Menu

La catena del valore che imprigiona gli operai e le nostre vite

Oggi a Bologna si svolge l’assemblea nazionale operaia dell’Usb “Dalla catena di montaggio alla catena del valore”. Pubblichiamo un contributo di Luciano Vasapollo, economista e militante proprio sulla struttura della catena del valore attraversa cui il capitalismo punta  imprigionare le persone e i popoli.

********

L’attività commerciale multinazionale dà luogo a una diversità di configurazioni geografiche delle catene del valore.
La questione della disparità del livello di tecnologia nelle diverse economie, che si applicano nei sistemi produttivi, è stata definita come una condizione essenziale delle conseguenti differenze nei livelli salariali, soprattutto a causa della difficoltà di riprodurre identiche condizioni tecniche negli Stati.

L’ovvia conseguenza di tali differenziazioni è rappresentata dall’autonomizzazione e compartimentazione dei “mercati autonomi della forza lavoro”. Da questa condizione di netta separazione, saranno maggiormente danneggiati i paesi che presentano forme di produzione anteriori a quelle capitalistiche, ovviamente caratterizzate da livelli di tecnologia applicata sicuramente più arretrati e modesti rispetto ai sistemi capitalistici maturi.

Di conseguenza operano contemporaneamente due modalità contraddittorie: la prima, basata sull’aumento delle competenze e della versatilità degli operatori di linea; la seconda, basata sulla banalizzazione di quelle stesse abilità, lasciando la versatilità in un operatore comune e generico che può essere schierato in qualsiasi parte del mondo.

Il trasferimento delle attività può o meno comportare l’esternalizzazione dell’attività trasferita. La distinzione in sé può creare confusione e non è raro che l’attività di delocalizzazione coinvolga la comproprietà tra il produttore nazionale originario e un partner nel paese ospitante l’investimento. Dal punto di vista dei dipendenti, la distinzione potrebbe non essere rilevante.

Questa diversità di strategie in relazione allo “zoccolo duro” dell’attività imprenditoriale multinazionale dà origine a una diversità di configurazioni geografiche delle catene del valore, guidate da tendenze diverse, come l’integrazione (organizzata su scale geografiche più ampie, i fornitori producono comunque vicino a suoi principali clienti nel sistema produttivo internazionale), o la tendenza al rinvio (produzione il più vicino possibile al punto vendita per ridurre i costi di trasporto) o, al contrario, alla dispersione (di servizi e funzioni di supporto nella catena del valore globale: marketing, servizio clienti, contabilità, ecc.).

Una catena del valore descrive il modo in cui un’azienda organizza e svolge attività che aggiungono valore ai beni e servizi che produce e vende.
La crescente complessità della produzione di massa, l’accentramento del capitale e la sua concentrazione hanno portato ad una internalizzazione delle attività del processo produttivo, includendo, in molti casi, all’interno della distribuzione del ciclo produttivo dell’azienda e anche delle attività di vendita. A partire dagli anni ’70 si è registrata una progressiva perdita di peso nei costi totali del processo lavorativo, direttamente collegata alla produzione di nuovi valori d’uso.

Le tecniche di scomposizione di attività complesse sono state applicate negli anni ’80 per subappaltare compiti con un rapporto costi/benefici inferiore. In questo modo sono state individuate due tipologie di attività: attività verticalmente integrate (logistica interna, ad esempio individuazione delle sedi di nuovi stabilimenti produttivi), operations (linea di montaggio), logistica esterna (movimento dei prodotti), marketing (pubblicità e vendite) e servizi post-vendita.

Da parte loro, le attività integrate orizzontalmente comprendono la gestione delle risorse umane, la ricerca e sviluppo, gli acquisti, la finanza aziendale, la contabilità e altre funzioni di gestione.

Queste attività integrate nella catena del valore possono essere collegate in modi diversi, a seconda dell’importanza relativa che hanno, nell’uno o nell’altro tipo di attività. Lo scopo delle nuove attività offshore è definire le attività di base dell’attività che devono essere integrate nella società e i collegamenti offshore e interterritoriali più appropriati per minimizzare i costi e massimizzare i profitti.

La presenza di catene globali del valore rende difficile misurare il trasferimento internazionale di plusvalore.
Sebbene il grado in cui le esportazioni sono utilizzate da altri paesi per le esportazioni successive può sembrare meno rilevante per i responsabili politici, poiché il contributo del valore aggiunto interno al commercio non cambia, il tasso di partecipazione è comunque un utile indicatore della misura in cui il valore di un paese le esportazioni sono integrate nelle reti produttive internazionali e utili per esplorare il legame tra commercio e investimenti.

La presenza di catene del valore globali rende difficile misurare il trasferimento internazionale di plusvalore, e quando vengono individuate differiscono dal grado di sfruttamento della forza lavoro multinazionale integrata in una catena del valore globale.

La sua attuale importanza è indiscutibile: l’UNCTAD stima che circa l’80% del commercio mondiale (in termini di esportazioni lorde) sia legato alle reti internazionali di produzione di TNC, sia nel commercio interno che nei meccanismi nazionali di esportazione (inclusi, tra cui produzione conto terzi, licenze e franchising) e attirando transazioni a condizioni di mercato che coinvolgano almeno una multinazionale (UNCTAD, World Investment Report 2013 p. 135).

L’interterritorialità dei processi produttivi pone alcuni problemi contabili. Le esportazioni misurate nella bilancia dei pagamenti includono il valore aggiunto interno, cioè la parte delle esportazioni create nel paese che contribuisce al PIL. La somma del valore aggiunto estero e interno è pari alle esportazioni lorde.

Ma il valore aggiunto esterno deve essere rappresentato anche come percentuale delle esportazioni, poiché indica che parte delle esportazioni di un paese sono input prodotti in altri paesi. È la parte delle esportazioni nazionali che non si somma al PIL.

Questa variabile è correlata ad una letteratura attiva sulla misurazione della specializzazione verticale e il primo indicatore calcolato è il valore degli input importati nel totale delle esportazioni (lorde) di un paese. Il perfezionamento di questo indicatore di specializzazione verticale corregge il fatto che il valore delle importazioni (lorde) utilizzato dal paese A per produrre esportazioni (come ricavato dalle tabelle IO “standard”) potrebbe effettivamente incorporare il valore aggiunto nazionale del paese A che è stato utilizzato come input per paese B, da cui viene poi fornito il paese A, consentendo allo stesso tempo che il valore aggiunto estero del paese B incorpori il calcolo degli input del paese A.

L’esistenza di catene globali rende la prospettiva delle imprese, che è quella del business internazionale, incompatibile con la prospettiva dello sviluppo nazionale, che deriva dalla logica economica.

Nel caso delle aziende, le GVC (Global Value Chains) sono definite da filiere frammentate, con attività disperse a livello internazionale e attività coordinate da un’azienda leader (una multinazionale). Ma dal punto di vista nazionale, le GVC spiegano come le esportazioni possono incorporare input importati, cioè come le esportazioni incorporano il valore aggiunto prodotto nel Paese e all’estero. Per le imprese, investimento e commercio sono forme complementari, ma alternative, di azione internazionale, ovvero un’impresa può accedere a mercati o risorse esterne attraverso la costituzione di una filiale o attraverso il commercio.

La ricerca scientifica è spesso diventata appannaggio di un unico interesse dominante, quello del profitto e dell’espansionismo imperialista.

Le problematiche legate alle trasformazioni produttive con le nuove catene globali del valore (GVC), sollevano anche una riflessione sul ruolo di intellettuali, ricercatori, uomini di scienza nel mondo contemporaneo e sulle loro responsabilità nelle produzioni di alta tecnologia applicata alla guerra,ed anche sull’uso militare della tecnologia sociale.
L’accelerazione di un nuovo movimento guerrafondaio, iniziato negli anni ’90, con la Guerra del Golfo, e culminato nella guerra contro la Jugoslavia. Nonostante il graduale aumento della centralità e del peso degli intellettuali, conquistati per tutto il Novecento.

La storia del pensiero intellettuale pacifista è stata suddivisa in tre parti: pace negativa, intesa come condizione dell’assenza di guerra; pace positiva, intesa non come presenza di guerra ma di violenza, intesa in modo strutturale; la pace, intesa come nonviolenza, che rappresenta la trasformazione dei conflitti su una scala diversa ripudiando l’uso della violenza.

Nella definizione di questi scenari, la scienza assume un nuovo ruolo: superando la rigida separazione tra scienza e tecnologia, l’intreccio sempre più organico che rappresenta una nuova frontiera della teoria e della prassi scientifica, non più relegata ai suoi limiti.Le tradizioni tradizionali, anche fisiche, come come quelle dei laboratori pubblici, si sono plasmate, anche attraverso il neologismo della tecnoscienza, ma sposando invece la via militare con il “progresso” scientifico.
La ricerca scientifica è diventata spesso appannaggio di un unico interesse dominante, quello del profitto e dell’espansionismo imperialista; l’etica, intesa come mera neutralità degli scienziati, ha già finito per cancellarsi.

Nessuna ricerca, infine, è stata svolta sul funzionamento stesso della scienza, sul metodo, che soprattutto in questo caso, coincide con gli obiettivi perseguiti.
In questo contesto, il ruolo dell’informazione ha conosciuto anche un carattere pionieristico per aprire la strada a un clima e a una situazione concreta: dal giornalismo di guerra, attraverso la macchina della disinformazione, il privilegio della suggestione, l’estetica della violenza, il primato della brutalità sulla costruzione di una vera pedagogia, e ha evidenziato la necessità di una natura diametralmente opposta a quella dominata, di un’autoinformazione attiva, non facile da realizzare a livello popolare generalizzato e massiccio.

Questo tipo di informazioni si basa su un’estrema semplificazione, sulla decostruzione della complessità, delle componenti e delle ragioni dei conflitti.

In questo eterno presente in cui si narrano i conflitti, non c’è sfondo storico né prospettiva a lungo termine.
Per quanto riguarda gli effetti distruttivi, in tutti i sensi, dell’uso, ad esempio, di armi chimiche programmate razionalmente, che implicano la contaminazione del territorio, gli effetti mutageni hanno provocato, solo in Jugoslavia, danni che si subiscono da più generazioni, tutti ispirandosi al modello di ecocidi già sperimentato in Indocina e Iraq.
Reti di biomonitoraggio per valutazioni di rischio territoriale, una comunità più evoluta e non indifferente a questi effetti disastrosi, per prevenire i sistemi di controllo della rete monitorando indicatori ecologici e biologici.

 

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *