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L’Italia ai tempi del Recovery Plan. V. Giacché

Spesso nelle analisi degli ultimi anni si è insistito sul venir meno delle prerogative statuali, la diffusione della pandemia ha determinato un prepotente ritorno dello Stato nei processi regolativi, nella gestione economica, nel sostegno ai redditi. Pensate che questo possa essere un lascito duraturo della pandemia? Se nel dopoguerra prese la forma di Stato sociale e modernizzatore dell’economia e, con l’avvento del paradigma neoliberista, il suo ruolo viene via via ridimensionato a «salvatore d’ultima istanza» di banche e imprese in difficoltà (almeno in Europa e negli States), in che modalità esso si ripresenta oggi?

VG: Come ho sottolineato in un testo recente [1], negli ultimi decenni uno dei pilastri ideologici della prassi politica e dell’evoluzione del quadro normativo in Occidente è stato rappresentato dalla filosofia della storia che considerava come un processo ineluttabile e progressivo il ruolo sempre più residuale dello Stato e del settore pubblico.

Lo stesso ruolo di «salvatore di ultima istanza» di banche e imprese in difficoltà di cui si parla nella domanda rappresenta una «acquisizione» della (cosiddetta) crisi finanziaria del 2008 e 2009, allorché soltanto una socializzazione delle perdite di dimensioni mai viste prima su scala mondiale, accompagnata da massicce iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali, impedì il collasso del sistema finanziario internazionale e il riproporsi di scenari da anni Trenta.

Questo era già una sconfessione dell’ideologia neoliberale, e infatti gli indugi in proposito vennero meno soltanto dopo i risultati catastrofici del mancato salvataggio di Lehman Brothers, motivato con la necessità che «il mercato» dovesse «pensare a se stesso» (come ebbe a dire l’allora sottosegretario al Tesoro Usa Timothy Geithner).

Vi fu poi addirittura una fase, tra fine 2008 e inizio 2009, in cui si parlò si «crisi di legittimazione del capitalismo». Questa fase si chiuse però non appena – tra marzo e giugno 2009 – i mercati finanziari invertirono la fase discendente e si poté pensare di tornare al business as usual.

Vi si tornò in un mare di liquidità immessa nel sistema dalle banche centrali, una crescita sostenuta del debito pubblico (in cui erano state convertite larghe quote del debito privato, secondo i più classici schemi di socializzazione delle perdite), e un debito privato che solo temporaneamente vide un calo, per riprendere vigore nell’espansione drogata dalle banche centrali degli anni successivi.

Lascito della crisi sul piano ideologico fu comunque la convinzione che allo Stato il ruolo di «salvatore di ultima istanza» potesse essere lasciato senza troppi danni per il potere economico.

Ipotesi del resto confermata, negli anni seguenti, dalla straordinaria assenza di un’opposizione di massa alle politiche di austerity, non di rado attivamente sostenute dalle stesse banche che avevano appena beneficiato di massicci aiuti di Stato.

Credo che oggi ci troviamo in una fase diversa. Ma preferisco parlare di «ritorno delle istituzioni» che di «ritorno dello Stato». Perché, se è vero che il mito dell’autosufficienza del mercato è venuto meno, non è lo Stato l’istituzione che rappresenta – almeno in Occidente – il principale protagonista di questa fase, quanto quella particolarissima istituzione che è la banca centrale.

Formalmente indipendenti (ma in realtà funzionalmente deputate alla necessità di garantire il regolare funzionamento dei flussi di capitale e di impedire shock del sistema, e quindi legate a doppio filo alle grandi banche e dei maggiori operatori finanziari non bancari, money managers ecc.), prive di accountability democratica, dotate di meccanismi decisionali corrispondentemente opachi, le banche centrali hanno ovunque guidato le iniziative economiche di contrasto alla pandemia.

In qualche caso questo è successo monetizzando più o meno esplicitamente il debito pubblico (Stati Uniti, Giappone e Regno Unito), e laddove – come nell’Eurozona – l’ortodossia lo impedisce, impedendo comunque che le spinte centrifughe diventassero incontrollabili e sostenendo il sistema bancario al fine di tenere aperti canali di finanziamento dell’economia.

Qui abbiamo un primo blocco di problemi: l’analista di Deutsche Bank George Saravelos, nell’aprile 2020, ha paventato che «le banche centrali potrebbero diventare agenti permanenti di un’economia pianificata con il compito di amministrare il costo del capitale e del credito cercando di sottomettere aggressivamente gli shock finanziari», e ritenendo che nel contesto attuale questo in realtà potrebbe avvenire dando vita a «un mondo bipolare di repressione finanziaria, con elevata volatilità dell’economia reale ma volatilità finanziaria molto bassa» [2].

Effettivamente, precisamente questo è avvenuto dallo scoppio della crisi pandemica a oggi: il che, per inciso, ha ulteriormente accentuato la bipolarità economica già insita nei trascorsi decenni di finanziarizzazione [3]. Ma è difficile pensare che la volatilità finanziaria possa restare contenuta all’infinito in un contesto economico di profonda crisi e di grandi squilibri.

Il secondo blocco di problemi riguarda lo Stato: a esso per un verso sono stati attribuiti compiti straordinari (ben più che durante la crisi precedente). D’altra parte, nei paesi occidentali esso è parso in affanno e vulnerato in modo grave dalle politiche neoliberali di erosione nei suoi confronti dei decenni precedenti.

Non so se l’Italia possa essere considerata un caso estremo, in ogni caso da noi gli effetti dell’indebolimento dell’amministrazione pubblica causato da anni di mancati investimenti, blocco decennale del turnover e dall’introduzione dello spoil system sono emersi in tutta la loro gravità.

Non meno grave l’erosione funzionale, i cui effetti perversi abbiamo pienamente visto in opera durante la pandemia, verso il basso in direzione delle Regioni, e verso l’alto in direzione del confuso altrove rappresentato da un’istituzione sovranazionale quale dall’Unione Europea dall’altro. Ad entrambi i riguardi la crisi pandemica ci ha offerto ampie evidenze, se mai ne avessimo avuto bisogno, della disfunzionalità dello svuotamento dello Stato nazionale.

Tralasciando per carità di patria di commentare le performance delle Regioni in tale contesto, va detto che la prova che ha dato di sé l’Unione Europea in questo frangente è stato molto al di sotto delle peggiori aspettative: totale assenza di «solidarietà», intervento efficace da parte della banca centrale non prima che i mercati finanziari del centro Europa fossero a repentaglio (esemplare la sequenza delle due riunioni della Bce il 12 e il 18 marzo 2020), organizzazione di un Recovery Plan (poi orwellianamente ribattezzato Next Generation EU) così tempestiva che la sua partenza non è ancora avvenuta alla data attuale, organizzazione della campagna vaccinale all’insegna non soltanto del sacro rispetto del diritto di proprietà, ma della totale subordinazione negoziale al Big Pharma. Davvero non è chiaro cosa avrebbe potuto andare peggio…

In ogni caso, al di là di un commento minuto dei singoli aspetti di questa debacle, credo che soltanto un rovesciamento deciso dei trend in opera negli ultimi decenni potrà restituire efficacia agli Stati.

E quindi: investimenti in digitalizzazione e formazione, irrobustimento dei ruoli, ridefinizione del sistema delle carriere interne e abolizione dello spoil system, ma soprattutto ricentralizzazione di funzioni essenziali (a cominciare da quelle relative ala Sanità) e recupero di prerogative attribuite all’Unione Europea in contrasto col disposto costituzionale.

L’Unione Europea, per contrastare la crisi sanitaria ed economica, ha partorito il Recovery Plan. Intorno a questo fondo ci sembra si stia costruendo (oltre che una retorica provincialotta, in Italia, condita da richiami neo-emergenziali circa la necessità di non disperdere o sperperare questa «storica» opportunità) una sorta di ideologia imperniata sugli imperativi della svolta verde e smart, ma anche di selezione meritocratica delle risorse del paese.

Momigliano sosteneva che l’impatto dei piani Marshall fu culturale prima che economico, una sorta di abilitatore della spinta alla ricostruzione e modernizzazione di un paese sottosviluppato, nel gioco conflittuale ma sinergico tra liberismo temperato (Einaudi) e pianificazione (Saraceno).

Cosa possiamo dire del Recovery Plan? (a noi sembra basarsi su una logica che riflette essenzialmente l’esigenza di mettere in moto il volano delle infrastrutture per spingere la componente dei consumi pubblici).

VG: Concordo sulla valutazione del dibattito in corso. E aggiungo che le priorità del Recovery plan sono state fissate altrove e da altri (Francia e Germania, more solito), le cui grandi imprese ne saranno conseguentemente i principali beneficiari. 

E’ del tutto evidente, infatti, che si tratta di un progetto che ha specifici obiettivi di politica industriale, a cominciare dal riorientamento dell’automotive, in particolare tedesco, che era in gravi difficoltà già prima della crisi, e al quale si cerca di ridare fiato con la spinta sull’elettrico. Con tanto di joint-venture franco-tedesche già pronte sulle batterie ecc.

Ora, ci sarebbero parecchie cose da dire su questo tema, che oggi sembra scandaloso affrontare da un punto di vista critico. Proviamo a ragionare. L’impostazione stessa della transizione all’elettrico, come è generalmente formulata, è fortemente dubbia.

Prima cosa, non si affronta il tema della mobilità nell’unico modo che sarebbe realmente vantaggioso per la tutela dell’ambiente, ossia puntando a ridurre in termini assoluti la presenza delle autovetture nelle nostre città.

Da questo punto di vista, la «transizione all’elettrico» non soltanto è regressiva, ma si scontra con nuove tendenze della mobilità che sono già in atto. È quindi piuttosto probabile che al termine del percorso, anziché con gli sperati massicci acquisti di sostituzione (rottamazione possibilmente forzata da iniziative di legge di autovetture a diesel e benzina e loro sostituzione con vetture elettriche), ci si possa ritrovare con una importante sovrapproduzione di autoveicoli elettrici.

Seconda cosa, non vi è nulla di necessariamente più ecologico nelle vetture elettriche rispetto a quelle a combustibili fossili, per il semplice motivo che la stessa energia elettrica deve essere prodotta in qualche modo: e se a monte io ho centrali elettriche a carbone (o – vedi Francia – nucleari), non avrò alcun reale guadagno in termini di minore inquinamento o complessivi pericoli per l’ambiente.

In più, batterie e altre componenti di queste autovetture sono fortemente inquinanti di per sé. Il saldo per l’ambiente potrebbe quindi essere addirittura negativo.

Terzo punto, la spesa di costruzione/installazione dei milioni di colonnine elettriche necessarie a questa «nuova mobilità» sarà una gioia per i costruttori delle medesime, anche perché sarà in gran parte finanziata con fondi pubblici; lo sarà meno per gli utenti, per il semplice motivo che occorreranno molti anni perché si arrivi a una capacità erogativa tale da soddisfare il fabbisogno.

Più in generale, a cosa ci troviamo di fronte? Al tentativo di forzare il cambiamento tecnologico attraverso gigantesche erogazioni di fondi/agevolazioni pubbliche all’industria privata.

Questo creerà vincitori e vinti tra settori e all’interno dei settori industriali. Ma non è affatto scontato che il risultato sia, come auspicano i loro propugnatori, il rilancio di un nuovo ciclo di accumulazione.

Oltretutto, sembra che la componente infrastrutturale nel progetto Ngeu non abbia ricevuto dotazioni adeguate (con la felice eccezione dell’Italia, sembrerebbe in base al poco che si sa del Pnrr).

In definitiva, il saldo potrebbe anche essere negativo, con settori i cui costi di produzione aumentano via tassazione e sottoinvestimento (e i relativi produttori escono dal mercato mondiale), mentre quelli su cui si punta potrebbero avere il fiato corto e beneficiare di profitti solo fintantoché sostenuti dai soldi pubblici.

Infine, l’entità della parte del Recovery Fund da finanziare con debito comune è ridicola, e il resto è basato su trasferimenti dagli Stati al bilancio europeo, né più né meno di quanto accaduto in passato.

Essenzialmente, una partita di giro, con l’unica differenza, per quanto ci riguarda, che per la prima volta dopo molti anni potremmo (il condizionale è d‘obbligo) non essere creditori netti del bilancio europeo.

Ma attenzione: se a questo aggiungiamo le condizionalità per usufruire effettivamente dei fondi posti a disposizione dall’Unione – tra le quali vi è, almeno in prospettiva, la compliance fiscale (e cioè l’ottemperanza delle assurde regole di Patto per la crescita e la stabilità e Fiscal Compact – solo sospesi attualmente) – abbiamo il disegno completo di una montagna che partorirà un topolino, e pure storpio.

In definitiva, mi piacerebbe che si parlasse un po’ di questi temi anziché intonare la solita litania provinciale della grande opportunità da cogliere, usando «bene» i fondi assegnati, per far vedere che non siamo troppo cialtroni. Questa litania è stucchevole e inaccettabile per due ordini di motivi.

Intanto, a chi dovremmo dare questa dimostrazione? Ai Commissari europei che autorizzano aiuti di Stato superiori a 10 miliardi di euro per Lufthansa e Air France, ma lesinano 100 milioni ad Alitalia? O agli esponenti delle authority tedesche che giocavano in Borsa coi titoli delle società su cui dovevano vigilare?

Ma soprattutto per un altro motivo: come al solito, non è questo il punto della questione. Lo sarebbe, invece, entrare nel merito delle scelte di ripartizione del Recovery Fund tra i vari ambiti, magari per capire se il nostro Paese ne possa beneficiare soltanto in quanto subfornitore dei giganti dell’automotive con sede in Germania e Francia o magari, poniamo, per settori della meccanica strumentale in cui abbiamo sbocchi autonomi all’estero.

Possiamo dire che vi sia però anche la ricerca di nuovi assetti economici e sociali (la spinta alla costruzione di un nuovo blocco)? Da questo punto di vista, si può ipotizzare che gli investimenti su sanità, istruzione, pubblica amministrazione costituiranno assi importanti dell’azione di governo e dello stesso programma europeo. Secondo te questi campi (la produzione dell’umano, più che per l’umano) saranno centrali nel tentativo di rilancio dell’accumulazione e dei profitti «industriali»?

VG: Il titolo generale è un tentativo di rilancio dell’accumulazione sul terreno del digitale (su cui l’Unione Europea ha accumulato molto ritardo nei confronti di Usa e Cina – ma più in generale Asia) e del «green».

Quanto al resto, a parte l’oggettiva ironia dei promessi investimenti su un settore quale la sanità, nel quale le istituzioni europei hanno imposto a tutti gli Stati di tagliare gli investimenti negli ultimi decenni, su tutti questi terreni (sanità, istruzione e pubblica amministrazione) è possibile aumentare gli investimenti, migliorarne la qualità, introdurre innovazione, ecc.

Ma il problema è sempre lo stesso: a beneficio di chi? E più in generale: in quale contesto di riferimento dal punto di vista dell’ordinamento sociale?

A mio giudizio innovare la sanità significa in primis investire nel rafforzamento della sanità pubblica (centralizzata), il cui smantellamento ha prodotto l’ecatombe che abbiamo visto dai primi mesi dello scorso anno. Investire in formazione significa puntare allo sviluppo onnilaterale delle persone, il che ovviamente non è necessariamente in contraddizione con la formazione di forza lavoro qualificata (che quindi non perda posizioni nella divisione internazionale del lavoro, né diventi il conveniente sostituto di macchine, con conseguente regressione dal plusvalore relativo al plusvalore assoluto – come abbiamo visto nei decenni scorsi), ma non può neppure ridursi a questo.

Quanto alla pubblica amministrazione, l’innovazione qui deve significare automazione spinta, ma avendo per obiettivo la democratizzazione della società, l’accesso ai servizi pubblici per tutti e la possibilità di introdurre meccanismi inclusivi di decisione collettiva sull’uso delle risorse.

Se l’obiettivo invece è la creazione di forme di controllo tecnocratico sempre più sofisticate sul corpo sociale, ancora una volta stiamo parlando di qualcosa di molto diverso.

Dal punto di vista più strettamente economico, comunque, la pubblica amministrazione – soprattutto in una società non più ad economia mista com’è la nostra da 20 anni in qua – non può rilanciare direttamente l’accumulazione del capitale, al massimo migliorare le condizioni generali di produzione.

In termini generali, sono piuttosto scettico sul fatto che a un recupero di investimenti su questi terreni arrida il successo che si ripromettono i fautori del Next Generation EU…

Il green deal è il pilastro della nuova strategia comunitaria. Tutti i programmi nazionali e regionali si stanno convertendo, anche con effetti comici, per adempiere a questa condizione. Al di là dell’ovvia denuncia sulle possibili pratiche di green washing e del carattere retorico di questa prospettiva, possiamo vederci anche tentativi «sostanziali»?

C’è l’esigenza, ad esempio, di incuneare una prospettiva europea, un modello di capitalismo in maggiore competizione con le polarità forti, Usa e Cina? Possiamo vederci il tentativo da parte di determinate frazioni del capitalismo di incorporare, per così dire, la questione climatica e il concetto di «limite» nelle proprie strategie di accumulazione? Più radicalmente, è ipotizzabile un capitalismo «verde»?

VG: Ho in parte risposto sopra. Provo a integrare il ragionamento, cominciando dalla fine: la mia risposta è negativa. Il concetto di «limite» è estraneo – per essenza e non per accidente – al capitale, per il quale la riproduzione allargata ad infinitum è il tèlos.

Stiamo parlando di un modo di produzione che ha quale finalità ultima l’auto-accrescimento del capitale; rispetto a questo fine ogni cosa è sempre e necessariamente mezzo, più o meno esplicitamente. Quindi no: un capitalismo «verde» o è una mistificazione o è un ossimoro.

Quanto al resto, ovviamente per il singolo capitalista incorporare la transizione energetica nelle proprie strategie è possibile: tanto più se se lo Stato (o gli Stati associati nel blob sovranazionale che reca il nome di Unione Europea) mette i soldi per farlo (cioè copre gli extra-costi necessari).

Ma anche qui, se andiamo a grattare appena sotto la superficie, ci accorgiamo di molte note stonate. Una per tutte: perché non favorire in termini di transizione di medio periodo il gas naturale, anziché proporre futuribili transizioni immediate all’idrogeno «verde»? Per motivi geopolitici e per motivi connessi al posizionamento strategico di pezzi rilevanti dell’industria tedesca e francese.

Un’altra: perché in questo stesso contesto invece l’energia nucleare passa addirittura come «energia semi-pulita»? Basta valicare la frontiera francese e si ha la risposta.

Infine, la competizione con Stati Uniti e Cina. È evidente che il sottinteso strategico di quello di cui parliamo è questo. È così dai tempi in cui fu lanciato l’euro. All’epoca l’unico competitore erano gli Stati Uniti con il dollaro, al quale si voleva sottrarre parte del potere di signoraggio, adesso le cose si sono un po’ complicate.

Il problema di fondo, la cosa che dobbiamo chiederci è però rimasta sempre la stessa: questa competizione chi la paga?

La risposta che possiamo dare ad oggi è molto semplice: la competizione globale ad oggi è stata pagata sacrificando sull’altare della «competitività» proprio quello che il modello europeo aveva di più peculiare, una relativamente elevata protezione del lavoro e un modello di welfare universale o semi-universale oggettivamente incomparabile con quello ad esempio statunitense.

A questo nel corso degli anni si è aggiunto, dopo la fuga in avanti rappresentata dall’introduzione dell’euro, l’approccio semicoloniale nei confronti dei paesi del Sud Europa che ha caratterizzato il post crisi subprime – e che ha fatto sì che l’Europa sia stata il teatro di una crisi totalmente evitabile quale quella cosiddetta «del debito sovrano» (che era in realtà una crisi da squilibri delle bilance commerciali, i cui sintomi erano stati celati da forti afflussi di capitale diretti verso i paesi in deficit dell’Eurozona, secondo i classici meccanismi della legge di Frankel).

In definitiva, prima della crisi attuale l’Unione Europea si caratterizzava per essere uno degli ultimi fortilizi dell’ideologia neoliberale, divenuta legge nel Trattato di Maastricht, oltretutto interpretato in assenza di flessibilità tutta particolare. Questo ha reso l’Unione Europea, e più specificamente l’Eurozona, l’area economica a minor crescita del pianeta per un quindicennio.

Ora, il problema è che quando la deflazione (salariale e tout court) produce questo risultato, lo stesso obiettivo della «competitività» è severamente colpito. Questa era la situazione prima della pandemia. È dubbio che possa migliorare in seguito ad essa, per il solo effetto di una spruzzatina di investimenti «digital» e «green». C’è un problema più di fondo, che riguarda la struttura sociale, un diverso equilibrio da ricercare tra settore pubblico e settore privato dell’economia, ecc.

Gli importanti stimoli fiscali e monetari intrapresi da governi e banche centrali hanno suscitato un dibattito sul ritorno dell’inflazione. Ritenete possibile un eventuale ritorno dell’inflazione al di sopra del fatidico due per cento o continueremo a restare in una spirale di prezzi stagnanti? Lo ritenete auspicabile?

Nel caso, se ciò avrebbe effetti positivi sul debito pubblico, in paesi come l’Italia (forte risparmio privato, depositi bancari che si gonfiano, mattone, anche di strati importanti di proletariato) quali effetti sociali dovremmo attenderci? Quali tendenze ritenete che prevarranno?

VG: Nel medio-lungo periodo è possibile una significativa ripresa dell’inflazione. Per ora però è bene non dimenticare che, a distanza di dieci anni da quando la Bce decise di prendere sul serio il proprio statuto non soltanto quanto all’inflazione, ma anche quanto alla necessità di evitare la deflazione, tutte le politiche monetarie espansive adottate (convenzionali e non) sono state un fallimento: nel senso che l’obiettivo di un’inflazione appena al disotto del 2% non è stato ancora conseguito.

Ora, io capisco la preoccupazione per l’inflazione, ma sarei davvero lieto intanto che fosse conseguito quell’obiettivo. Il che significa più inflazione di quella che è attualmente in giro. E anche di quella prevista: ho appena visto le ultime rilevazioni e le aspettative di inflazione a lungo termine si situano oggi tra l’1,5% e l’1,7%!

Detto questo, vanno segnalati due aspetti a mio modo di vedere rilevanti quanto tenuti sottotraccia della questione.

Il primo e più rilevante: il discorso sull’inflazione negli ultimi anni è sempre stato la copertura di un discorso differente, quello per cui gli Stati non devono fare politiche economiche espansive e i salari devono essere tenuti costantemente bassi. È questo che ha trasformato l’Eurozona in una zona economica di deflazione permanente in questi anni: non credo di dover precisare quale paese sia stato impiccato in misura particolare a questa corda.

Ora, e veniamo al secondo aspetto, la cosa interessante è che da ultimo la strategia tradizionale della Germania di tenere i livelli di inflazione al di sotto di quelli dei competitor attraverso la «moderazione salariale» (ossia il mancato trasferimento degli aumenti di produttività sui salari) – strategia adottata dalla Germania sin dai tempi di Erhard, ma ovviamente devastante in un contesto in cui è condivisa la moneta e quindi sono impossibili aggiustamenti del cambio – sta ritorcendosi abbastanza ironicamente contro la Germania stessa.

In effetti l’Italia ha evidenziato negli ultimi anni tassi di inflazione inferiori a quelli tedeschi; il trend è proseguito e si è anzi accentuato in questa crisi, anche per il banale motivo che le politiche economiche espansive per rianimare la congiuntura la Germania le ha adottate con molta maggiore energia di ogni altro paese europeo.

Quindi la Germania sta oggi perdendo competitività via inflazione più alta. Oggi chi in Germania strilla contro lo spettro dell’iper(!)inflazione lo fa precisamente per questo motivo: perché vede con orrore il «mercantilismo monetario» di Erhard rivoltarsi contro la Germania stessa. E le imprese di quel paese perdere competitività, anziché guadagnarla.

Ma veniamo agli sviluppi prevedibili. Una crescita dell’inflazione nei prossimi tempi è praticamente sicura, sia per le dinamiche in atto negli Stati Uniti e in Asia, sia a causa dei sotto-investimenti nel settore petrolifero che saranno pagati nei prossimi mesi/anni con possibili fiammate del prezzo del petrolio.

Dal mio punto di vista, si tratta di uno sviluppo auspicabile. Una combinazione di buona crescita (in termini reali) e di moderata inflazione sarebbe per noi senz’altro una combinazione fortunata – opposta alla combinazione di stagnazione e deflazione degli ultimi anni.

Essa consentirebbe di ridurre più rapidamente il debito pubblico, ridurre gli asset finanziari venduti a rendimenti reali negativi e farebbe tornare il sistema del credito a funzionare come ha sempre funzionato.

Ci allontaneremmo dal mondo dal mondo degli interessi negativi in cui abbiamo vissuto negli ultimi anni: il mondo di Silvio Gesell, purtroppo senza i benefici effetti sul piano sociale da lui sperati.

Ma, per i motivi che abbiamo visto sopra, è facile che su questo tema si riaccendano le polemiche e gli scontri. Soprattutto all’interno dell’Unione Europea. D’altra parte, non va dimenticato che per fortuna l’Unione Europea non è un’isola, e in un mondo in cui i tassi Usa salgono è molto difficile pensare a una divergenza duratura a tale riguardo.

In ogni caso, il punto cruciale è un altro: staremo a vedere se all’interno dell’Unione Europea si riuscirà ad affermare, almeno in parte, quel necessario cambiamento di paradigma che non si è prodotto nel corso della crisi precedente.

 

Note [1] V. Giacché, The New New Normal: il ritorno delle istituzioni, «la fionda», n. 1/2021, pp. 183-196. [2] Riportato in https://www.zerohedge.com/markets/deutsche-bank-there-no-such-thing-free-market-anymore, 12 aprile 2020. [3] Per un inquadramento della «finanziarizzazione» con l’aiuto delle categorie marxiane si veda V. Giacché, Capitale produttivo d’interesse e “finanziarizzazione“ dagli anni Ottanta a oggi. Un’analisi a partire dai manoscritti 1863-1865 di Marx per il terzo libro del Capitale, in (a cura di) C. Tuozzolo, Marx in Italia. Ricerche nel bicentenario della nascita di Karl Marx, Roma, Aracne, 2020, vol. 1, pp. 445-470 (https://www.academia.edu/43012480/Vladimiro_Giacché_Capitale_produttivo_d_interesse_e_finanziarizzazione_dagli_anni_Ottanta_a_oggi_Un_analisi_a_partire_dai_manoscritti_1863_1865_di_Marx_per_il_terzo_libro_del_Capitale).

* da Macchina, Derive e approdi. Vladimiro Giacché, filosofo di formazione, autore di saggi filosofici e di economia politica, ma anche di ricerche più strettamente di carattere finanziario, in qualità di professionista del settore bancario e del ruolo di presidente del centro di studi economici Centro Europa Ricerche (Cer, 2013-2020). Tra i suoi libri si citano: Titanic Europa (2012), Costituzione italiana contro trattati europei (2015), La fabbrica del falso (terza ed. 2016), Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (nuova ed. 2019), Hegel. La dialettica (2020). Ha curato inoltre edizioni degli scritti economici di K. Marx (Il capitalismo e la crisi, 2009) e Lenin (Economia della rivoluzione, 2017).

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