Con l’avvicinarsi della fine dell’anno, si fanno sempre più insistenti le voci secondi cui il prossimo “decreto flussi” raddoppierà o triplicherà l’ingresso regolamentato di lavoratori e lavoratrici nati all’estero nel mercato del lavoro italiano, salendo da 30 mila degli ultimi anni ai 60/70/80 mila, a seconda delle indiscrezioni, nel 2022.
Il decreto flussi è un atto redatto da diversi dicasteri, tra cui quello dell’Interno e del Lavoro, ed emanato dal governo che stabilisce quanti cittadini stranieri possono entrare nel paese per “motivi di lavoro”.
L’istituto è un figlio legittimo dell’infame legge Turco-Napolitano del 1998 e viene emanato con cadenza annuale a partire dal 2001, ossia contestualmente alla fase finale della guerra in Jugoslavia e il completamento dell’unione monetaria tra alcuni membri dell’Unione europea.
Con tale decreto, il governo stabilisce il fabbisogno di manodopera, solitamente extra-comunitaria, per il sistema produttivo italiano che non si troverebbe tra le forze di lavoro presenti nel paese. Da qui, la creazione di flussi, appunto, stabiliti in base ad accordi coi governi dei paesi esteri da cui far partire la schiera di nuovi lavoratori e lavoratrici.
Negli ultimi 10 anni, precisamente dal governo Monti, il numero di ingressi consentiti per motivi di lavoro è stato drasticamente diminuito, passando dai 100mila annui di fine primo decennio ai 30.850 degli ultimi sei anni, numero che il “decreto sicurezza” targato Salvini aveva reso invalicabile, ma che è stato recentemente modificato dall’ultimo inquilino dell’Interno, il Prefetto Luciana Lamorgese.
In un mercato del lavoro italiano che segnava le prestazioni tra le peggiori nell’Ue (oggi siamo penultimi dopo la Grecia), i tecnocrati inviati da Bruxelles e guidati da Monti (allora Presidente della Trilateral) al posto del Berlusconi quater pensarono di sostenere l’occupazione “italiana” limitando l’afflusso di manodopera regolare immigrata. “Se ci sono tanti disoccupati, ridurre la concorrenza esterna favorirà il tasso d’occupazione”, era la logica.
Il risultato invece fu l’aumento del peso della presenza straniera tra le maglie dell’economia “sommersa”, mentre la lunga depressione e le politiche di austerità seguite alla crisi del 2008 tagliarono le gambe all’economia italiana, deprimendo investimenti produttivi, consumi e domanda di lavoro, nonché i salari degli occupati.
In questo quadro, la quota della presenza di cittadini non italiani nel paese è salita dal 2,4% della popolazione nel 2002 all’8,5% nel 2021, mentre la quota di lavoro immigrato regolarmente impiegato è giunta all’11% del totale, registrando un incremento maggiore.
Ciò che nelle stanze del neoliberismo più spietato non si era previsto, o si era pubblicamente taciuto, è che in un’economia basata sulle esportazioni e su politiche economiche restrittive, l’abbattimento della retribuzione del lavoro è la condizione necessaria alla reiterazione del sistema (non diciamo allo sviluppo, di progresso poi neanche a parlarne…).
È esattamente in questa faglia che il lavoro immigrato ha fatto, suo malgrado, le fortune dell’imprenditoria stracciona del nostro paese. Dove non era possibile delocalizzare, romeni, marocchini, ucraini, moldavi ecc. hanno reso sostenibile il sistema padronale basato sullo sfruttamento, ben oltre il livello di sussistenza considerato accettabile dalla forza lavoro autoctona.
Non è un caso che, in Italia come nell’Ue, i settori a maggiore concentrazione di manodopera immigrata siano l’agricoltura, le costruzioni, alcuni comparti della manifattura (come il tessile) e i servizi collettivi e personali (come colf o badanti), con picchi stagionali nei servizi di ristorazione e alloggio del settore turistico. Ossia, quelli peggio pagati, meno tutelati, a più alto tasso di mortalità, non delocalizzabili e per cui è stato necessario “importare lo sfruttamento”.
La forza lavoro nata all’estero, per mantenere il permesso di soggiorno, o in mancanza di una struttura sociale in grado di farsi carico dei suoi bisogni (le pensioni dei nonni, per esempio), o per garantire le rimesse ai familiari rimasti nel paese d’origine, è costretta ad accettare un livello di retribuzione inferiore rispetto al nativo. O è più “competitiva”, come piace dire all’epigono del neoliberismo.
È perciò indispensabile a un sistema produttivo basato sulla stabilità dei prezzi (ossia sul blocco dei salari), soprattutto in una fase di crescente competizione economica internazionale.
Eccola qui, la vera motivazione che porta il governo Draghi I a fare esattamente quello per cui è stato chiamato in causa, ossia immettere il sistema-Italia nel nuovo “super-Stato” europeo a colpi di mannaia sui salari, sul dissenso e sui residui di democrazia sopravvissuti al processo di integrazione europeo (sciopero, rappresentanza, manifestazione del pensiero ecc.).
Ed ecco anche perché ogni discussione sul salario minimo è sparita dalla legge di bilancio, sia mai si sostenesse la struttura salariale dell’intera forza lavoro, indipendentemente da cittadinanza, genere, colore della pelle, età, regione di residenza.
Venghino lavoratori, venghino. Con l’impennata dei prezzi delle materie prime, o si riduce il costo del lavoro, o salta la baracca del profitto padronale. Sfruttamento cercasi, disperatamente.
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