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Il Pil vola, i salari restano da fame

Oggi giornata ricca di dati macroeconomici europei. I vari istituti di statistica hanno pubblicato in particolare il dato del pil del secondo trimestre.

Il pil francese congiunturale (sul mese precedente) è +0,9% (era previsto +0.8%): la Germania fa +1,5% (ma era previsto il 2%), mentre l’Italia balza a +2,7% (era previsto solo l’1,3).

Crescita anno su anno del secondo trimestre Italia è ora previsto +15,9%, mentre il dato reale è +17,3%. E i servizi ad aprile erano ancora chiusi…

L’industria italiana insomma ha spinto anche in piena pandemia; i lavoratori sono stati spremuti fino allìosso, le imprese hanno fatto il pieno di profitti ma pretendono di poetr licenziare a ogni stormir di foglia (anche il “green pass” viene usato per questo dagli stessi sfruttatori che a marzo 2020 minacciavano di licenziamento, se non si andava a lavorare in pieno lockdown).

Secondo l’Istat il dato acquisito nel 2021 – cioè: anche se la crescita fosse nulla nel terzo e quarto trimestre, è pari a +4.8%. I più si aspettavano un dato congiunturale di 1.5, solo il Centro Studi di Confindustria nei giorni scorsi stimava 2%. Ma il dato reale – +2,7% – è inaspettato, a tal punto che il sito del solitamente piagnone Sole 24 ore titola “Vola il pil”.

Si saprà nelle prossime settimane quali settori, e in che misura, hanno contribuito. Di certo ora si sa una stazionarietà dell’agricoltura e una forte crescita di industria e servizi.

E’ uscito anche il dato della disoccupazione a giugno. Era prevista al 10,4%, dato reale 9,7%. Da febbraio sono stati creati 400 mila posti di lavoro, ma quasi tutti a tempo determinato, a dimostrazione che la strategia degli imprenditori è sostituire lavoratori contrattualizzati con altri più deboli e ricattabili.

Mancano comunque, rispetto ai livelli pre-covid, 470mila posti, ma di certo si assiste ad una ripresa occupazionale, specie negli ultimi mesi.

Lo stesso Inps ha dichiarato nelle scorse settimane che le perdite contributive (vale a dire le trattenute pensionistiche in busta paga) sono state tutte recuperate.

Un altro dato importante: l’inflazione passa da 1,3% a 1,8%, ma non sappiamo ancora se ciò è dovuto a vivacità di domanda o a maggiori costi scaricati sui consumi (l’aumento dei prezzi petroliferi, trascinato dalla ripresa).

Di certo il differenziale inflazionistico, che porta ad erodere quote di mercato mondiale, è pari a 2%. Anche rispetto alla Germania, dove l’inflazione registrata è pari a 3.8% e storicamente era sempre stato più basso che in Italia.

Di tutti questi dati chi non può gioire sono perciò proprio i lavoratori: ieri l’Istat ha pubblicato il dato delle retribuzioni, cresciute in un anno appena dello 0.6%, con punte 1,2 nell’industria, ma l’andamento triennale dei salari è in ogni caso inferiore all’inflazione. La crescita salariale è nulla per molti settori, nonostante abbiano siglato nuovi contratti (senza aumenti, evidentemente).

La deflazione salariale attanaglia i veri artefici di questa crescita. Una coscienza di classe, diffusa, potrebbe portare a dire: basta!

C’è da sperarlo in autunno. Meglio tardi che mai.

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