Quando il PD e il centrosinistra mettono mano al mondo del lavoro, i lavoratori non possono far altro che iniziare a tremare. Con l’abbandono di Renzi, la cui segreteria aveva ispirato e attuato il Jobs Act e l’ennesima ondata di precarizzazione del mercato del lavoro in Italia, pare che nulla sia cambiato da questo punto di vista.
Si legge, sulle pagine di Repubblica, della proposta presentata l’8 gennaio, a prima firma del deputato PD Maurizio Lepri (ma co-firmato dai più noti Martina, Orlando, Serracchiani e Gribaudo) per ridurre l’orario di lavoro riducendo proporzionalmente il salario. Per dirla in soldoni, ciò significherebbe istituzionalizzare il part-time involontario.
Conviene soffermarsi su questa proposta di legge, per comprendere quale sia il paradigma teorico e politico di riferimento che la ispira e per sottolineare, a differenza del quotidiano che la riporta, quali potrebbero essere gli effetti deleteri, per i lavoratori, di questa proposta ora che la drammaticità della situazione economica del paese si paleserà con tutta la sua virulenza.
Sono di questi giorni le stime impietose della Commissione europea che parlano di una caduta del PIL pari a 9,5 punti percentuali e un conseguente aumento del tasso di disoccupazione fino a toccare la soglia del 12%. Scenari più tragici fanno riferimento a un crollo della produzione del 15% e un tasso di disoccupazione al 17%.
Inevitabilmente, questo drammatico quadro macroeconomico avrà ripercussioni sulle condizioni materiali di vita di milioni di persone che perderanno il lavoro e, in mancanza di un adeguato intervento pubblico, il reddito.
La proposta del PD, concretamente, ha l’obiettivo di incentivare l’adozione di contratti a tempo indeterminato part-time da parte delle imprese tramite una riduzione del cuneo fiscale di 4 punti (dal 33% al 29%) che si distribuisca in maniera equa (2% a testa) tra lavoratore e impresa.
In sostanza, lo Stato si incaricherebbe di garantire manodopera più economica ai datori di lavoro, mentre il lavoratore, magari costretto ad accettare un lavoro part-time in assenza di meglio, si troverebbe a guadagnare pochi spiccioli, con il contentino di una riduzione delle trattenute contributive.
Va, a questo punto, ricordato che il vecchio adagio “Lavorare meno, lavorare tutti” ha una connotazione positiva, per i lavoratori, solo se alla riduzione dell’orario di lavoro non si accompagna una riduzione della retribuzione.
La proposta del PD, invece, lungi dall’essere una fonte di miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, rappresenta l’ennesima trappola. La retribuzione, nella proposta di cui ci stiamo occupando, si abbassa in maniera corrispondente alle ore non lavorate.
Ma come viene giustificata, dai proponenti, questa scelta? Lepri, nell’articolo di Repubblica, dice di temere la perdita di competitività per le merci prodotte che deriverebbe dal dover pagare lo stesso salario per meno ore lavorate. Questa considerazione ci permette di ricordare alcune conclusioni che abbiamo più volte sottolineato.
In primo luogo, il PD giustifica e trova naturale che i padroni rispondano con aumenti dei prezzi a un qualsiasi aumento dei salari per mantenere inalterato il loro margine di profitto. Ma l’idea del “Lavorare meno, lavorare tutti”, a parità di salario, nella declinazione più favorevole ai lavoratori, presuppone una riduzione dei margini di profitto.
In assenza di barriere ai movimenti di capitale, una tale riduzione dei margini di profitto darebbe il via a un’ulteriore ondata, rispetto a quelle a cui abbiamo già assistito, di delocalizzazioni, ovvero di chiusure di stabilimenti industriali in Italia atte a spostare la produzione in paesi con costi del lavoro più contenuti.
Ma la libertà indiscriminata dei movimenti di capitale non è una disgrazia impostaci dai numi. È, bensì, la conseguenza di deliberate scelte di politica economica, tutte indirizzate a un unico disegno: imporre ai lavoratori di scegliere se accettare riduzioni negli standard di vita o rimanere senza un posto di lavoro.
Questa proposta ci permette, inoltre, di sottolineare come nel contesto dell’Unione Europea, la deflazione salariale sia l’unica strategia di crescita che si prospetta. La ricerca della competitività, quindi di salari più bassi, è la via per continuare a vendere le proprie merci, in un contesto di cambi fissi (senza, dunque, la possibilità di rendere le proprie merci più appetibili tramite una svalutazione della valuta nazionale) e risorse scarse (generate dai limiti alla spesa pubblica e al deficit, imposte dai Trattati europei), mantenendo inalterata, o addirittura peggiorando, la distribuzione del reddito.
Una prospettiva questa, di cui il Partito Democratico è da sempre un fiero alfiere.
Inoltre, persino lo scopo apparente di questa proposta, redistribuire il carico di lavoro tra una platea maggiore di lavoratori risulterebbe vano. La cronica stagnazione della domanda interna italiana ha infatti prodotto le pessime performance del mercato del lavoro a cui siamo abituato e che sono limpidamente cristallizzate nel 9,7% del tasso di disoccupazione nel 2019.
La drammatica crisi a cui andiamo incontro, certificata come detto anche dalla Commissione Europea, già aggravata dall’impossibilità dello Stato di intervenire poderosamente a sostegno dell’economia e del reddito dei lavoratori, non lascerà invariate le ore lavorate, ma anzi, ne deprimerà la già fiacca dinamica.
I dati ci dicono, infatti, che mentre il numero di occupati è cresciuto fino a superare il numero di teste occupate prima della crisi, le ore lavorate per occupato sono diminuite drasticamente (erano circa 1810 nel 2009 e 1722 nel 2018).
Inoltre, la quota di part-time involontari sul totale degli occupati, che era pari all’8,2% nel 2011, ammontava all’11,9% nel 2018. Inoltre, se si considera soltanto l’occupazione a tempo parziale, si noterà come, tra tutti coloro che hanno un contratto di lavoro part-time, ben il 64% (era il 52% nel 2011) ha sottoscritto questo contratto perché senza alternative a tempo pieno.
Ciò testimonia il drammatico aumento del fenomeno dei sottoccupati, vale a dire di coloro che sarebbero disposti a lavorare più ore ma che, per contingenze non dipendenti dalla loro volontà, sono costretti a lavorare di meno.
Queste considerazioni non solo confermano l’ormai endemica debolezza del mercato del lavoro italiano, causata da tagli e austerità, ma rendono palese come le “riforme” dell’ultimo ventennio abbiano fatto il loro corso permettendo di assumere lavoratori per orari e tempi sempre minori.
In altri termini, la pratica di assumere lavoratori per un tempo di lavoro ridotto, nonostante essi siano disposti a lavorare a tempo pieno, e pagando loro un salario ridotto rispetto ai contratti “regolari” è presente e cronicizzata nell’economia italiana, favorita dalle riforme e indotta dalle pessime dinamiche dell’occupazione e della domanda aggregata.
La proposta del PD quindi, oltre ad assumere i connotati della farsa in cui i drammaturghi non conoscono l’oggetto del proprio copione, rischia di rivelarsi l’ennesimo boomerang contro i lavoratori. Metterla in atto approfittando dell’emergenza pandemica ed economica che stiamo vivendo significherebbe attuarle in un contesto in cui la produzione subirà un calo drammatico.
Il ricorso a tali forme contrattuali sarà dettato, quindi, non dalla legittima aspirazione dei lavoratori a lavorare di meno, conseguendo lo stesso salario, ma dalla necessità, per le imprese, di scaricare il costo della crisi sui lavoratori. Le nuove assunzioni a tempo parziale involontario risulterebbero addirittura incentivate (e pagate) dallo Stato.
Per chi vuole sinceramente migliorare le condizioni dei lavoratori la battaglia è sempre la stessa: politiche pubbliche per aumentare la domanda aggregata e perseguire la piena occupazione, sostegno al reddito dei lavoratori rimasti senza lavoro e aumento dei salari di tutti i lavoratori.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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