, ma a che prezzo?

«We take this opportunity also to recall that the next Eurogroup on 16 March will reassess the situation» (cogliamo l’occasione anche per ricordare che il prossimo Eurogruppo del 16 marzo riesaminerà la situazione).

Termina così la risposta del vicepresidente della Commissione europea (Ce) Dombrovskis e del commissario all’economia Gentiloni a alla missiva inviata a Bruxelles il 5 marzo dal ministro Gualtieri, lettera dove in sostanza si chiedeva alla Ce il “via libera” di proporre al Parlamento una relazione recante la possibilità per lo Stato di spendere nel 2020 più di quanto preventivato nella Nadef del 2019.

“Via libera” che viene confermato da Bruxelles. La Ce infatti scrive che «le spese una tantum sostenute per far fronte alla diffusione dell’epidemia sono escluse per definizione dal calcolo del bilancio strutturale e non vengono prese in considerazione nella valutazione dell’adeguatezza dello sforzo di bilancio previsto in base alle regole attuali».

Questa buona quanto dovuta notizia potrebbe avere delle ripercussioni importanti. Vediamo perché.

Innanzitutto, non ci abitueremo mai alla surrealità di una condizione in cui di fronte a 250 vittime e 5mila contagi (numeri purtroppo in costante aumento), un’epidemia che si appresta a raggiungere il livello di pandemia, nel bel mezzo del secondo mese di un’emergenza pubblica dichiarata lo scorso 30 gennaio di “livello internazionale” dall’Organizzazione mondiale della sanità, un governo debba chiedere il lasciapassare a un’istituzione terza per poter fare tutto il necessario per mettere al sicuro gli abitanti del proprio paese.

Ma tant’è, e l’Unione europea, dopo averci “chiesto tante cose”, stavolta sembra tuttavia mettere in campo gli strumenti necessari ad alleviare quelle difficoltà per la popolazione che invece negli ultimi trent’anni ha contribuito a intensificare. Nello specifico, Bruxelles afferma che i soldi che il governo metterà sul piatto per contrastare la diffusione del coronavirus non saranno calcolati nel rapporto deficit/Pil della prossima finanziaria (Programma di stabilità), di cui, stando al calendario attuale, si avrà una prima stesura entro il prossimo 7 maggio.

Pare tutto bene dunque, anche se da un parte avremmo fatto fatica a immaginare uno scenario in cui, nella condizione sociale odierna, Bruxelles impedisse di allargare anche solo un po’ le maglie che da anni strozzano la spesa pubblica del paese; dall’altra, è di pochi giorni fa il rapporto dell’Istat secondo cui il governo giallo-verde fece talmente tanto bene i compiti a casa che riuscì nel 2019 a spendere meno (si legga, a re-immettere nell’economia reale) di quel ridicolo 2,04% “faticosamente contrattato” a Bruxelles, fermandosi al +1,6% del Pil.

Come a dire, magari qualcosa da parte è rimasto, tra la differenza fra la riduzione del cuneo fiscale e l’aumento delle ritenute sui redditi da lavoro registrati nel 2019 (alla faccia del sostegno ai consumi) e i maggiori introiti dovuti alla fatturazione elettronica, al netto però del pagamento degli interessi sul debito che ogni anno rappresentano circa il 3,5/4% del Pil e che purtroppo conosceranno una nuova impennata a causa dell’aumento dello spread di questi ultimi giorni.

In più, come afferma la stessa Commissione, questa possibilità era già prevista nei Trattati (nonostante ciò, sul valore dell’una tantum permangono dubbi, che comprende? entro quando? chi lo decide?) e la Francia comunque sia i vincoli di bilancio non li ha mai rispettati, mentre la Germania ha potuto contare sul tasso di cambio fisso tra le monete che compongono il paniere dell’Euro per rastrellare valore dagli altri paesi, arrivando a poter ridisegnare le filiere industriali a proprio vantaggio.

Ma c’è quell’ultima frase, riportata in apertura, che squaderna un po’ il quadro fin qui delineato. Il 16 marzo infatti, riporta l’Ansa, la riunione dell’Eurogruppo potrebbe approvare in via definitiva quella riforma del Meccanismo di stabilità a cui è stato dato ampio spazio in questo giornale.

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Senza rifare tutta la storia, in una battuta, la revisione prevedrebbe come controporte di un prestito finanziario per il paese un pacchetto di riforme che, tra le altre cose, imporrebbe alle banche dello stivale di sbarazzarsi delle ampie quote possedute di titoli di stato italiani, innescando la sfiducia dei mercati sul sistema-paese e convogliando così il risparmio e i capitali verso asset tedeschi (o in generale nordeuropei, ritenuti i più sicuri), lasciando a noi lavoratori – studenti – pensionati ecc. la polvere della terra bruciata di greca memoria.

Questo interessa perché il governo per fare le 20mila assunzioni dichiarate nella sanità, pagare le eventuali requisizioni di alberghi o strutture private, sostenere lavoratori e famiglie, far fronte alla probabile recessione dei prossimi mesi ecc., avrà bisogno di liquidità a stretto giro e da qualche parte i soldi dovrà pur prenderli (i risparmi, anche quelli insperati, non basteranno). Ma il settore creditizio italiano è tra i più in difficoltà in queste settimane, e l’architettura dell’Unione si è rivelata una mannaia per il comparto, tra anni di rendimenti negativi e depositi penalizzanti, anche per i colossi tedeschi.

A questo punto, tre sono le linee di pensiero possibile in seno all’Ue: la prima è che quel reassess, quel “riesaminare”, ha l’aria del “ci vediamo fuori” che non promette nulla di buono. “Spendete pure, anche i Trattati ve lo permettono, ma la sostenibilità a lungo termine, indipendentemente dalla crisi, rimane il punto vincolante e questa “concessione” vale la firma sulla riforma del fondo salva-Stati e dei suoi eventuali Memorandum of understanding“. Insomma, coronavirus o austerità. Qui, prevarrebbe la logica-di-comando della Germania, a qualsiasi prezzo, per chiunque.

La seconda è che il Covid-19 ha talmente messo a nudo tutte le storture su cui si fonda l’Unione – ferrea concorrenza tra attori privati garantita dall’apparato (sovra-)statale per sostenere un modello di sviluppo mercantilista guidato dalla Germania e coadiuvato da partner necessari dal punto di vista politico-militare (la Francia) e fiscale (l’Olanda) – che l’emergenza diventa un’opportunità per rifarsi un po’ il trucco, anche tradendo “a tempo determinato” qualche caposaldo ordoliberista, e provare a rispondere a quella crisi di egemonia che sta mettendo a dura prova la borghesia continentale. Tuttavia, non sembrano esserci segnali di “ammorbidimento” in questo senso.

La terza è che a seguito della Brexit e del “riallineamento del blocco anglofono”, l’Italia acquista un’importanza strategica per le mire imperialiste del polo europeo, il quale senza la seconda potenza industriale dell’area non può sperare di svolgere un ruolo di peso nelle crescente tensione tra aree geopolitiche in competizione tra loro, in particolar modo a seguito degli sviluppi che interessano il Mediterraneo. Allora, occorre preparare un “avvicinamento nella stanza dei bottoni”, o almeno ritagliare al paese uno spazio di protagonismo, evitando di farlo affondare. Sembrerebbe europeisticamente logico, ma la storia recente non gioca a favore di questa ipotesi.

Comunque sia, tra la morte del sistema-paese, il tampone alle contraddizioni del capitalismo o i ritrovati programmi imperialisti, la lettera della Ce e il prossimo Eurogruppo, a dispetto delle apparenze, non  sembrano portare in prospettiva nulla di lieto.

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