Il 7 dicembre scorso è stato rilasciato il World Inequality Report per il 2022, un rapporto che traccia il quadro della disuguaglianza di reddito e ricchezza a livello internazionale. La situazione che emerge è quella di un mondo caratterizzato da diseguaglianze feroci, sia tra Paesi che all’interno dei Paesi.
In altre parole, le disparità di reddito e ricchezza sono forti e persistenti sia tra Nord e Sud del mondo, sia tra individui all’interno di ciascuna economia nazionale. Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo.
Partiamo da una prima fotografia globale, facendo tuttavia una preliminare distinzione. Con il termine ‘ricchezza’ intendiamo l’ammontare di risorse che, in un determinato momento, un soggetto possiede.
Con il termine ‘reddito’ intendiamo invece l’ammontare di risorse che, in un preciso intervallo di tempo (generalmente, un anno), giunge nelle mani di un soggetto per effetto del proprio apporto al processo produttivo: un lavoratore, ad esempio, riceverà come reddito il salario derivante dal proprio lavoro; un capitalista riceverà il profitto derivante dalla propria attività d’impresa; il proprietario di un immobile locato percepirà come reddito i canoni di affitto dell’inquilino.
Certo, seppur stiamo parlando di due concetti differenti, è facile immaginare che le due grandezze si parlino: un basso livello reddito non contribuirà ad accrescere in misura rilevante la ricchezza di un individuo (perché questi non potrà permettersi di risparmiare risorse in ammontare considerevole), e soprattutto non gli permetterà di godere nel presente di un buon tenore di vita, in quanto potrà permettersi un ammontare più basso di beni e servizi.
Bene, il report in questione analizza la disuguaglianza attraverso le lenti di entrambe le dimensioni appena introdotte: reddito e ricchezza. Se, tornando al rapporto (Figura 1), consideriamo la distribuzione dei redditi e della ricchezza su scala mondiale, scopriamo che la metà più povera dei cittadini del mondo (bottom 50% nella figura, in blu) arriva a raggranellare solo l’8% del reddito totale, e a possedere appena il 2% della ricchezza complessiva.
Dalla parte opposta, il 10% più ricco (top 10% nella figura, in rosso) è oggi in grado di accaparrarsi il 52% del reddito mondiale, e addirittura possiede il 76% della ricchezza. Dati che fotografano una situazione di fortissima disuguaglianza.
A un livello di analisi più specifico, il documento indica che i livelli di disuguaglianza non sono gli stessi nelle diverse aree del mondo. L’Europa, per esempio, mostra ancora una distribuzione del reddito meno diseguale rispetto agli Stati Uniti e, soprattutto, rispetto alle aree più povere del pianeta, come il Medio Oriente (MENA), il Nord Africa e l’Africa Sub Sahariana (Figura 2).
Nonostante la crisi che stiamo vivendo sulla nostra pelle, la situazione è molto peggiore in altre parti del mondo, e parte di questa tendenza è attribuibile alla sopravvivenza di qualche residuo di stato sociale e di tutela del lavoro che in altre parti del globo non sono mai esistite o sono completamente scomparse.
Tuttavia, la vicenda si fa ancora più interessante una volta che si sposta il focus sul livello nazionale delle disuguaglianze, e soprattutto sulle macrotendenze storiche che hanno caratterizzato la dinamica delle disuguaglianze di reddito e ricchezza in Italia.
Partiamo dal primo punto. Anche in questo campo, il Belpaese primeggia. Per quanto concerne la distribuzione del reddito, la metà più povera degli italiani riesce a racimolare appena il 20% del reddito prodotto, mentre il 10% più alto ne raccatta un cospicuo 32%.
Passando alla distribuzione della ricchezza, la metà che sta in basso detiene una quota che non supera il 10%, mentre al top 10% è riconducibile il 48% della ricchezza complessiva. Quasi la metà! Senza contare che il top 1% (l’uno percento più ricco della popolazione) detiene il 18% della ricchezza nazionale.
Come è stato possibile? Questo è l’aspetto più interessante del rapporto, che consente di cogliere in una singola immagine la storia che ci ha condotto verso questa situazione drammatica.
Nella Figura 3 è riportato l’andamento, in Italia, della quota di reddito riconducibile al 10% più ricco e al 50% più basso della distribuzione nel corso del secolo scorso e fino al 2020.
Come si può osservare, fino agli anni ’70, l’andamento è decrescente per i redditi più alti e crescente per la metà più bassa della distribuzione, tanto che in questo decennio avviene un sorpasso, comunque non entusiasmante, con la quota riconducibile al 50% più basso dei redditi che supera quella del top 10%.
Viceversa, dai primi anni ’80 questa tendenza convergente si inverte in maniera permanente e, dopo il controsorpasso, la distanza continua ad aumentare fino ai giorni nostri. In altri termini, fino agli anni ’70 la parte meno agiata della popolazione era riuscita ad accaparrarsi fette sempre più ampie del prodotto sociale, mentre dagli anni ’80 in poi i più ricchi hanno visto sempre più aumentare i loro redditi.
L’andamento della distribuzione della ricchezza va ancora peggio (Figura 4) e questo è bene sottolinearlo, anche in considerazione del fatto che l’Italia è uno dei primissimi Paesi al mondo per rapporto tra ricchezza privata e reddito nazionale.
Tale indice è esploso dal 250% del 1970 al 650% del 2010 (oggi siamo intorno al 700%) e sta ad indicare che la distribuzione della ricchezza è particolarmente importante per valutare la distribuzione complessiva e dunque le disuguaglianze nel nostro Paese.
Come si spiega questo andamento? Quali politiche si sono consolidate e rafforzate in particolare a partire dagli anni ’80? Il documento esaminato afferma che la disuguaglianza – e la sua crescita – è una precisa scelta politica e non è inevitabile.
Non a caso, in Italia (e in molti altri Paesi a dire il vero) prende il via da quegli anni un preciso percorso di deregolamentazione del mercato del lavoro e di libera circolazione su scala mondiale di merci e capitali, un copioso processo di finanziarizzazione, un progressivo smantellamento dello stato sociale e una sostanziale riduzione dei diritti dei lavoratori.
Tali strumenti hanno rappresentato un formidabile dispositivo per le classi dominanti per invertire la tendenza di convergenza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, instaurando una nuova fase caratterizzata dalla crescente precarizzazione del lavoro e dall’indebolimento delle organizzazioni sindacali.
Si tratta di deliberate scelte politiche che hanno contribuito a ridurre la quota del prodotto che va al lavoro, ossia la porzione di reddito che i salariati riescono a portare a casa nel conflitto distributivo, e, in tal modo, ad aumentare anche le disuguaglianze di reddito e di ricchezza: esiste infatti una precisa correlazione tra la quota di reddito che va ai percettori di profitto e quella che va alle fasce più agiate della popolazione (in altri termini, non lo scopriamo oggi che i capitalisti sono di norma più benestanti dei lavoratori).
Risultato: alla riduzione della quota salari si è accompagnata la parallela crescita della quota profitti, che è stata il motore vero e proprio dell’esplosione delle disuguaglianze a livello internazionale. Questo ragionamento vale specialmente per l’Italia, unico paese tra quelli dell’OCSE, dove dal 1990 al 2020 dove si è registrata una diminuzione (-2,9%) dei salari reali.
Davanti a questo quadro a tinte fosche, che fare? Politiche di redistribuzione (come, ad esempio, aumentare la tassazione su redditi alti e grandi ricchezze per finanziare la fornitura di servizi pubblici ai meno benestanti) sono senz’altro necessarie, ma potrebbero rivelarsi non sufficienti alla luce delle mostruose disuguaglianze esistenti.
Occorre, pertanto, intervenire sulla la distribuzione primaria dei redditi, ossia garantire ai lavoratori un salario reale più elevato. Solo in questo modo verrebbero sostanzialmente intaccati gli enormi margini di profitto e le rendite che hanno contribuito, negli ultimi 40 anni, a polarizzare la ricchezza nelle mani di pochi.
Per concludere, il miglioramento delle condizioni di vita per le classi subalterne passa in primo luogo per un aumento dei salari, e, in secondo luogo per forme di redistribuzione ex-post (da sole però non sufficienti), ma soprattutto, specie in un’ottica di lungo periodo, per una trasformazione del sistema economico nella direzione di una pianificazione e di una trasformazione in senso collettivo della proprietà.
L’esatto contrario di quanto sta accadendo sotto la gestione Draghi, alfiere di un Governo di impronta liberista che mira a privatizzare quel poco che resta dei servizi pubblici, a tagliare la spesa sociale e a promuovere una riforma fiscale i cui frutti più prelibati saranno raccolti dalle classi medio-alte.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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