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Il fantasma del “picco” del petrolio bussa alla porta

Conseguenze che non ti aspetti. La pandemia da Covid, tra le tante cose, ha drasticamente ridotto la domanda di petrolio e idrocarburi. Tanto che per un giorno il prezzo del greggio è diventato addirittura negativo (-37 dollari!) perché le cisterne dei depositi stavano scoppiando, e quindi si era disposti a pagare purché qualcuno se lo portasse via.

In questa situazione, le attese “logiche” sarebbero a favore di una maggiore disponibilità di petrolio per i prossimi anni, allontanando insomma la prospettiva del “picco di Hubbert” (raggiunto il massimo della produzione, la produzione comincia a scendere, sia a livello di singolo pozzo che a livello complessivo).

E invece, riporta il Financial Times citando le stime di Rystad Energy (un centro studi norvegese molto autorevole in questo campo), accadrà esattamente l’opposto: il temutissimo “picco”, causa crisi da coronavirus, si avvicina nel tempo di almeno tre anni.

La notizia potrebbe lasciare indifferenti i più, se quel giorno non fosse terribilmente vicino e l’energia petrolifera non fosse la principale risorsa del nostro stile di vita. Atteso prima per il 2030, ora dovrebbe essere toccato nel 2027. In tempi storici e produttivi, è come dire domattina.

Perché un utilizzo minore comporta un’accelerazione della scarsità?

E’ una delle tante follie del modo di produzione capitalistico, attento al “valore di scambio” e non a quello “d’uso”. Per cui va a sbattere contro i limiti delle risorse naturali non riproducibili. In assenza di una forte domanda, infatti, le compagnie petrolifere rinunciano a cercare di sfruttare nuovi giacimenti. Anche perché quel greggio che è rimasto “recuperabile” giace, è il caso di dirlo, a grandi profondità. Sotto terra o in fondo al mare.

E avviare una produzione industriale in quelle condizioni costa molto. Dunque ci si decide a perforare solo quando la domanda è tale da spingere in alto i prezzi del petrolio. E’ in fondo l’identica dinamica che ha fatto dello shale oilestratto “macinando e lavando” quantità mostruose di sabbia e roccia bituminose – una risorsa pericolosa sul piano finanziario (altissimo indebitamento sui mercati, bassa o nulla redditività, fallimenti facili).

Rystad avverte che la bassa domanda di greggio (e i bassi prezzi) sta mettendo un freno agli sforzi di esplorazione nelle aree offshore più remote e, di conseguenza, riducendo il petrolio recuperabile nel mondo di circa 282 miliardi di barili.

Sembrano tantissimi, ma equivalgono a circa sette anni di consumo globale, ai ritmi del 2016 (100 milioni di barili al giorno). Ossia intorno ai 3-4 anni, relativamente al “picco” (metà della produzione possibile).

Lo studio di Rystad chiarisce perfettamente la differenza tra “petrolio facile” (molto vicino alla superficie, con bassi costi di estrazione) e giacimenti “estremi”. I Paesi produttori con grandi disponibilità del primo hanno subito relativamente poco la crisi della domanda da coronavirus, mentre quelli dove i costi di estrazione sono più alti, per ragioni fisiche, stanno veramente soffrendo.

Vediamo com’è la situazione.

Dei circa 282 miliardi di barili di greggio “esistente ma non remunerativo da recuperare”, il 42% si trova in territorio OPEC, mentre il restante 58% si trova al di fuori dell’alleanza. Significa che i primi hanno risorse più semplici da sfruttare, quindi sono molto più “resilienti” rispetto alla crisi in atto.

Mentre Stati Uniti e Russia (i primi per lo shale oil, la seconda per il greggio dell’Artico e siberiano) se la stanno passando assai peggio.

Il continente americano in genere paga dazio, con riduzione delle “riserve disponibili” altissime per Stati Uniti, Canada, Messico e Brasile. Ma anche il Venezuela vede ridimensionato un patrimonio petrolifero comunque ciclopico.

In Europa, oltre la Russia, il maggior produttore è la Norvegia, che però contava molto sui giacimenti del mare di Barents, rivelatisi però molto meno promettenti e sicuramente costosi da sfruttare. Si capisce perciò l’attenzione di Rystad…

Alla fin fine, esce fuori che l’accordo Opec Plus è stato vantaggioso soprattutto per l’Arabia Saudita (che ha ancora il petrolio meno costoso da sfruttare, al pari di Libia, Iraq, Kuwait e Iran, che però sono sempre oggetto di guerra a aperta o di sanzioni penalizzanti).

Per chiudere, due parole sul “picco”, che è argomento controverso solo per il rifiuto degli analisti economici di accettare che esistano limiti naturali. Sul piano decisivo, che è quello fisico, non c’è alcun dubbio: il petrolio disponibile non “ricresce”. Le incertezze riguardano il calcolo di quanto ne sia mai esistito sul pianeta, quanto ne sia stato consumato finora e dunque quanto ce ne sia ancora prima si cominciare a vedere la produzione scendere per motivi fisici.

Le “riserve accertate”, per esempio, dipendono da “autocertificazioni” dei Paesi produttori. Quelli dell’Opec suddividono le rispettive quote produttive annuali in base al dato sulle riserve “accertate”. E spesso si visto questo dato levitare senza che fosse stato annunciato il ritrovamento di nuovi giacimenti di grandi dimensioni per poter ottenere revisioni al rialzo delle quote…

I consumi prima del 1950 sono segnalati più con “stime” che con dati, perché le statistiche su questo terreno sono state sviluppate successivamente.

Le iniziali previsioni dei geofisici segnalavano la possibilità del “picco” nei primi anni del nuovo millennio, ma prendevano in considerazione solo il greggio convenzionale, ossia liquido. Gli analisti economici hanno poi ironizzato sul fatto che non si è verificato, sui mercati, ma solo perché a quei livelli di prezzo (147 dollari al barile, nell’agosto del 2007) diventava finalmente conveniente estrarre lo shale oil e altre fonti “non convenzionali” (grandi profondità marine, ecc).

Lo shale ha però diversi difetti, oltre gli alti costi: bassa vita media dei giacimenti, altissimi danni ambientali (qualcuno addebita alla tecnica del fracking anche alcuni terremoti in aree non sismiche), altissimo rischio finanziario, ecc.

L’irruzione delle “risorse non convenzionali” sul mercato ha comunque fatto crescere la quantità delle “riserve accertate e sfruttabili”, allontanando – ma non cancellando – la data del “picco”. Che ora, anche secondo Rystad, torna ad essere davvero vicina.

Non si può dire che il capitalismo si sia fatto mancare niente. Oltre ai limiti “storici” al suo sviluppo (con il lavoro e la rendita fondiaria, poi anche con la finanza speculativa), sta incontrando in questo periodo anche quelli climatici, ambientali, sanitari ed energetici.

Ma non riesce a cambiare logica.

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3 Commenti


  • Marco

    Ottimo articolo, tutto verissimo.

    Ma l’ equilibrio del mercato petrolifero era già saltato prima del coronavirus per eccesso di offerta, le sanzioni USA, imposte al mondo intero, contro l” IRAN non sono riuscite a rimetterlo in piedi. Le spese per le ricerche di nuovo petrolio sono crollate da almeno due -tre anni e le contestazioni ambientaliste contro le energie fossili colpiscono gli investimenti nelle multinazionali petrolifere, che sono le imprese più grandi del mercato azionario. Insomma era un bel casino anche senza coronavirus, oggi il crollo della produzione ha forse dato il colpo di grazia. la produzione petrolifera mondiale potrebbe avere toccato il suo picco nel 2019 !!!!!!!! Questa eventualità è molto probabile !!!!!


  • Francesco Inchingolo

    Una ottima analisi che va controcorrente, ormai ci stiamo abituando ai giornalisti allineati al pensiero ricorrente, per cui sempre meno giornalisti fanno inchieste approfondite per non rischiare di diventare una voce fuori dal coro. E sempre più spesso non si guarda oltre il proprio naso perdendo di vista una prospettiva di medio lungo termine che dovrebbe essere il farò delle decisioni politiche, che invece affannate a gestire il quotidiano hanno completamente perso la visione.


  • Antonio

    Petrolio carbone e gas sono al capolinea. Il costo marginale delle rinnovabili è inferiore a quello delle fonti fossili per cui non ha più senso tenere in rete impianti super inquinanti e fuori mercato.. Il presente e il futuro sono fonti pulite nelle varie configurazioni e idrogeno pulito per tecnologie a celle a combustibile. La ricerca continua in questi 2 settori sta’ portando ad elevate efficienze e abbattimento dei costi prima inimmaginabili. La vera rivoluzione è nell’ impiego dell’ idrogeno pulito nel settore dei trasporti a celle a combustibile FC e poi in vari settori industriali e arriverà anche alle caldaie di casa. Questo permetterà di salvaguardare ambiente e clima che sono le 2 grandi sfide per l’ umanità. La presidente della commissione europea nella presentazione del piano next generation ha posto l’ economia dell’idrogeno pulito come una delle gambe per la transizione energetica. L’ idrogeno può essere prodotto nelle regioni del sud Italia con impianti fotovoltaici posti su aree dismesse e distribuito in tutto il paese usando il gasdotto Snam. Anche l’ eolico può essere utilizzato in particolare nelle ore di punta. Ci liberiamo dalla schiavitù delle importazioni delle fossili e i fondi della bolletta energetica potranno essere utilizzati per progetti ecosostenibili. L’ altra sfida e’ quello dell’ inquinamento che nel nostro paese causa ogni anno 80.000 decessi ed enormi costi ambientali e sanitari. Ho conseguito la laurea in ing. meccanica a Pisa nel 1982 con una tesi su idrogeno e rinnovabili in collaborazione con Enel. Vorrei ricordare il relatore l’esimio prof. Dino Dini che aveva lavorato al Jet Propultion Laboratory di Pasadena NASA per diversi anni dove di idrogeno e rinnovabili ne aveva visto tante. A Pisa aveva la cattedra di macchine e quella di missilistica. Saluti Antonio Saullo

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