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Airbus annuncia migliaia di licenziamenti, nonostante gli aiuti di stato

Il gruppo Airbus, gigante europeo dell’aeronautica, annuncia la soppressione di circa 15.000 posti di lavoro da qui ad un anno. Una ristrutturazione massiccia, a seguito della forte riduzione di comande di aeromobili determinata da e aumentata durante la pandemia da Covid-19. “Si prevede che la produzione e le consegne degli aerei resteranno il 40% al di sotto del piano”, ha affermato Guillaume Fairy, amministratore delegato di Airbus, che conta nel complesso 135mila dipendenti, di cui 81mila nel settore degli aerei commerciali. 

Il piano presentato martedì 30 giugno è incentrato sulla necessità di “adattare gli effettivi a seguito della crisi”, il che apre la porta a futuri licenziamenti di massa: 5.000 posti in meno in Francia dove il gruppo conta 49mila dipendenti in totale, 5.100 in Germania (45.500 dipendenti) e 1.700 nel Regno Unito (11mila dipendenti). Le riduzioni di posti di lavoro riguarderebbero quindi più del 10% dell’organico totale. 

Si prevede che questi tagli di posti di lavoro interesseranno quasi esclusivamente il ramo dell’aviazione commerciale del gruppo Airbus – presente anche nel settore della difesa, dello spazio e degli elicotteri – nonché diverse filiali come la francese Stelia Aerospace e la tedesca Premium Aerotec. 

Per quanto riguarda il lato francese, il piano shock e devastante da parte di Airbus ha generato la rabbia di numerosi sindacati, soprattutto perché questo arriva dopo l’annuncio del piano da 15 miliardi di euro adottato dal governo francese per sostenere il settore aeronautico. Finanziamenti concessi senza alcuna contropartita o garanzia, né a tutela dei posti di lavoro né in termini di impatto ambientale e sociale.

Secondo Jean-Baptiste Djebbari, Segretario di Stato ai Trasporti, si lancia in congetture ed ipotesi poco realistiche pur di indorare la pillola, affermando che “se si mette in campo il meccanismo dell’attività parziale si potrebbero salvare 1.500 posti di lavoro“. Un’idea che però non è presa in conto dal gruppo Airbus, il quale spera di ridurre i suoi effettivi non solo tramite licenziamenti, ma anche con partenze “volontarie” e misure di pre-pensionamento. Immancabile, come sempre, l’ipocrita “pennellata di verde” quando Djebbari afferma su non si bene quale programma che “investendo nei velivoli di domani, la nuova generazione di aerei verdi a basse emissioni di carbonio, 500 posti di lavoro sarebbero mantenuti”. 

Eppure, a gennaio, Airbus rappresentava il fiore all’occhiello dell’industria europea, tanto da diventare il numero uno dell’aeronautica, davanti alla statunitense Boeing. É possibile evidenziare numerose motivazioni legate a fattori esterni e responsabilità nella gestione aziendale che hanno portato il gruppo Airbus a questo punto.

Innanzitutto, l’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, con il contestuale sconfinamento di gran parte della popolazione e la chiusura delle frontiere, che hanno determinato una significativa riduzione della produzione. Di fronte al calo del traffico aereo (circa il 70-90% degli aerei in Europa non ha potuto decollare per diverse settimane) e alla mancanza di liquidità, le compagnie aeree si sono trovate in difficoltà finanziarie, sospendendo immediatamente l’acquisto di nuovi aeromobili oppure chiedendo il rinvio delle consegne. Di conseguenza, Airbus non ha ricevuto alcun ordine per il mese di aprile e nel primo trimestre iha consegnato 40 velivoli in meno rispetto all’anno scorso.

Il 29 aprile, Airbus ha annunciato una perdita netta di 481 milioni di euro nel primo trimestre, contro un utile netto di 40 milioni di euro dell’anno precedente. E le cattive notizie non finiscono qui: il ritorno al traffico aereo ai livelli del 2019 non è previsto prima del 2023 o addirittura del 2025. La riduzione della produzione è l’unica possibilità di sopravvivenza, poiché le misure di lavoro a orario ridotto finora adottate non sono state sufficienti ad attenuare le pesanti conseguenze economiche negative.

Tale situazione di crisi ha richiesto anche una revisione strutturale dei piani di produzione aziendale, con la mancata scommessa sull’A380. Inizialmente previsto per il 2022, il pensionamento anticipato di questo aereo è stato effettuato con l’ultimo volo del 26 giugno 2020. Simbolo del progresso tecnologico, l’avventura iniziata dieci anni fa si è conclusa con un fallimento commerciale: questo aereo trasportava l’equivalente passeggeri di due aerei su due ponti, ma non vendeva più a causa del consumo dispendioso in termini di carburante e della sua grandezza eccessiva per atterrare in tutti gli aeroporti.   

Quando aveva lanciato il progetto A380, Airbus aveva erroneamente puntato sullo sviluppo degli hub delle megalopoli, serviti da un velivolo di grandissima capacità, ma che al tempo stesso richiede il più alto fattore di carico possibile per garantire la redditività delle rotte. Una scommessa fallita per il costruttore europeo in un mercato di aerei di grandi dimensioni già in sovracapacità prima della crisi. 

Oltre alla branca dell’aviazione commerciale, la crisi si è estesa alle attività spaziali e di difesa, come già detto. La gestione di Airbus Defence and Space ha registrato una perdita operativa di 881 milioni di euro nel 2019, con una riduzione del 9% rispetto al 2018.  La divisione Defence and Space aveva già annunciato a febbraio un piano di ristrutturazione che prevedeva 2.665 posti di lavoro in meno, ai quali si sono aggiunti altri 300 tagli annunciati a giugno.

Il gruppo sta pagando per il fallimento dell’aereo militare A400M, ritenuto dal giornale Les Echos un gioiello costoso “così sofisticato che non si vende nell’esportazione”. Nonostante il grande sostegno promesso e garantito dalle autorità pubbliche per le attività militari e spaziali, la quota di fatturato generato nel settore della difesa di Airbus rappresenta oggi solo il 15% del business del gruppo, contro il 30% di dieci anni fa.

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