Dopo quasi 2 anni di trattative e concertazioni, la riforma della PAC (Politica Agricola Comune) con i suoi 358 miliardi di euro (circa un terzo del bilancio europeo) è stata approvata dall’eurocamera ed è pronta a passare quindi all’approvazione della Commissione e del Parlamento, il prossimo anno, per entrare in vigore nel 2023.
Dopo 2 anni di discussioni e scontri tra chi sosteneva una politica redistributiva ecologista e chi invece pensava a finalizzare i fondi europei all’arricchimento dei grandi latifondi, la vittoria va invece alle lobbies dell’agrobusiness, e decreta la morte di ogni velleità (se mai è esistita) della “politica verde” dell’Unione Europea.
Si passa da una logica di centralizzazione comunitaria (come è la PAC attuale) alla “centralità degli Stati” che, nella logica neoliberale europea, significa lo sdoganamento della competitività interna: ogni Stato infatti dovrà presentare un Piano strategico Nazionale (un po’ come per il Recovery Fund), per poter vincere la propria quota di budget.
Questo, facile previsione, porterà ad uno squilibrio ancora maggiore di quanto già non fosse con la PAC attuale tra i settori agricoli dei diversi Stati Membri, con Paesi in cui l’agricoltura è destinata a sparire e altri in cui è destinata a sfornare esclusivamente prodotti con valore di mercato elevato.
Di questi fondi, ogni Stato destinerà circa il 60% ad aiuti diretti (ossia dati a tutti gli agricoltori in base alla superficie aziendale, sempre nella logica del chi ha di più riceve di più), mentre solo il 6% sarà destinato alle piccole imprese (la stragrande maggioranza delle aziende agricole).
Se qualcosa di buono aveva la PAC attuale, era quella di vincolare tutti gli aiuti al rispetto delle “condizionalità” riguardanti il rispetto delle normative in campo agro-ambientale e del benessere animale. Non che questo bastasse, anzi, ma per lo meno imponeva alcuni tetti massimi di inquinamento consentiti. Con la prossima PAC questi vincoli verranno cancellati, e gli aiuti saranno concessi solo in base al criterio della produttività (in base ai “risultati raggiunti”).
Viene praticamente eliminata ogni condizionalità di stampo ecologista e di conservazione della biodiversità. Non verranno più incentivati quegli agricoltori che manutengono le aree protette o le aree naturali (i siti Natura 2000), ma anzi: questi potranno liberamente arare e coltivare qualsiasi superficie, senza alcun vincolo di tutela dell’ecosistema.
La strategia dell’Unione Europea – alla faccia del Green New Deal – è quella di massimizzare la biodiversità in poche aree selezionate, e sdoganare la produzione intensiva praticamente ovunque.
L’unico incentivo “ecologista” riguarda l’agricoltura di precisione che, se ben utilizzato, permette di razionalizzare l’uso delle risorse, di fitofarmaci ecc., ma i cui costi di gestione sono attualmente esorbitanti, e dunque destinato quasi unicamente alle grandi aziende che si possono permettere l’investimento.
Via libera anche agli allevamenti intensivi. Alla faccia del tanto pubblicizzato “benessere animale”, viene eliminato il tetto massimo alla densità di animali per ettaro.
E per quanto riguarda l’impatto dell’agricoltura sul clima, l’unica misura sarà quella di aumentare i fondi per la gestione delle emergenze.
E’ in buona sostanza un ritorno al ‘900, con una concezione dell’agricoltura totalmente slegato dall’ambiente, che nega l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente e sulle emissioni di gas serra, e che sostiene il settore solo sulla base di criteri economici.
In tutto ciò, la soddisfazione espressa dalla ministra Bellanova, Cia-Agricoltori italiani e Confagricoltura, conferma che si tratta di una “riforma positiva” per il business, che mette l’Italia di fronte ad una ulteriore elitarizzazione del settore agricolo, se vorrà competere con gli altri Stati Europei.
Per i movimenti ambientalisti, come evidente, si tratta della morte della politica verde europea e del Green New Deal.
Di sicuro, questa riforma manifesta in modo sfacciatamente palese, la faccia vera dell’UE, incapace di prendere qualsiasi scelta radicale a sostegno dei più deboli, siano essi settori sociali, animali o ambientali.
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