Menu

I mercati snobbano la guerra

Sui mercati l’attacco russo all’Ucraina è stato molto meno “drammatico” che non per il sistema mediatico, alle prese per la prima volta dopo oltre 30 anni con una situazione impensabile: la volontà degli Stati Uniti non è una legge, e ne esistono altre altrettanto forti.

Non “migliori” – su Putin abbiamo scritto per anni e anche stamattina – ma diverse e contrapposte, con interessi capitalistici ma incompatibili.

I mercati sono cinici, si sa, pensano ai soldi e al modo in cui continuare a farli. Così la caduta dei listini è stata consistente a ben lontana dal panico registrato ai tempi del fallimento di Lehmann Brothers. E già qui si può capire qualcosa: l’azzeramento di una sola banca di investimento (sebbene la quarta degli Usa, quindi – allora – anche la quarta al mondo – è più importante di una guerra in Europa, con protagonista una potenza nucleare del peso della Russia.

Non per caso, a Wall Street, dal calo generale si sono salvati – anzi hanno guadagnato moltissimo – i titoli del settore difesa. “Finché c’è guerra c’è speranza”, sembrano dire da quelle parti.

Gli analisti si sbracciano per spiegare che questo non vuol dire che Putin “piaccia”, anzi. Dovrebbe significare che il sistema finanziario e “i mercati” vogliono “mandare un segnale alla Russia” restando in piedi e supportando così le scelte che faranno gli Stati Uniti e la muta scodinzolante degli stati europei.

I problemi escono però fuori quando si deve passare dalla professione di “fedeltà atlantica” (l’asse strategico su cui si tengono “i mercati”) alle misure concrete che gli Stati possono prendere per “far pagare un prezzo alto” a Putin & co.

Lo stesso Biden ha varato contro Mosca misure che congelano asset di proprietà russa per centinaia di miliardi di dollari, colpendo le attività in valuta estera delle maggiori banche tra cui la statale Vtb e Sberbank.

Ma non tocca il gas, né blocca alla Russia l’uso delllo Swift, il sistema che permette di scambiare le informazioni necessarie per le transazioni finanziarie da un paese a un altro. Un danno agli interessi russi c’è, ma non è terribile.

Del resto la maggior parte dei paesi europei – e soprattutto quelli di maggior peso, come Germania, Francia e Italia – ha estese relazioni economiche con la Russia. E dunque una sanzione a Mosca diventa automaticamente un’auto-sanzione per questi paesi. Il che non è propriamente intelligente, né auspicabile.

Biden e l’Europa restano unite contro Putin, ma cercando di non farsi troppo male da sole.

Ed ecco spiegato il mistero per cui Putin invade l’Ucraina, stravince sul campo di battaglia, arriva alle porte di Kiev, ma i mercati alla fine salgono (il Nasdaq che sale del 3,4%, lo S&P dell’1,4% e il Dow Jones dello 0,28%).

Gli euroatlantici dicono “perché lo sfidano”; la realtà suggerisce un’altra spiegazione: meglio non esagerare, che qui crolliamo tutti. In fondo, quei governanti ucraini “ce li abbiamo messi noi” e se pure vengono spazzati via il business deve continuare.

Solo le Borse europee, ieri, hanno chiuso in calo intorno al 3-4%, spaventate dai venti di guerra proprio alle porte. E anche questo ricorda proverbi antichi secondo cui la guerra è affascinante quando è piuttosto lontana….

Tra le motivazioni della “tenuta” dei mercati c’è anche una valutazione – cinica, certo – secondo cui la Federal Reserve dovrà rivedere il suo programma di rialzo dei tassi di interessi, rendendo così assai meno dura la “stretta” per contrastare l’inflazione. Che dunque diventerà cronica…

Anche per questo Bruxelles ci ha tenuto a far sapere che le sanzioni “senza precedenti” contro Mosca saranno innanzitutto “finanziarie”, ma non riguarderanno i big dell’energia e non escluderanno i russi dal sistema Swift.

Si può tradurre il tutto così; ai mercati non dispiace del tutto che Putin vinca la guerra, non perché tifano per lui, ma perché guardano oltre: apprezzano che la Russia non sia stata estromessa dallo Swift, che le sanzioni siano soft che l’Europa non verrà penalizzata eccessivamente sul gas e che le banche centrali in futuro saranno probabilmente meno aggressive.

E già questo smonta parecchia dell’intollerabile retorica che sgorga dai media occidentali, che vorrebbero “una risposta dura, al limite anche militare”, non capendo neanche più in quale mondo si trovano.

“I mercati” digeriscono perfino il petrolio che vola sopra i 100 dollari, anche perché, se il greggio resterà a lungo su quei livelli, il potere d’acquisto dei lavoratori in America e in Europa scenderà, il che sarà un problema per i consumi, sarà un freno per l’economia, ma forse costringerà le banche centrali e in particolare la Fed a rivedere i suoi piani sui rialzi dei tassi.

Lo stesso Putin ha spiegato perché la Russia non teme granché le “terribili sanzioni” annunciate dall’Occidente: La Russia è parte dell’economia mondiale e noi non abbiamo certamente intenzione di danneggiare quel sistema. Non credo che ai nostri partner convenga spingerci fuori da questo sistema“.

L’interconnessione è insomma tale che ogni ipotesi di “isolamento” di un paese di quelle dimensioni (per chi era abituato a maltrattare Somalia, Libia, Iraq, Siria, Yemen, ecc) significa amputare parti rilevanti della propria stessa economia, fondata su filiere e forniture senza confini.

Resta in salita il prezzo del petrolio. E questo garantisce che l’inflazione diventerà strutturale per diversi anni.

Sia il Brent che il Wti texano superano i 100 dollari al barile, collocandosi al top dal luglio 2014.

Questo aumento – ancora una volta – pesa molto di più sull’Europa che non sugli Stati Uniti. Il caro energia infatti impatta negativamente soprattutto sui paesi importatori di gas e di petrolio, mentre gli Usa – essendo ormai un paese esportatore di petrolio – non ci perderà, anzi a volte potrà guadagnarci, poiché col rialzo dei prezzi potrà esportare più vantaggiosamente i suoi prodotti energetici.

Ma anche per gli Usa – che devono questa “rinascita” come esportatori di greggio e gas unicamente allo sfruttamento dello shale oil (molto più costosa da estrarre, anche dal punto di vista ambientale – la situazione a medio termine non è rosea.

Quel vantaggio, infatti, esiste finché il prezzo del greggio, come in questo momento, è molto alto. Altrimenti sono obbligati a tornare “importatori”, e a ritrovarsi nella stessa condizione degli europei.

Insomma, per quanto cinici, anche “i mercati” debbono andare a tentoni…

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *