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Ricattare Mosca anche sul gas? Un po’ complicato…

Sanzioni, sanzioni, sanzioni… L’Occidente neoliberista è alla ricerca della massima efficacia nella risposta all’occupazione russa dell’Ucraina, evitando però con cura – per ora – tutte le mosse che potrebbero significare una dichiarazione di guerra a Mosca.

C’è da dire che molti esaltati pro-Nato hanno superato di gran lunga l’animosità verbale della casa-madre. Quanti, per esempio, chiedono l’approvazione immediata della domanda di ammissione all’Unione Europea (firmata solo ieri da Zelenskij, pare), sembrano non rendersi conto che ammettere ora Kiev nella Ue significherebbe di fatto entrare in guerra direttamente.

Proprio noi, abituati da decenni ad immaginare che la guerra sia osservare i bombardamenti Usa e Nato, col culo al caldo e davanti alla tv.

Una “Unione”, infatti, non potrebbe evitare di proteggere anche militarmente una “propria parte”.

Esaltati a parte, comunque qualcosa di molto rilevante sta accadendo.

Sul piano puramente finanziario “mettere sanzioni” è relativamente facile a dirsi e anche a farsi (sono programmi informatici da modificare in pochi passaggi). Più complicato è tener presente le conseguenze di una sanzione finanziaria anti-russa sulla propria struttura economica.

Per esempio: impedire alle banche russe di operare in Occidente e viceversa a quelle occidentali di operare laggiù è una mossa che destabilizza buona parte del sistema bancario occidentale. Un paio di numeri: Unicredit, l’istituto italiano più “esposto” verso Mosca, ha perso in borsa oltre il 10% lunedì ed ha proseguito la caduta anche ieri. Idem o quasi per IntesaSanPaolo, appena leggermente meno negativa.

Ma sono giorni neri per tutte le banche europee, visto che il clima di guerra non rassicura certo sulla possibilità di fa rientrare rientrare i prestiti concessi non solo in Russia e Bielorussia, ma anche e soprattutto ad aziende europee impegnate nell’import-export con quei paesi (e che col decoupling in atto, e soprattutto quello prevedibile, finiranno per pagare un prezzo molto pesante alla crisi).

Quando dalla finanza si passa alle materie prime il discorso si fa ancora più complicato, per i paesi europei.

Il gas, di fatto, viene escluso da ogni ipotesi di sanzione, almeno nell’immediato. E si capisce facilmente, visto che Germania e Italia dipendono almeno per il 40% dal gas russo. E anche altri paesi stanno su livelli appena minori.

Ma è difficile immaginare che su questa e altre materie prime fondamentali – a cominciare da quelle energetiche – possa andare avanti il business as usual mentre su tutti gli altri piani si tiene un atteggiamento reciprocamente “bellicoso”.

Ed in ogni caso non si può neanche pensare che “dall’altra parte” si resti disponibili in eterno a rifornire di energia un blocco di paesi che si contrappone in termini economici, politici, finanziari, con il dichiarato intento di fare guerra anche questi mezzi.

Non a caso l’agenzia Agi – di proprietà dell’Eni, quindi bene informata in materia – si concentra con un lungo articolo sul gasdotto russo-cinese, proprio nelle stesse ore che Luigi Di Maio – ahinoi ministro degli esteri italiano – firmava ad Algeri nuovi contratti per aumentare la fornitura da quel paese, esplicitando che la “diversificazione” degli approvvigionamenti è chiaramente in funzione anti-russa.

Questo gigantesco gasdotto è stato inaugurato il 2 dicembre del 2019 dal presidente Vladimir Putin e da quello cinese Xi Jinping. “Power of Siberia” è lungo 4.000 km e porta il gas russo dagli enormi giacimenti siberiani di Kovyktinskoye e Chayandinskoye sino a Blagoveshchensk, la città russa sul fiume Amur che segna il confine fra Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese.

Del resto – spiega l’Agi – è la rotta a cui la Russia lavora da anni per “emanciparsi” dai clienti europei, che da altrettanto tempo sostenevano l’espansione della Nato ad Est. Perché è vero che l’Europa dipende dal gas russo ma è altrettanto valido il discorso contrario. E quindi lo “sganciamento” avviene da entrambi i lati, non può essere immaginato come un “nostro dispetto” a Putin, ma senza conseguenze di rilievo.

Nel 2021 Power of Siberia ha esportato 16,5 miliardi di metri cubi di gas verso la Cina. Entro il 2025, l’export dovrebbe salire a 38 miliardi di metri cubi l’anno. Il contratto tra Gazprom e China National Petroleum Corporation ha una durata 30ennale e l’infrastruttura ha un valore di 400 miliardi di dollari.

Le attuali esportazioni di gas alla Cina attraverso il gasdotto Power of Siberia 1 sono alimentate da giacimenti di gas della Siberia orientale e la rotta dell’Estremo Oriente recentemente concordata (via Sakhalin) è separata dalla rete europea del gas. 

Come accaduto per il gasdotto europeo Nord Stream con la pipeline gemella (Nord Stream 2), anche per il gasdotto sino-russo è stato realizzato un progetto speculare inaugurato a inizio febbraio di quest’anno.

In occasione dell’inizio delle Olimpiadi invernali in Cina, Putin e Xi hanno siglato un altro accordo per un nuovo gasdotto (Power of Siberia 2) che rifornirà la Cina con altri 10 miliardi mc di gas. I primi flussi dovrebbero attraversare la pipeline nel 2026.

L’accordo potrebbe garantire alla Russia circa 37,5 miliardi di dollari in 25 anni considerando un prezzo medio di 150 dollari per 1.000 mc di gas che viene applicato tra i due paesi. A regime, secondo alcune stime, la vendita di gas potrebbe garantire a Mosca circa 100 miliardi di euro.

Al di là della situazione che si è creata in Ucraina, è da tempo che Putin guarda ai mercati dell’est asiatico. Le prospettive limitate di crescita a lungo termine del consumo di gas in un’Europa – che aveva almeno propagandisticamente puntato sul decarbonizzazione, fonti green e allentamento della dipendenza energetica dalla Russia – hanno spinto Mosca a considerare rotte di esportazione alternative all’Ue.

L’interscambio commerciale tra Cina e Russia ha così raggiunto il volume record di 146,88 miliardi di dollari nel 2021, un +35,8% annuo, secondo i dati pubblicati dalle dogane cinesi. Per il 2024 l’obiettivo è arrivare a 200 miliardi.
Sempre lo scorso anno la Cina ha rappresentato circa il 18% del fatturato commerciale complessivo della Russia. Al contrario, la quota russa del fatturato commerciale cinese è stata poco più del 2%. 

Tuttavia oggi l’Europa rappresenta ancora il maggior cliente della Russia per quanto riguarda il gas, con l’83% delle forniture totale. Ci si aspetta che il mercato globale del gas rimanga sostenuto fino al 2024, ma non oltre. Nel 2025 dovrebbe aggiungersi, a livello globale, una grande fornitura supplementare di Gnl proveniente da un mega giacimento in Qatar. Le ingenti quantità di gas di Doha allenteranno inevitabilmente il mercato mondiale, diminuendo il potere negoziale di Mosca.

La Russia continua a essere il primo esportatore di gas naturale al mondo, con oltre 247 miliardi di metri cubi di gas esportati (anno 2018), 200 dei quali diretti verso i mercati europei, fra cui anche l’Italia, che si attesta come il terzo importatore, dopo Germania e Turchia, con circa 22 miliardi di metri cubi.

L’export di risorse naturali, primi fra tutti petrolio e gas, è una componente fondamentale del bilancio statale russo. Nel bimestre agosto-settembre 2019 l’export di idrocarburi è stato pari al 65,38% dell’intero volume di esportazioni della Federazione e nel 2018 l’intero settore rappresentava oltre il 40% delle entrate di bilancio. 

La Cina rappresenta invece il principale mercato in espansione del gas naturale complice il progressivo abbandono del carbone del Paese. L’Agenzia Internazionale per l’Energia (Aie) stima che fra il 2018 e il 2024 Pechino conterà per circa il 40% dell’intera crescita globale nel consumo di gas naturale. 

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