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Pochi investimenti, niente crescita, bassi salari

Il declino o lo sviluppo di un paese capitalistico dipendono, quasi in pari misura, dalla capacità di progettazione/programmazione della sua classe politica e dalla efficacia dei suoi imprenditori (idee, metodi, tecnologie, ecc).

Mettiamo una lapide sopra la classe politica, praticamente scomparsa fin dalla fine della Prima Repubblica – non che quella precedente fosse fatta di geni, anzi… – e ridotta rapidamente a mera esecutrice delle volontà del “mondo degli affari”, peraltro molto differenziato negli interessi immediati e di lungo periodo tra piccola e media borghesia “nazionale”, settori di borghesia europea o addirittura “euro-atlantica” (Agnelli, Benetton, famiglia Rocca, Del Vecchio, ecc), oltre che naturalmente delle grandi multinazionali e degli squali della finanza.

Cos’altro può significare la frase, spesso ripetuta a pappagallo dagli esponenti della classe politica – “attrarre i capitali stranieri” – se non fare tutto ciò che serve loro (leggi, infrastrutture, incentivi, esenzioni, facilitazioni, precarizzazione contrattuale, ecc) per massimizzare i profitti?

Tutta questa “attrazione”, almeno, è servita a far sviluppare la capacità industriale del paese, migliorare la qualità della vita e la ricchezza generale della popolazione? La risposta è intuitiva e la conoscete benissimo: neanche un po’, anzi…

Il perché di questo clamoroso fallimento imprenditoriale è spiegato con lancinante chiarezza da un editoriale dell’Agenzia TeleBorsa (non proprio il tempio del marxismo-leninismo, diciamo), a firma dell’ex vicedirettore di palazzo Chigi, Guido Salerno Aletta.

E si può riassumere in due parole: assenza di investimenti.

Eppure le imprese operanti in Italia fanno profitti. Dove vanno a finire?

Soprattutto in prodotti finanziari, nell’economia “di carta”, non in quella reale. Se investissero almeno parte di quei profitti in aggiornamento di tecnologie produttive più moderne ed efficienti, potrebbero tranquillamente tenere il passo della competizione internazionale, pagare anche salari più alti, vendere di più anche sul mercato interno. Più investimenti significa aumento della produttività (più beni prodotti per unità lavorativa)

Invece la chiave della “competitività”, per gli imprenditori qui operanti (e indipendentemente dal passaporto che hanno in tasca), si fonda soprattutto sui bassi salari. Gli unici, in Europa, che negli ultimi 30 anni siano mediamente diminuiti. Tanto che gli avvoltoi di Confindustria e ConfCommercio indicano la miseri adel reddito di cittadinanza – 580 euro, in media – come un pericolo “competitor” con quel che offrono…

Questo, per un paio di decenni, ha garantito buoni profitti senza spendere in investimenti molto più di quanto necessario per la sostituzione e manutenzione dei macchinari. Ma al tempo stesso, strozzando i lavoratori dipendenti – e a cascata i pensionati, i giovani in cerca di prima occupazione, le entrate fiscali dello Stato, ecc – ha strangolato la domanda interna. Ossia la quota maggioritaria del “mercato”!

Per quanto si possano infatti incrementare le esportazioni grazie ai costi più bassi, infatti, queste restano una percentuale non maggioritaria del mercato potenziale. Dunque, alla fin fine, restringono la propria stessa possibilità di realizzare altri profitti vendendo di più.

Una avidità senza limiti che ricade come un macigno sulle possibilità di sviluppo del paese, immobilizzato e rotolante su un piano inclinato in fondo al quale c’è il concreto spettro dell’uscita dal novero dei paesi più industrializzati.

Avidi, certamente, ma soprattutto imbecilli…

A voi l’analisi, impietosa, di Salerno Aletta.

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Pochi Investimenti, Niente Crescita, Bassi Salari

Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa

La recente polemica sulla difficoltà di trovare manodopera stagionale nel settore del turismo e della ristorazione vede contrapporsi l’opinione di coloro che sostengono che i salari offerti sarebbero troppo bassi rispetto a quella di coloro che ritengono, al contrario, che il Reddito di cittadinanza è troppo generoso e rappresenta un disincentivo al lavoro.

Questa contrapposizione riporta al centro del dibattito la questione salariale, che da troppi anni trascura sia il tema della formazione professionale che quello della produttività.

La posizione dei sindacati è radicalmente cambiata nel corso dei decenni: negli anni sessanta, gli aumenti il salario venivano rivendicati come variabile indipendente, negli anni settanta resistevano nella difesa della scala mobile che era considerata colpevole di alimentare l’inflazione con la rincorsa tra prezzi e salari; all’inizio degli anni novanta si sedettero al tavolo della concertazione per sottoscrivere gli accordi sulla moderazione salariale.

Da allora, in pratica da trent’anni, il sistema produttivo italiano e la normativa sul lavoro si sono concentrati solo sul controllo della dinamica salariale intervenendo soprattutto sulla flessibilità del lavoro, in particolare quello dei più giovani, usando la leva della precarizzazione del rapporto e la introduzione di forme atipiche di impiego rispetto al tradizionale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato: l’obiettivo è stato solo quello di ridurne comunque il costo al fine di migliorare la competitività delle imprese.

Se ogni imprenditore cerca correttamente di ottimizzare tutti i suoi costi di produzione, quello del lavoro è divenuto centrale nella dinamica economica italiana. Ma puntare solo sulla riduzione dei salari ha significato, a livello macroeconomico, ridurre la capacita di spesa complessiva delle famiglie e dunque anche i loro consumi.

D’altra parte, se i consumi interni non crescono non c’è alcuna convenienza ad investire per soddisfare la maggiore domanda: non resta che puntare sul mercato estero. E’ pur vero che la deflazione salariale ha portato in attivo il saldo commerciale, ma la componente dell’export non è assolutamente in grado di compensare la carenza di domanda interna.

Come se non bastasse, a partire dal 2012 il Fiscal Compact ha puntato su una crescita non inflazionistica dell’economia, individuando paradossalmente come obiettivo politico il mantenimento della disoccupazione ad un livello elevato, che non va dunque ridotto, tale da evitare richieste salariali incompatibili con la stabilità dei prezzi.

Praticamente, la lotta all’inflazione è stata fatta tenendo alta la disoccupazione e bassi i salari.

La chiave di tutto, per aumentare i salari senza creare inflazione mantenendo il necessario profitto per le imprese, sta nella dinamica sostenuta degli investimenti nell’economia reale: non in quelli finanziari, speculativi, che non modificano affatto né la produttività del lavoro né quella generale.

Aumentare la produttività del lavoro significa fare in modo che per ogni ora lavorata il prodotto abbia un valore maggiore sul mercato: un risultato che si raggiunge migliorando la organizzazione produttiva, rendendola più efficiente con macchinari più moderni, che consumano meno energia o che producano meno scarti, o realizzando prodotti di migliore qualità che si vendono a prezzi superiori.

A fronte degli investimenti netti, quelli che si aggiungono al mero rimpiazzo di quelli preesistenti che vengono ammortizzati, ci sono i maggiori incassi dalle vendite che consentono all’impresa di aumentare i salari orari senza compromettere il profitto. Solo così c’è crescita economica e crescita dei salari

Sono i numeri dell’economia italiana ad essere impietosi.

A prezzi costanti riferiti ai valori del 2015, la spesa per consumi finali delle famiglie era stata di 920 miliardi di euro nel 1997. Nel 2021, ben venticinque anni dopo, la spesa era stata di 984 miliardi rispetto al picco di 1.050 miliardi del 2008. Le famiglie italiane spendono dunque ancora meno soldi rispetto a tredici anni prima.

Gli investimenti fissi netti sono crollati: venticinque anni fa, nel 1997 erano stati pari a 49 miliardi di euro: dopo essere aumentati a 72 miliardi nel 2002, poi sono scesi in continuazione, arrivando a livelli addirittura negativi nel quinquennio 2013-2017: in pratica, la dotazione di investimenti fissi si è ridotta.

Nel 2018 gli investimenti fissi netti sono arrivati ad appena 5 miliardi di euro, per salire a 6,7 miliardi nel 2019 e poi precipitare ad un drammatico rosso di -22 miliardi nel 2020 quando c’è stata la crisi indotta dalla epidemia di Covid. Ancora nel 2021, con appena 24 miliardi di euro, sono stati pari alla metà di quelli effettuati nel 1997.

I risparmi delle famiglie, i profitti delle imprese ed i dividendi sono stati investiti sempre di più in prodotti speculativi che poco o nulla hanno a che vedere con l’economia reale.

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1 Commento


  • luigi pascale

    istruttivo e completo

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