Il ritorno dell’inflazione ha evidenziato uno dei problemi principali che caratterizzano l’economia italiana, quello dei bassi salari. L’anno scorso, a fronte di un aumento dell’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato (IPCA) del 8,7 per cento, gli aumenti salariali negoziati tramite contrattazione collettiva sono stati in media del 1,1 per cento (dati ISTAT).
Questo ha comportato un divario fra retribuzioni contrattuali e inflazione del 7,6 per cento, il dato più alto dal 2001, primo anno di diffusione dell’indicatore dei prezzi armonizzato a livello europeo.
La situazione è ancora più grave se si considera che il calo dei salari reali dell’anno passato va ad aggiungersi ad un quadro già deprimente. Secondo il Global Wage Report recentemente pubblicato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, i lavoratori e le lavoratrici in Italia hanno subito un taglio del salario reale del 12 per cento fra 2008 e 2022, in controtendenza rispetto ad altre economie europee come Germania e Francia, che hanno registrato, rispettivamente, una crescita del 12 e 6 per cento nello stesso periodo.
L’Italia presenta anche una percentuale di lavoratori e lavoratrici a rischio di povertà dell’11.8 per cento, quasi tre punti in più della media UE (dati Eurostat del 2019). Un risultato figlio non solo della stagnazione ormai trentennale dell’economia italiana, ma anche di politiche messe in atto dai vari governi succedutisi durante la crisi dell’eurozona, che hanno seguito una strategia di svalutazione interna volta a ridurre il costo del lavoro per aumentare la competitività nazionale.
Dopo lo smantellamento dei meccanismi di indicizzazione salariale (la cosiddetta ‘scala mobile’) negli anni ’80 e ’90, gli accordi più recenti fra le parti sociali, da ultimo il Patto della Fabbrica siglato da Confindustria e CGIL-CISL-UIL nel 2018, prevedono un meccanismo di compensazione dell’inflazione per i minimi salariali basato sull’inflazione calcolata al netto della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati (IPCA-NEI).
Ma dato che in Europa l’attuale ondata inflativa è largamente legata all’andamento dei prezzi dell’energia, che a sua volta ha un impatto maggiore in Italia a causa della sua dipendenza energetica, l’indice da usare per la compensazione nei contratti collettivi è ben al di sotto della crescita generale dei prezzi: a fronte di un’inflazione per il 2022 all’8,7 per cento, l’ISTAT ha stimato l’IPCA-NEI al 4,7.
Non sorprende quindi che già a febbraio 2022, a fronte di un’inflazione generale al ‘solo’ 5 per cento, il leader della UIL Bombardieri sia arrivato a dichiarare che il Patto della Fabbrica ‘non esiste più’.
La crescita dei salari negoziati nel 2022 si è attestata ad un livello ben più basso dell’inflazione, anche se depurata dall’andamento dei prezzi energetici. In parte, questo dipende dal fatto che il meccanismo di compensazione dell’IPCA-NEI in alcuni settori si attiva ex post (su questo, il Patto della Fabbrica lascia libertà a ciascun settore). Nel caso del contratto nazionale del settore metalmeccanico, ad esempio, la compensazione rispetto al 2022 sarà decisa a giugno 2023 (ossia dopo la pubblicazione delle stime aggiornate dell’ISTAT).
C’è poi il problema dei contratti scaduti: l’ISTAT stima che circa la metà dei lavoratori dipendenti a fine 2022 sia in attesa di rinnovo. I contratti nazionali firmati nel settore pubblico nel 2022, che hanno registrato aumenti mediamente più alti, a fronte però di un periodo di blocco totale della contrattazione durante la crisi dell’Eurozona, sono entrati in vigore già scaduti, riferendosi in gran parte al triennio 2019-2021.
Difficile poi pensare, come suggerisce Confindustria, che la soluzione sia la contrattazione a livello aziendale, vista la preponderanza delle piccole e medie imprese in Italia dove questa è assente.
In questo scenario, è stato evocato da più parti – ad esempio dalla ex presidente confindustriale Emma Marcegaglia – ‘lo spirito del 1993’, ossia gli accordi tripartiti firmati sotto l’egida del governo tecnico a guida Ciampi volti ad assicurare l’ingresso dell’Italia nell’euro, che hanno plasmato la forma delle relazioni industriali attuali. Ma è esattamente quell’architettura istituzionale che ha governato tre decenni di stagnazione salariale.
Come ricordato dall’economista Servaas Storm in un articolo sulla disastrosa situazione economica italiana, fra 1992 e 1999 la crescita annuale media dei salari reali è stata dello 0.1 per cento, e dello 0.6 per cento fra 1999 e 2008, per poi andare largamente in territorio negativo, come evidenziato dal Wage Report dell’OIL.
A fronte del crollo continuato dei salari reali, il sindacato dovrebbe riscoprire la conflittualità. In effetti l’inflazione è una forma di conflitto distributivo.
In un recente intervento al Centre for European Reform a Londra, Fabio Panetta, membro del Comitato Esecutivo della Banca Centrale Europea, ha osservato che finora a pagare gli effetti dell’inflazione sono stati i lavoratori e le lavoratrici più che le imprese, che hanno mantenuto i propri margini o in alcuni settori li hanno addirittura aumentati.
Infine i dati sui salari reali e sul lavoro povero evidenziano quanto i lavoratori e le lavoratrici in Italia potrebbero beneficiare dell’introduzione di un salario minimo in aggiunta alla contrattazione collettiva.
In vari paesi europei in cui il salario minimo è già stato introdotto, nel corso dell’ultimo anno il suo livello è stato aumentato in maniera significativa per far fronte all’aumento del costo della vita, che colpisce in maniera disproporzionata le famiglie a più basso reddito.
Fra gennaio 2022 e 2023, in Germania, il salario minimo è stato aumentato del 22.2 per cento (dati Eurofound), sia per garantirne l’adeguatezza rispetto ai salari medi e mediani, sia per far fronte all’inflazione. Nei Paesi Bassi, il governo ha deciso di aumentare il salario minimo in maniera superiore agli andamenti previsti dalla contrattazione collettiva, per far fronte all’effetto dell’inflazione.
Peraltro la direttiva europea sui salari minimi adeguati, approvata nell’autunno del 2022, suggerisce a quei paesi che hanno già in vigore un salario minimo legale una serie di indicatori di adeguatezza, fra cui l’indicizzazione del salario all’inflazione.
Se a determinare chi paga l’effetto dell’inflazione fra capitale e lavoro è la forza contrattuale delle parti, l’introduzione di un salario minimo adeguato potrebbe giocare un ruolo importante nel rafforzare quella dei lavoratori e delle lavoratrici in Italia.
* da Sbilanciamoci.info
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