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Contro le sperequazioni del mercato, una zona valutaria comune

Di fronte alla concreta possibilità di un aumento dei livelli salariali generali nei paesi pienamente capitalistici, la crescita salariale è possibile solo nelle singole industrie capitalistiche dello stesso stato, ma questo costo si ripercuoterà alla fine sui necessari aumenti di prezzo, tali da compensare aumenti salariali e mantenimento dei margini capitalistici.

Ciò può verificarsi in pratica a causa dell’assenza di concorrenza con i paesi cosiddetti “sottosviluppati”, nei quali quindi non può esserci alcuna spinta alla crescita dei salari.

In altre parole, è necessario creare un’area monetaria comune in cui si svolgano gli scambi, in cui non ci siano problemi legati all’evoluzione della bilancia dei pagamenti.

Quest’ultima tesi è stata però criticata: «Confondere il limite di una variazione con le sue cause» e che «tutte queste analisi dell’elasticità della domanda e della bilancia dei pagamenti servono solo a dire in fin dei conti che non è un limite oltre il quale le merci accresciute dall’aumento del salario non possono più essere vendute, o che non possono più essere vendute in quantità sufficienti a pagare le loro importazioni» (AA.VV. (1973), Salari, sottosviluppo, imperialismo, Einaudi, Torino, p.155).

Prendendo quindi in considerazione un’ipotesi in cui non vi sia una condizione di monopolio tecnologico assoluto di un singolo Paese e che, quindi, non vi sia un contesto di completa specializzazione di ciascuno degli Stati considerati, la distribuzione delle industrie nei singoli contesti nazionali risulterà essere essenzialmente determinato dalla “composizione e dal livello della domanda internazionale”.

Se la domanda di prodotti particolarmente vantaggiosi assorbe una parte sufficiente della forza lavoro nel paese più avanzato, il livello dei salari sarà piuttosto elevato” (Ibidem, p. 18,19). Il contrario accadrà con i prodotti meno richiesti.

L’esistenza di una “industria di frontiera, quella cioè con la quale il paese più avanzato perderebbe o guadagnerebbe se vi fosse un aumento o una diminuzione dei suoi salari rispetto a quelli del paese più arretrato”.

La sua identificazione aiuterà a spiegare i fenomeni salariali. Infatti, in caso di cambiamento tecnologico in queste industrie, ci sarà tanta variazione nei salari all’interno del paese in questione, come nei paesi sottosviluppati.

La posizione ora presentata è stata criticata da A. Emmanuel, in particolare per il tentativo di predeterminare l’esistenza dell’industria comune per due paesi, in una condizione che non consente a nessuno dei due di specializzarsi pienamente nella produzione di determinati beni, affermando che “un’offerta e una domanda che si incontrano prima dei prezzi è qualcosa di incomprensibile”, e che l’esistenza dell’industria di frontiera può esistere esattamente come conseguenza simultanea o successiva della fissazione dei prezzi.

La stessa tesi di Somaini è stata criticata, poiché i meri differenziali tecnologici non sono stati considerati come criterio fondamentale per misurare i livelli salariali.

In particolare, A. Emmanuel ha evidenziato una “fastidiosa ambiguità” riguardo al concetto di condizioni tecniche, che dipendono dal livello della tecnologia (esclusi i fattori tecnologici) o sono associate a tutte le condizioni generali di produzione.

Nel primo caso si sostiene che la riproduzione delle condizioni tecniche in tutti i paesi è in grado di eliminare le differenze salariali e portare il reddito a condizioni di gioco uniformi, così come nella seconda situazione il grado di sviluppo della tecnologia è definito come una delle condizioni del dislivello, che impedisce di diventare misura in sé di tali disuguaglianze.

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