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Occhi sulla Fed, ma senza sperare in miracoli

Una crisi che dura da quindici anni e da cui non si è mai usciti davvero, nonostante la “finanza creativa” e il whatever it takes che ha reso Draghi famoso nonostante che la sua soluzione – quantitative easing, ossia denaro fresco di stampa regalato ai principali operatori di mercato – abbiano solo spostato di qualche anno la resa dei conti.

Anche i media economici enumerano i grandi momenti di panico del mercato globale – 2008: fallimento di Lehmann Brothers e decine di salvataggi di banche a carico del bilancio federale Usa, identica soluzione presa dopo qualche mese dalla Bce, poi la pandemia (anche 10% in meno sulla crescita occidentale), poi l’esplosione dei prezzi delle materie prime, il veloce aumento dell’inflazione e infine la guerra.

Come sempre, quando il quadro è così fosco, tutti gli occhi si rivolgono verso la Federal Reserve statunitense, abituati come sono a considerarla il faro della globalizzazione a egemonia Usa (e del dollaro). In settimana si riusce il Fomc – i comitato operativo – per decidere un rialzo dei tassi di interesse.

Sarà il secondo in pochi mesi, dopo quasi un decennio di tassi zero, acquisto di ogni tipo di titolo (specie di derivati dal valore ignoto), soldi regalati e interessi negativi sul denaro da prestito (un controsenso, nell’economia capitalistica). Gli analisti prevedono che sarà un rialzo consistente – lo 0,5%, dopo lo 0,25% precedente – per dare un robusto segnale ai mercati sull’intenzione di combattere l’inflazione (negli Usa arrivata all’8,5%).

Il problema è che questa strategia – aumentare i tassi di interesse per “raffreddare” l’economia e gli aumenti dei prezzi – ha un senso quando l’economia “corre troppo”, innescando aumenti sia delle merci che dei salari. In pratica, si rende più costoso il denaro da prestito e si scoraggiano i nuovi investimenti, costringendo le imprese a meditare meglio sulle proprie strategia di mercato.

Ma in questo momento l’economia neoliberista occidentale è quasi ferma. Negli Usa si è registrato addirittura un arretramento dell’1,4% nel primo trimestre di quest’anno. Se anche il secondo desse risultati simili gli Usa sarebbe “tecnicamente” in recessione.

Ben che vada, insomma, possono sperare in uno stentato risultato positivo, come in Europa, se la guerra si fermerà nelle prossime settimane…

E già questi pochi elementi concorrono a disegnare un quadro imprevisto dai manuali di macroeconomia monetaria che costituiscono la bussola per i banchieri ventrali.

L’economia è in stagnazione e andrebbe semmai “stimolata”: o con investimenti pubblici (che il Congresso Usa per il momento osteggia), o con la diminuzione dei tassi di interesse.

L’inflazione è “esogena”, ossia ha le sue cause non nella forte dinamica economica ma nella scarsità di risorse immediatamente disponibili, dopo che per due anni la pandemia aveva fatto contrarre produzione di semilavorati ed estrazione di materie prime, soprattutto energetiche.

In più c’è la guerra in Ucraina e le sanzioni a raffica prese nei confronti della Russia, che danneggiano però soprattutto l’economia e le imprese europee. Persino Luca Ricolfi, addirittura su Repubblica, ha dovuto spendersi in “parole di pace” fondando la sua analisi sulla divergenza strategica di interessi tra Europa e Stati Uniti:

Primo, perché le sanzioni che infliggiamo alla Russia sono catastrofiche per le economie europee (specie di Germania e Italia), ma fanno appena il solletico all’economia americana.

Secondo, perché un eventuale allargamento del conflitto toccherebbe innanzitutto l’Europa, mentre difficilmente metterebbe a repentaglio la sicurezza degli americani.

Terzo, perché, per vari motivi, il rischio nucleare che corre l’Europa è incomparabilmente superiore a quello degli Stati Uniti (le centrali nucleari a rischio sono tutte in Ucraina, l’eventualità di un attacco nucleare russo agli Stati Uniti è remota).

Tenendo conto, se non di tutto, almento di questa serie di fattori più evidenti, è chiaro che la Federal Reserve – qualsiasi decisione prenda – farà scelte dolorose per molti. Una frenata aggiuntiva dell’economia americana, infatti, si riverbera immediatamente sui paesi che hanno negli Usa lo sbocco commerciale principale (l’Europa, appunto, e la Germania in primo luogo).

Ma ne ha anche sui lavoratori statunitensi, che già si ritrovano con salari bloccati da una vita. Inflazione e frenata – “stagflazione”, si usa definirla – impediscono di ottenere aumenti salariali mentre l’inflazione si divora parte del reddito mensile (per non dire degli eventuali risparmi).

E così a cascata su tutta la catena del valore che ha negli Usa origine o fine.

Su una sola cosa l’aumento dei tassi avrà un’influenza “positiva”, e soltanto per gli Stati Uniti. Trovando una remunerazione maggiore, dopo anni di interessi zero, una massa spaventosa di capitale finanziario lascerà i lidi di mezzo mondo per riversarsi tra Washington e Los Angeles.

Il “sogno americano” si è ristretto a questo solo movimento. Ci riuscì Paul Volcker, quando Reagan entrò alla casa Bianca nel 1980. Fu l’inaugurazione della stagione neoliberista, con i “Chicago Boys” ai posti di comando.

Ma è sempre difficile che le ricette usate per aprire un ciclo possano riuscire anche quando quel ciclo è giunto alla fine. Quel mondo non esiste più, e anche quelle “soluzioni” oggi moltiplicano i problemi invece di risolverli.

Lo sanno anche “i mercati”, che hanno smesso di festeggiare…

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