Sono giorni di nomine per il Governo Draghi che, solo da qualche ora, ha varato la lista dei sottosegretari. Nel frattempo, la luna di miele con la stampa continua, con importanti testate che rasentano il limite dell’onanismo: si passa dai pettegolezzi del macellaio di Draghi, che ce lo presenta come l’umile uomo a cui piace addirittura cucinare il brasato, a chi ci racconta dell’aplomb dell’ex presidente della BCE mentre gioca a golf. Se non di lotta e di governo, dunque, quanto meno un po’ come il popolo e un po’ come le élite. A dispetto del chiacchiericcio però, non si ha che qualche indiscrezione su ciò che concretamente questo Governo si impegnerà a fare. Ne è stato un esempio il vago discorso di presentazione alle Camere, che tuttavia ha destato scalpore per il clamoroso copia e incolla effettuato da un articolo sul fisco dell’economista Francesco Giavazzi. Lungi dall’essere vittima di un grottesco episodio di plagio, tuttavia, il noto esponente bocconiano è stato appena nominato consigliere economico del primo ministro Mario Draghi. Una prestigiosa ricompensa per lui, una preoccupante Cassandra sui tempi che ci aspettano per tutti noi.
Ma chi è Francesco Giavazzi? Professore di economia politica presso la Bocconi, editorialista del Corriere della Sera, è autore di diversi contributi di carattere scientifico e divulgativo che hanno avuto lo scopo di sostenere l’efficacia economica delle politiche di austerità. A partire dall’inizio degli anni ‘90, Giavazzi – insieme ad un nutrito gruppo di Bocconi Boys and Girls – quali Silvia Ardagna, Alberto Alesina, Roberto Perotti, Carlo Favero e Guido Tabellini – hanno avanzato quella che nella letteratura economica è nota come la teoria della austerità espansiva. Un legame così forte con questa teoria, da aver attirato anche l’attenzione di un noto economista liberal quale Paul Krugman, il quale ha additato proprio i bocconiani come i ‘mandanti’ dell’applicazione delle politiche dei tagli alla spesa pubblica che hanno caratterizzato la risposta europea alla Grande recessione. In accordo con la tesi dell’austerità espansiva, ci sarebbe da attendersi che politiche fiscali restrittive, vale a dire tagli alla spesa o aumenti delle tasse, abbiano effetti positivi sulla crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) e dell’occupazione e contribuiscano a ridurre il rapporto debito/PIL. Al pari dei famigerati Chicago Boys, dunque, anche costoro sono impegnati a trovare le giuste argomentazioni per favorire una riduzione progressiva del ruolo dello Stato in economia in ottemperanza all’ideologia liberista più retriva.
Secondo i Bocconi Boys and Girls, l’effetto espansivo delle politiche di austerità deriverebbe da vari fattori quali un aumento delle esportazioni, degli investimenti e dei consumi privati. In sostanza, si sostiene che l’intervento in economia dello Stato sia un problema in quanto sostituirebbe (in termini tecnici spiazzerebbe) l’iniziativa e dunque la spesa privata. Ogni aumento di spesa pubblica, dunque, provocando una diminuzione più che proporzionale della spesa privata, determinerebbe una caduta del PIL.
Come detto, in risposta alla crisi del 2008 e a quella sui debiti sovrani, molti dei governi europei attuarono le ricette di politica economica propugnate dagli economisti bocconiani. L’Italia tra questi fu esemplare: a partire dal 2010 e in particolare dall’insediamento del Governo Monti tagliò la spesa e i consumi pubblici rispettivamente del 12% e dell’8% nel periodo 2010-2015. Tra il 2010-2017, inoltre, gli investimenti pubblici subirono uno spaventoso taglio del 50%. L’implementazione di queste politiche non ha portato, come è ormai evidente agli occhi di tutti, persino di economisti mainstream, agli effetti sperati o per meglio dire sognati dagli studiosi che le avevano teorizzate. Il PIL italiano è continuato a stagnare, l’occupazione non ha visto alcuna ripresa e il tasso di disoccupazione si è sempre attestato nell’ultimo decennio su valori vicino alla doppia cifra. Come se non bastasse, il rapporto debito/PIL, lo spauracchio di ogni liberista, lungi dal diminuire è addirittura aumentato, passando da un valore del 116% nel 2009 ad uno prossimo al 135% nel 2018.
Si potrebbe pensare che le ricette lacrime e sangue – criticate ampiamente da una larga parte della letteratura scientifica (di stampo liberista e non certo bolscevica) – siano un affare del passato e che magari anche Giavazzi si sia adeguato allo spirito del tempo, facendo un mea culpa e riscoprendo le virtù delle politiche fiscali espansive. È purtroppo questa una tesi che inizia ad aleggiare anche tra i media più famosi seguendo il refrain tanto nuovo quanto stanco del “non sono qui per tagliare ma per far crescere l’economia”. La Repubblica, ad esempio, si è già prodigata a dimostrare come sia in atto, da parte di Giavazzi e Monti, un cambio di paradigma: non più la rincorsa affannata al rispetto dei parametri su deficit e debito, ma l’obiettivo della crescita. La crescita come un’ossessione sfruttando l’occasione storica e irripetibile delle risorse del Next Generation Eu.
Ma è davvero così? E Giavazzi è davvero uno dei vari convertiti sulla via di Damasco alle politiche keynesiane? La risposta è presto fornita: No! In un recente libro del 2019, intitolato “Austerità. Quando funziona e quando no”, Giavazzi e alcuni dei suoi sodali bocconiani di cui sopra, hanno argomentano che le politiche di austerità potrebbero non aver funzionato nel rilanciare la crescita perché i governi le avrebbero implementate male. Tali politiche, infatti, possono essere condotte in due modi: o tagliando la spesa pubblica o aumentando le tasse. Secondo gli autori, mentre i tagli della spesa sarebbero associati ad effetti nulli o addirittura – in certi casi – positivi sul PIL e sull’attività economica, aumenti delle tasse condurrebbero solamente a profonde e permanenti recessioni economiche.
Di conseguenza, le politiche di austerità efficaci nel rilanciare la crescita economica sarebbero quelle che tagliano le spese del governo ma che non aumentino le tasse, soprattutto alle imprese. Oltre alla smentita empirica di questa tesi, legata alla letteratura che dimostra come aumenti della spesa siano più efficaci di riduzioni delle tasse (e quindi che tagli della spesa abbiano effetti peggiori degli aumenti delle tasse); emerge l’ingombrante portato classista di questa posizione ideologica.
Se da un lato si negano gli effetti devastanti sul piano sociale e distributivo delle politiche di tagli alla spesa pubblica (che vogliono dire, ad esempio, tagli alla sanità, alla scuola pubblica o aumento dell’età pensionabile), dall’altro si propone un maquillage della tassazione che favorisca le imprese, nella ormai ben nota ed anch’essa smentita vulgata, che vuole una riduzione dei costi associata ad aumenti degli investimenti delle imprese e quindi dell’occupazione. Come se non bastasse, e veniamo in maniera preoccupante ad una questione di attualità, nel libro di Giavazzi si sostiene che la fiducia negli effetti espansivi dell’austerità debba essere maggiore nei casi di rapidi aumenti del debito pubblico, una condizione questa alla quale stiamo assistendo in questo drammatico periodo.
Tale fiducia, ora che l’artefice riveste un ruolo di primo piano tra coloro che determinano gli andamenti della politica economia dell’Italia, suona in maniera preoccupante come un funesto presagio. Ancor prima, infatti, che i primi provvedimenti del Governo prendano forma, le personalità di cui il Presidente del Consiglio si sta circondando confermano che la natura di quest’ultimo esecutivo non è diversa da quella dei governi tecnici che l’hanno preceduto. Siamo di fronte, cioè, ad un Governo con una trazione di destra e liberista evidente, che prepara l’attacco allo Stato e al lavoro, come nella migliore tradizione dei governi tecnici.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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